05 marzo 2015

LA MODERNITA' DI BALZAC

Fernand Botero, Picnic


Esce in questi giorni per Sellerio La signorina Cormon: è la prima traduzione italiana, firmata da Francesco Monciatti, di uno dei più importanti romanzi di Balzac, La vieille fille (primo romanzo d’appendice, uscito sulla «Presse» nel 1836). 
Riprendo da http://www.leparoleelecose.it/  l'anticipazione, con tagli e modifiche, di alcuni brani della postfazione di Pierluigi Pellini , che nel libro ha per titolo Miti e termiti, ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità e si legge alle pagine 339-381. 

La modernità è una zitella grassa e sciocca


di Pierluigi Pellini


La signorina Cormon è un capolavoro del romanzo moderno – non (o non solo) del roman-feuilleton. Ed è un testo fra i maggiori della Commedia umana: ne è convinto Balzac, che non esita a definirlo «una delle mie cose migliori» (in una lettera a Madame Hanska, a caldo, il 1° dicembre 1836); e ancora anni dopo, rileggendolo, esprime il timore di «non essere più in grado di fare altrettanto bene» (alla stessa, il 4 maggio 1843). Ne dà conferma – semmai ce ne fosse bisogno – l’opinione di un lettore appassionato e esigente come Marcel Proust, in una lettera a René Boylesve dell’ottobre 1917: «certo, ammiro l’immenso affresco delle Illusioni perdute e di Splendori e miserie, ma questo non mi impedisce di considerare almeno altrettanto grandi [placer au moins aussi haut] Il parroco di Tours, o La signorina Cormon, o La ragazza dagli occhi d’oro». Dell’affascinante e misteriosa Fille aux yeux d’or esistono varie edizioni italiane (si segnala quella curata per Einaudi da Mariolina Bongiovanni Bertini); del meraviglioso Curé de Tours ce n’è attualmente in commercio una sola, per Sellerio; incredibilmente, invece, cataloghi e banche dati che ho potuto consultare non recano traccia di una traduzione italiana della Vieille fille: salvo errore, questa è perciò la prima volta che la storia, esilarante non meno che crudele, della signorina Cormon approda nelle librerie del nostro Paese.
Di questo sorprendente ritardo, se non è semplicemente dovuto ai capricci del caso (e al poco coraggio dei nostri grandi editori: sconcerta che nessuno abbia mai portato a compimento un’edizione integrale della Commedia umana), si possono individuare almeno tre cause. In un primo momento, e poi a lungo, certamente la natura scabrosa di molti passi di un romanzo in cui il tenue velo della reticenza nasconde poco e male (volutamente, va da sé) inequivocabili e a tratti sorprendenti allusioni sessuali. In secondo luogo, e ancora oggi, una lettura superficiale, che vede nella vicenda dell’infelice matrimonio della protagonista nient’altro che una trasparente allegoria politica – e l’allegoria, si sa, non gode da noi di buona stampa (l’inconscio estetico di molta critica italiana è ancora crociano). Infine, e soprattutto: la disperante difficoltà di un testo che, venato a ogni pagina d’ironia e sottilmente teso all’iperbole, ricorre con esuberante baldanza al calembour, al doppio senso salace, all’ammiccamento, così da mettere a durissima prova la perizia del traduttore, ancor più di quanto possano fare molti altri capolavori di Balzac: autore, peraltro, meravigliosamente difficile sempre – a dispetto dell’equivalenza vulgata fra realismo e trasparenza del senso.
Francesco Monciatti ha raccolto la sfida, offrendo una versione che contempera rispetto rigoroso dell’originale e godibile emulazione stilistica: con qualche inflessione arcaizzante, perfettamente intonata all’atmosfera di un racconto tutto giocato, appunto, sul filo dell’antifrasi ironica e dello slittamento iperbolico; e con l’ambizione di ritrovare nella nostra lingua quel registro ambiguo, quel tono sfuggente, capace di tenere in sospeso, per tutto il romanzo, il giudizio del lettore sulla protagonista: che deve risultare, al tempo stesso, grottesca e sublime (e perfino desiderabile). Anche per questo, e non solo per ragioni di opportunità editoriale, alla traduzione letterale del titolo (La vieille fille è La zitella), inevitabilmente connotata, oggi, in senso dispregiativo, si è preferito un più neutro La signorina Cormon.
