Una
riflessione sull'arte difficile (e pericolosa) di fare satira. E non
solo oggi...
Guido Ceronetti
Il satirico
nell’imbarazzo
Se mi fosse domandato di definire che tipo di scrittore sono, o sono stato, naturalmente risponderei: «Uno scrittore satirico». Ma la Satira, Dea di ogni tempo — occorre dirlo? — non ha che incidentalmente il fine di colpire persone del potere o genericamente la politica di un’epoca o di uno Stato (anche Città-Stato, esempio luminoso Atene).
Bevendo latte di Graecia
capta la scrittura arcaica romana adotta fin dal principio il
meraviglioso dramma satirico plautino, che istruisce il popolo tra le
risate, e annuncia le vette satiriche di Molière e dei suoi comici.
La straordinaria libertà del linguaggio plautino è figlio della
commedia antica di Aristofane. Creazione, come la tragedia della
democrazia ateniese, non certo così estesa e liberale come le
nostre, repubblicane.
La lettura erudita, esoterica, dell’immenso Gulliver di Swift, ha rivelato un segreto ordito di allusioni politiche legate ai costumi del tempo e a storie di Corte, di cui in realtà ai lettori di trecento anni dopo non può importare niente. Sono le tappe di quei fantastici viaggi ad attrarci, scopertamente, e là tutte le acuminate frecce satiriche del Decano hanno per unico bersaglio l’uomo, la vanità dell’esistenza e della storia umana. In questo fu ineguagliabile e rimane solo.
Io credo di aver scoperto
la mia vocazione satirica traducendo integralmente gli Epigrammi di
Valerio Marziale e soprattutto le sedici Satire di Giunio Giovenale,
il più cupo dei latini, il più prossimo in visione repulsiva del
genere umano, di Swift, Bosch, Hogarth... La satira oraziana non dà
ombre a Mecenate, e quella di Montale non inquietò Scelba; ma
Giovenale scrisse il suo libro sotto Traiano, per poter alludere
senza grane al precedente, nordcoreano, regime di Domiziano.
Ne avrebbe oggi, da noi,
democrazia liberale, ma butterata dalla sua degenerazione, in libertà
di stampa condizionata. Giovenale avendo graffiato un poco, e con
stile, le donne, gli omosessuali, i mores invisi ai Romani degli
Ebrei, verrebbe denunciato per omofobia e antisemitismo, deplorato
duramente dai comitati di difesa, dalle associazioni, dagli
editorialisti, uscirebbe dai dibattiti con qualche osso fracassato.
A Hogarth, che dipinge a
tinte fosche i bevitori di gin (Gin Street) e loda le pance gonfie di
birra (Beer Street) farebbero causa agli spacciatori di superacolici
e manderebbero botti ogni capodanno delle loro schiume i birrai.
Immane, violento, chiaroscurale satiro di avvocati, magistrati,
predicatori politici, Honoré Daumier sarebbe perseguitato, al punto
di dover emigrare in America, dalle loro corporazioni di unghioni
lunghi.
Una mia raccolta di testi
satirici, che scherzava con un po’ d’acido su Andreotti e Moro
(ovviamente, prima del rapimento), “La Musa Ulcerosa”, sparì
invenduta dopo pochissimo tempo e oggi è venduta all’asta sulla
Rete. Gheddafi, il compianto colonnello di Giarabub, minacciò di far
saltare “La Stampa” per una elegante canzonatura negli anni di
Arrigo Levi, autori Fruttero e Lucentini.
— Cosa vuoi?, mi diceva un grande satirico come Ennio Flaiano, non si può più fare satira su niente, ti querelano subito, io ho una causa coi marziani di Roma! — Gli risposi che poco mancò io ne ricevessi una dai pizzaioli per aver scritto che la dieta italiana, fondata sulla pizza (e adesso associata all’indigesto kebab) è un cibo che fa ammalare. E adesso, dopo una redazione massacrata a Parigi, vuoi ancora scrivere satire, pover’uomo? Ahimè! La nostra Musa è più che mai ulcerosa ( the cankered Muse la chiama Alexander Pope), e la libertà di esserne devoti è molto incerta, dove prevale il cretino.
Charlie Hébdo , con troppa facilità e rimozione di paura ne siamo sgusciati via, e Papa Francesco, col suo parallelo degli insulti alla mamma ne ha rimpicciolito le dimensioni catastrofiche. Un guerrasantista d’oggi non esiterebbe, a un comandamento divino come quello che fa ad Abramo alzare il coltello sul suo Isacchino, a sacrificare sua madre.
E se un pugno è un
pugno, Santità, un kalashnikov è un kalashnikov, una macchinetta
per sterminare, e chi lo impugna per vendicare una negazione
d’immagine, appartiene a una specie rara di psicopatia criminale.
Ma per lo più non abbiamo definizioni che calzino davvero, queste
apparizioni che si vanno riproducendo dappertutto scherniscono le
nostre limitatissime percezioni razionaliste del Male. Altro freno,
altre manette per il satirico che non sappia oltrepassare quei
limiti. Posso dire, nel mio recinto d’impotenza, che confortava
vedere alla marcia di Parigi la nobile barba del capo della Grande
Moschea che c’è dietro al Jardin des Plantes.
Come direttore del settimanale non avrei pubblicato quelle vignette, per la loro bruttezza e volgarità essenzialmente, ma anche per consapevolezza responsabile dei rischi. Mettere così, ciecamente, la testa sul ceppo non è saggio né responsabile. Un vero satiro è un uomo avveduto, e il suo fine non è di sfidare un potere occulto che ignoriamo ma di castigare ridendo mores . Alla marcia avrei partecipato, conservando il diritto di riserve critiche di fondo.
La Repubblica – 13
febbraio 2015
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