In realtà, come la critica non ha mancato di notare, anche nella logica della Commedia umana il titolo francese, che sembra promettere la storia di un ‘tipo’ fortemente caratterizzato e largamente rappresentativo, risulta un poco incongruo. Se è vero, infatti, che le zitelle balzachiane si possono distinguere di norma in due categorie – la megera egoista e inacidita da un lato, l’eroina della rinuncia e dell’altruismo dall’altro –, di certo a nessuna delle due può essere ascritta, nella sua complessa, contraddittoria, stupefacente opacità, la signorina Cormon: che, contro ogni apparenza, pur essendo povera di spirito, e senz’altro «sempliciotta», anzi «ignorante come una capra, e anche un po’ scemotta», tutto è fuorché un personaggio ‘semplice’. Al contrario, la sua singolarità è esplicitamente evocata: agli occhi di qualche «donna frivola» (e di molti lettori), la signorina Cormon apparirà inevitabilmente come «una di quelle eccezioni incredibili che il buon senso proibisce di presentare come esemplari».
Il narratore non perde occasione per sottolineare la sua stolida ingenuità; mai, tuttavia, manifesta nei suoi confronti astio o disprezzo. Se altre donne nubili e non più giovani – su tutte, l’orribile signorina Gamard del Parroco di Tours – offrono programmaticamente esempio dei danni del celibato (aberrazione foriera, nella versione più rigida dell’ideologia balzachiana, di un meschino e quasi maniacale egoismo: così la Prefazione di Pierrette, del 1840); se alcune rare perle di abnegazione – come Pauline de Villenoix in Louis Lambert o Armande d’Esgrignon nel Gabinetto della antichità – trasformano la rinuncia ai piaceri matrimoniali in missione quasi sacrificale; per parte sua, meno unilaterale e più oscillante, la ricca ereditiera di Alençon, pur cominciando a mostrare, dopo i quarant’anni, qualche sintomo di piccata disillusione, pur tenendo in varie occasioni un comportamento «innocentemente egoista» (Berthier), non ha rinunciato alla speranza di metter su famiglia e anzi deborda di una, sia pure potenziale, materna generosità. Soprattutto, ha in Dio una fede schietta e immacolata (virtù somma per il cattolico Balzac), che la rende superiore a ogni calcolo interessato, a ogni degradante meschinità. E tuttavia la sincera devozione non vale a sottrarla al richiamo prepotente del «sangue» e dei sensi, alle «tribolazioni di una verginità prolungatasi oltre misura»: tribolazioni compensate, nell’immaginazione notturna, da «matrimoni fantastici» con uomini piacenti, e più giovani di lei; o anche con un aitante soldato, poco versato nelle buone maniere e perfino «oberato dai debiti»: ‘matrimoni’ di cui, la mattina, serba testimonianza, agli occhi della cameriera, il letto «tutto disfatto».
Probabilmente, come ha sostenuto Pierre-Georges Castex, molti degli attacchi subiti, sulla stampa concorrente, dalla Signorina Cormon, al momento della pubblicazione sulla «Presse», avevano natura pretestuosa: vero bersaglio essendo Girardin e la sua aggressiva operazione commerciale; nondimeno è certo che una così esplicita esibizione del desiderio femminile – tabù per eccellenza nella cultura borghese ottocentesca (e non solo) – non poteva non suscitare l’orripilata ripulsa dei lettori benpensanti. Per antonomasia romanziere della donna (di trent’anni, e non solo), Balzac esplora psiche, corpo, pulsioni femminili con acutissima, affascinata curiosità. Né il velo ambiguo del comico inficia la serietà del racconto: per l’essenziale, quello della signorina Cormon è dramma, non farsa; e la sua protagonista – proprio perché mediocre, contraddittoria, inchiodata alla materialità del corpo; e al tempo stesso tenera e purissima – conta fra i più esemplari personaggi del novel ottocentesco; è realizzazione perfetta dell’idea di romanzo esposta da Félix Davin, evidentemente ventriloquo di Balzac, nell’Introduzione agli Studi di costume nel secolo XIX (1835): «È una successione di piccole cause che produce effetti potenti, è la fusione terribile di triviale e sublime, di patetico e grottesco».

È vero: La signorina Cormon è anche un’allegoria storico-politica. L’ingenua protagonista, zitella per l’epoca oltremodo attempata e nondimeno tormentata da una vera e propria ossessione matrimoniale, è figura della Francia, o quantomeno di quella France profonde, di quella provincia tradizionalista e un po’ ottusa che – nella realtà storica come nel mondo parallelo della Commedia umana – è contraltare e necessario complemento del vorticoso fervore parigino. Non a caso, Rose-Marie-Victoire Cormon è l’ultima discendente di una famiglia di origini borghesi, ma da secoli arricchita e imparentata con la nobiltà: come il suo «salotto variegato», dove possono incontrarsi notabili di diversa estrazione, la zitella è una sorta di terreno neutro, oggetto – simbolico non meno che economico – delle mire delle opposte fazioni. E infatti i suoi due più accreditati pretendenti, il cavaliere di Valois e il signor du Bousquier, riassumono in sé i tratti di due diversi momenti della storia francese, di due diversi sistemi politici, di due classi sociali nemiche: Ancien Régime e Rivoluzione, monarchia e repubblica, aristocrazia e borghesia.
Però l’allegoria s’incarna. I due protagonisti maschili sono personaggi fra i più riusciti della Commedia umana perché frutto maturo di quello storicismo balzachiano che proprio nella Signorina Cormon trova una formulazione metaforica memorabile: «Le epoche stingono sugli uomini che le attraversano». Fra i molti, e non di rado strampalati, che scandiscono le pagine di Balzac, questo «assioma», come ha mostrato Erich Auerbach in Mimesis, è quello che meglio rappresenta la novità del realismo di primo Ottocento: non più disposto a fare astrazione da quanto persone in carne e ossa e personaggi di carta devono ai tempi e agli ambienti in cui si trovano a vivere; deciso a mettere in risalto quelle sfumature di colore che quasi insensibilmente gli eventi storici, l’immaginario di un secolo o di un decennio, e perfino gli oggetti dell’uso quotidiano, proiettano su una natura umana non più vagheggiata nella sua atemporale universalità; e convinto di poter ritrovare nell’oscura banalità della più ordinaria vita privata la stessa intensità di passione, la stessa complessità, lo stesso interesse narrativo evidenti nei più drammatici conflitti che segnano il corso delle vicende pubbliche: perché – altro assioma decisivo incastonato nel testo – «non c’è nessuno che abbia una vita così semplice come quella che gli attribuiscono gli invidiosi».
Ma nella Signorina Cormon l’allegoria s’incarna anche, e forse soprattutto, perché uno snodo decisivo della storia di Francia sembra trovare il suo deludente scioglimento nella concreta materialità del corpo e del linguaggio. Se in tutto il romanzo, come ha scritto Philippe Hamon, vige «una sorta di auto-riflessività globale e permanente», lontanissima dal presunto ‘grado zero’ della scrittura realista, è perché l’ambivalenza dell’espressione ironica – anche preterintenzionale: la protagonista «è specialista del gioco di parole involontario» (ancora Hamon) – e perfino la facile ecolalia del doppio senso a buon mercato (di cui è campione, en abyme, un personaggio secondario, du Coudrai) si fanno figura di un’ambiguità storica, assurgono a perfetto equivalente dell’inestricabile confusione socio-politica dei decenni postrivoluzionari. E il nome stesso dell’illibata protagonista ne svela, per virtù del significante, le segrete pulsioni: Cormon, in anagramma (graficamente parziale, ma foneticamente perfetto), è infatti Mon Cor(ps), ‘il mio corpo’. Fin dall’iscrizione all’anagrafe, la massiccia eroina della devozione e della castità cede perciò alle lusinghe della carne, si conforma a un destino creaturale che rivela il legame inscindibile fra politica e biologia, fra sfera pubblica e desiderio privato, fra economia e erotismo. E davvero è sul suo corpo, al tempo stesso concretissimo e allegorico, che si consuma lo scontro per il predominio economico e politico nella città di Alençon.
La trama del romanzo è tanto esile, la sua importanza tanto secondaria rispetto alle descrizioni che la preparano e ai virtuosismi linguistici che la complicano, che di certo non si fa torto al lettore spiattellandola in compendio: la devota Rose-Marie-Victoire, la cui mente ottusa nemmeno per un istante potrebbe contemplare l’idea di farsi un amante, non per altro si sposa che per tardiva, prepotente pulsione sessuale, alla bell’e meglio sublimata in desiderio di maternità (parossistico al punto da diventare quasi blasfemo: «lo acquisterei, un bambino, anche in cambio di cento anni d’inferno!»). Contro il proprio gusto, contro i propri principi, sceglie il rozzo du Bousquier, uomo della Rivoluzione passato, per mero calcolo ipocrita (l’azione inizia nel 1816 e si svolge per l’essenziale nel quindicennio della Restaurazione borbonica), al partito monarchico-costituzionale; rifiuta invece l’elegante cavaliere di Valois, nelle cui braccia la spingerebbero («da dodici anni»!) convinzioni politiche e inclinazione personale.
Il fatto è che l’azzimato, ancorché anziano, nobiluomo, per rendersi gradito alla bigotta ereditiera, ha saputo nascondere agli occhi della cittadina pettegola i suoi frequenti commerci con le più procaci lavandaie e stiratrici al servizio della sua padrona di casa; mentre il focoso borghese, nonostante i dubbi che alcuni sollevano sulla sussistenza delle sue virili virtù, a suo tempo fiaccate nelle orge del Direttorio, ha fama di impenitente dissoluto. Paradossalmente proprio per questo – complice il ritardo del rivale, impegnato a perfezionare la sua meticolosa toilette, aggiungendo vezzoso «un’ombra di fard» – la pia Rose finisce per accettare, dopo averle una prima volta rifiutate, le profferte matrimoniali dello sfrontato ex fornitore, consegnando se stessa, e per metonimia l’intera città di Alençon, nelle mani del «tanghero repubblicano». Per poi scoprire con disperato sconcerto quel che il lettore fin dalle prime pagine sospetta: e cioè che du Bousquier è, non solo in metafora, «impotente come un’insurrezione».
Non più retto da gerarchie rigide, da codici simbolici immutabili e universalmente condivisi, il mondo uscito dalla Rivoluzione del 1789 – che, per l’essenziale, è ancora il nostro mondo: lo spazio politico, culturale e psichico della modernità – chiede di essere interpretato; impone scelte non scontate, prive di cauzione metafisica; espone ogni individuo, in ogni momento della sua vita, all’azzardo del rischio. Di là dalla contingenza storica dello scontro fra principio monarchico e principio repubblicano, La signorina Cormon è perciò – come ha visto molto bene uno dei suoi migliori studiosi, Stéphane Vachon – rappresentazione esemplare della «vertigine democratica»; e, per dirla con Karl Marx, immagine di un mondo moderno in cui «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». Ma una vita ormai sottratta all’ordine rassicurante (oltre che opprimente: non è superfluo ricordarlo) dell’Ancien Régime richiede facoltà di discernimento di cui la sprovveduta Rose Cormon è drammaticamente priva, cieca com’è di fronte agli indizi al tempo stesso nascosti e patenti – così, sempre, nella Commedia umana – fra le pieghe di una contingenza enigmatica.
Colpa imperdonabile della protagonista è la completa ignoranza di quella che Balzac chiama «antropologia», pensando però a discipline che pochi, oggi, sarebbero disposti a includere fra le scienze umane: su tutte, la fisiognomica di Johann Kaspar Lavater e la frenologia di Franz Joseph Gall. Discipline che avrebbero consentito alla zitella tormentata dal desiderio di vedere, oltre le apparenze ingannatrici (la gracilità leggermente effeminata del cavaliere di Valois, la sanguigna, muscolosa esuberanza di du Bousquier), la vera natura dei pretendenti; le avrebbero consentito di intuire l’intatta vigoria del nobiluomo, estroflessa nel suo «naso magistrale e superlativo» e nel suo appetito da «orco»; e l’esaurimento fisico del borghese, rivelato dal «naso appiattito», dallo sguardo «un po’ spento», dalla «voce che mal si confaceva ai suoi muscoli» (una voce il cui suono assomiglia «al rumore che fa una sega in un legno molle e fradicio»), infine dalla calvizie goffamente coperta da un volgare parrucchino. Dell’eventuale ilarità del lettore potranno far le spese l’incrollabile fiducia di Balzac nella corrispondenza fra aspetto fisico e caratteri spirituali, fra qualità manifeste e vizi nascosti (o viceversa); la sua volontà ostinata – addirittura paranoica, come è stato detto – di far parlare ogni dettaglio del corpo, del vestiario, della gestualità. Non però la sua intuizione fondamentale, e addirittura profetica: che in una società dell’indistinzione, qual è quella moderna, il successo (e la sopravvivenza stessa) dell’individuo dipende dalle sue facoltà di decifrazione e d’interpretazione.
Laddove Balzac scrive «antropologia» (intendendo ‘fisiognomica’) è lecito perciò leggere, più o meno anacronisticamente, ‘semiotica’ e ‘ermeneutica’: il dramma di Rose Cormon (e della Francia moderna) deriva, nella logica del romanzo, dall’incapacità di interpretare i segni disseminati sulla superficie del reale, per restituire l’ordine perduto al mondo sconvolto dal crollo della «Monarchia» e della «Religione» – le due «Verità Eterne» chiamate a illuminare l’intera Commedia umana, secondo le dichiarazioni dell’autore nella Premessa del 1842 all’edizione Furne (il celeberrimo Avant-Propos). Soprattutto per questo, pochi altri scrittori riconoscono alla letteratura una dignità tanto elevata. Una dignità proporzionale al compito pratico (esistenziale e politico) che le è affidato: quello di raccontare il nuovo mondo borghese per renderlo intelligibile, per restituirgli una sia pur precaria solidità, per guidare le scelte di un’esistenza costretta a procedere a tentoni, in balia del caso (che è «il più grande romanziere del mondo», come dichiara la stessa Premessa; o «il più grande di tutti gli artisti», come si legge nella Signorina Cormon), alla ricerca di un sempre sfuggente ubi consistam.
Che tuttavia l’ordine antico sia definitivamente sgretolato non lo dimostra solo l’incompiutezza della Commedia umana. Né lo conferma soltanto l’ambiguità concettuale del parossistico pandeterminismo balzachiano (ogni dettaglio può essere letto come un indizio; ogni azione, ogni scelta, perfino nell’ordinaria amministrazione della vita quotidiana, genera a cascata conseguenze di vitale importanza): anche nella Signorina Cormon, proprio nel momento in cui il narratore ribadisce per un verso il principio per lui decisivo della generale co-implicazione degli eventi, macroscopici e microscopici, negando di fatto il caso («questi eventi li chiamiamo combinazioni, fatalità», mentre sono evidentemente da ricondurre a una catena di precise motivazioni), per un altro moltiplica vertiginosamente i nessi causali, polverizzandone di fatto la predicibilità. E rendendone aleatoria la lettura: in buona logica balzachiana, come dare torto alla povera Rose, quando interpreta un «fatto casuale» (esser caduta, priva di sensi, fra le braccia di du Bousquier) come prova di «un disegno divino»? Tutto è significativo, tutto è motivato, nella Commedia umana; ma tali e tanti sono significati e motivi, indizi e segnali, che l’insieme, cioè la vita dell’uomo nella modernità postrivoluzionaria, rischia di apparire dominato da forze contraddittorie o perfino inintelligibili. Per dirla un po’ crocianamente: Balzac è al tempo stesso il poeta del caso e l’ideologo della ferrea motivazione. Così, lo scrittore legittimista e cattolico è per molti versi un devoto della «fatalità, vera e propria religione dell’Imperatore». Così, il padre del romanzo realista ottocentesco non rinuncia mai al piacere dell’aneddoto stupefacente, della combinazione improbabile, dell’eccezione paradossale (nella Signorina Cormon, per esempio: Suzanne si finge incinta per spillare soldi ai suoi corteggiatori; il cavaliere di Valois versa una rendita a se stesso), e anzi nel cuore del quotidiano insedia quell’epifania dell’«evento inaudito» che secondo Goethe caratterizza invece il genere della novella. Nel mondo della Commedia umana, alla ridondanza della motivazioni non corrispondono trasparenza e determinismo ma, al contrario, opacità e disordine.
Certo, se la signorina Cormon avesse letto Lavater, o anche solo Ariosto – citato in conclusione, in un parallelismo non meno illuminante perché sgangherato: du Bousquier sta a Orlando come il cavaliere di Valois sta a Medoro (Angelica ha scelto bene) –; se un’infarinatura di latino avesse consentito all’illetterata Rose di decifrare tutti i possibili significati del motto araldico del cavaliere, Valeo; se per fantasiosa ipotesi la zitella ottocentesca di Alençon avesse seguito, a Parigi o a Bologna, negli anni Settanta o Ottanta del Novecento, un corso universitario di semiotica, o letto un libro sul paradigma indiziario, verosimilmente sarebbe riuscita a diventare madre, e forse gli ultimi anni della sua vita sarebbero stati meno infelici; ma non è affatto scontato che valori diversi e superiori – quelli appunto, esplicitamente rimpianti da Balzac, della Monarchia e della Religione – avrebbero trionfato.
Come sempre nella Commedia umana, la storia che il testo racconta solo in parte collima con la lettura suggerita dall’ideologia dell’autore: la chiave dell’allegoria si deforma, il romanzo a tesi si sgretola nell’aporia. Se a prima vista le opposizioni fra i due pretendenti alla mano della signorina Cormon sembrano nette e perfino accentuate, a scopo didascalico, fino ai limiti della caricatura (tanto è leziosamente raffinato il cavaliere, tanto è privo di buone maniere l’ex fornitore), in realtà l’eroe positivo, il campione di eleganza e virilità, il paladino dell’aristocrazia appare sospetto – fin dalla prima pagina – di millantata nobiltà. Completamente sprovvisto di mezzi, sbarca il lunario barando al gioco: se conquista la simpatia del narratore (e del lettore) grazie all’idea geniale di versare a se stesso una rendita vitalizia, «per non sembrare privo di risorse in un paese in cui si bada al sodo», e farsi così accettare in seno alla più antica nobiltà di Alençon, rimane nondimeno un truffatore. Cavaliere, certo, ma d’industria, come ha suggerito giustamente Félicien Marceau: piuttosto che (o prima che, se mai i suoi titoli nobiliari fossero autentici) cavaliere di un qualsivoglia ordine aristocratico. Simpatico mascalzone e arguto imprenditore di se stesso, il sedicente Valois rivela uno spirito non meno borghese di quello che anima du Bousquier. Del resto, già un dettaglio stilistico, acutamente notato da Philippe Hamon – gli attributi di cui il nobiluomo è gratificato sono costantemente, enfaticamente preposti al suo titolo, e per ciò stesso avvolti dal sospetto di una distanza ironica: «civettuolo cavaliere», «eroico cavaliere», «affascinante cavaliere», «troppo morigerato cavaliere», e così via –, induce a diffidare da ogni interpretazione manichea.
Come il suo «abbigliamento di transizione che univa due secoli l’uno all’altro», il cavaliere di Valois si muove con virtuosistico e a tratti grottesco equilibrismo fra universi estetici, etici e ideologici incompatibili. Se è figura dell’Ancien Régime, di sicuro non ne incarna l’aura sacrale e l’immutabile fedeltà ai valori della tradizione. È uomo del Settecento, d’accordo: ma del secolo libertino e spregiudicato (oltre che edonista, elegante, spiritoso) dei Cagliostro e dei Casanova, non di quello tragico dei nobili incorruttibili condannati alla ghigliottina o caduti nelle campagne controrivoluzionarie degli chouans di Bretagna. E se nei gesti a effetto imita i grandi attori di fine Settecento e degli anni dell’Impero, come Molé e Fleury, che a loro volta imitavano i marchesi veri, il cavaliere di Valois rischia di rivelarsi, quanto a nobiltà di maniere (e non solo), copia di una copia: personaggio roso e anzi sgretolato, come tutto l’universo moderno che lo circonda, dal tarlo dell’inautenticità.
Specularmente, l’uomo dei tempi nuovi, du Bousquier, discende in realtà «da un’antica famiglia di Alençon»; e si colloca «a metà tra il borghese e il signorotto di provincia». Se a tratti appare ripugnante per volgarità di modi, ridicolo per ostentazione di virilità fasulla (quando Suzanne, imbeccata dal cavaliere di Valois, gli attribuisce una chimerica paternità, è troppo fatuo per non indursi a crederle, contro ogni evidenza), addirittura ignobile per cinismo (quando sospetta che la signorina Cormon accetti la sua mano perché incinta, anziché sottrarsi al mercimonio ci trova il suo tornaconto, non solo economico o di potere: oltre a tenere la moglie ricca sotto il ricatto del disonore, avrebbe potuto esibire un figlio, per smentire le voci che circolano insistenti sulla sua impotenza), se insomma il campione della borghesia è davvero per molti versi un buzzurro rampante, per altri svolge senz’ombra di dubbio un ruolo positivo nello sviluppo economico e culturale di Alençon. Addirittura, come ha notato Pierre Barbéris, Balzac travisa (volutamente? o per una sorta di lapsus del suo inconscio politico?) la realtà storica, accentuando l’arretratezza manifatturiera della città agli inizi della Restaurazione, con il risultato di ingigantire i meriti dell’ingegnosa operosità di du Bousquier: finalizzata certo a un rapido e imponente arricchimento personale, ma anche – in una logica di liberismo classico, che il testo non fa nulla per confutare – al conseguimento del bene pubblico, di una prosperità condivisa.
Non c’è dubbio: per quanto sia stata da tempo relegata fra i luoghi comuni che la moda impone di citare solo per prenderne le distanze, si conferma la piena validità della diagnosi critica formulata da Friedrich Engles (ma già abbozzata da Victor Hugo e da Émile Zola): il reazionario Balzac, per onestà realistica e contro ogni sua convinzione, comprende con ineguagliata lucidità come il trionfo della borghesia ottocentesca – e il parallelo declino del potere nobiliare e dei valori religiosi – sia non solo inevitabile, ma anche storicamente giusto; come non ci sia alternativa possibile alla traumatica affermazione della modernità democratica e industriale; come i paladini dell’Ancien Régime assolutamente non meritassero (cito Engles) «alcuna sorte migliore».
In definitiva non c’è, a ben vedere, nella Signorina Cormon, nessuna possibilità di risarcimento utopico: se non nel divertimento liberatorio dell’allusione salace e del gioco linguistico. E infatti perfino all’ultima pagina del romanzo, dove il narratore in prima persona non rinuncia a ricavare dalla storia che ha raccontato una morale autorizzata, Balzac cede, con una facilità che ai contemporanei (e non solo) è sembrata cattivo gusto, alla tentazione del calembour: mentre spiega come i mal compresi «miti moderni» addirittura «ci divorino», gioca sull’omofonia, in francese, fra mythes (‘miti’) e mites (‘tarme’). Lo dimostra senz’ombra di dubbio il fatto che lo stesso gioco di parole torna nelle Illusioni perdute, esplicito in una battuta di Lousteau, che vuole disfarsi di un libro sul mito, temendo di vederne uscire «migliaia di tarme»; o meglio: «migliaia di termiti». Perché, forse è superfluo precisarlo, se è vero che mites, a rigore, significa ‘tarme’, in specie della lana, nondimeno un buon traduttore non potrebbe non rendere con ‘termiti’: la trasposizione metaforica (dall’abito al legno, dall’ordito della stoffa alla travatura dell’edificio: gli uni e gli altri pertinente figura, nel contesto della Signorina Cormon, della società moderna) conserva i due elementi essenziali dell’originale, riproducendo al tempo stesso l’immagine di un lento, inesorabile sbriciolamento e il gioco di parole, sacrificato invece dalle versioni pedissequamente letterali delle Illusioni perdute. Più importa sottolineare come il Balzac filosofo, da par suo arruffone non meno che geniale, difficilmente potesse cogliere in pieno il valore profetico dell’immagine: precisamente i metamorfici ‘miti d’oggi’ (per dirla con Roland Barthes), nei due secoli che hanno visto il progressivo trionfo del mercato globale e della società dei consumi, hanno divorato come tarme il tessuto sociale, come tarli o termiti hanno sbriciolato le architravi delle comunità tradizionali, i valori religiosi e morali su cui (nel bene e nel male: soprattutto nel male, converrà riconoscere) si era fondata per secoli la nostra civiltà.
Carattere peculiare dei moderni miti – di quelli borghesi, repubblicani, rivoluzionari osteggiati da Balzac, come di quelli edonistico-tecnologici (se così si può dire) che dominano il tempo nostro; di tutte le mode che vorticosamente da due secoli si susseguono, come del mito per eccellenza che le fonda: il feticcio-merce – è di coniugare paradossalmente irresistibile forza d’attrazione e assoluta inconsistenza ontologica: di questo è immagine l’impotenza dell’energico e intraprendente du Bousquier, che sublima l’esausta libido in genio imprenditoriale; per questo la protagonista rimarrà signorina, costretta a accontentarsi dello sterile surrogato, di fatto onanistico, di quei giochi erotici (altamente scandalosi per l’epoca) con cui il marito, «nel corso dei due primi anni di matrimonio», placa efficacemente i suoi ardori sensuali (se è vero che «il sangue non la tormentava più»), fomentando nella sua sconfinata, e «illibata», ignoranza una grottesca speranza di maternità – di null’altro foriera, ogni mese, che di «periodiche afflizioni».
Ma se perfino l’uomo dell’Ancien Régime, il custode virile della tramontata eleganza, altro non è che un baro di provincia, come e più di tutta la Commedia umana, anche questo romanzo, il cui tema è «il fiasco del sesso, il fiasco del linguaggio, il fiasco dei maneggi matrimoniali, il fiasco dell’interpretazione» (Hamon), oltre ai «miti moderni» denuncia e decostruisce anche quelle nostalgie reazionarie di cui sembra nutrirsi; e rappresenta, con radicalità prossima al nichilismo, un mondo dove ogni valore nasce adulterato; e dove soltanto le elementari pulsioni del corpo conservano indubitabile consistenza. Un mondo sorprendentemente simile al nostro. Un mondo di cui la sprovveduta Rose Cormon è davvero l’unica possibile – ottusa e patetica, ridicola e umanissima – eroina.
Pierluigi Pellini

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