Fernand Botero, Picnic
Esce in questi giorni per Sellerio La signorina Cormon: è la prima traduzione italiana, firmata da Francesco Monciatti, di uno dei più importanti romanzi di Balzac, La vieille fille (primo romanzo d’appendice, uscito sulla «Presse» nel 1836).
Riprendo da http://www.leparoleelecose.it/ l'anticipazione, con tagli e modifiche, di alcuni brani della postfazione di Pierluigi Pellini , che nel libro ha per titolo Miti e termiti, ovvero Come una zitella grassa e sciocca possa incarnare la modernità e si legge alle pagine 339-381.
La modernità è una zitella grassa e sciocca
di Pierluigi Pellini
La signorina Cormon è un capolavoro del romanzo moderno – non (o non solo) del roman-feuilleton. Ed è un testo fra i maggiori della Commedia umana:
ne è convinto Balzac, che non esita a definirlo «una delle mie cose
migliori» (in una lettera a Madame Hanska, a caldo, il 1° dicembre
1836); e ancora anni dopo, rileggendolo, esprime il timore di «non
essere più in grado di fare altrettanto bene» (alla stessa, il 4 maggio
1843). Ne dà conferma – semmai ce ne fosse bisogno – l’opinione di un
lettore appassionato e esigente come Marcel Proust, in una lettera a
René Boylesve dell’ottobre 1917: «certo, ammiro l’immenso affresco delle
Illusioni perdute e di Splendori e miserie, ma questo non mi impedisce di considerare almeno altrettanto grandi [placer au moins aussi haut] Il parroco di Tours, o La signorina Cormon, o La ragazza dagli occhi d’oro». Dell’affascinante e misteriosa Fille aux yeux d’or esistono varie edizioni italiane (si segnala quella curata per Einaudi da Mariolina Bongiovanni Bertini); del meraviglioso Curé de Tours
ce n’è attualmente in commercio una sola, per Sellerio;
incredibilmente, invece, cataloghi e banche dati che ho potuto
consultare non recano traccia di una traduzione italiana della Vieille fille:
salvo errore, questa è perciò la prima volta che la storia, esilarante
non meno che crudele, della signorina Cormon approda nelle librerie del
nostro Paese.
Di questo sorprendente ritardo, se non è
semplicemente dovuto ai capricci del caso (e al poco coraggio dei
nostri grandi editori: sconcerta che nessuno abbia mai portato a
compimento un’edizione integrale della Commedia umana), si
possono individuare almeno tre cause. In un primo momento, e poi a
lungo, certamente la natura scabrosa di molti passi di un romanzo in cui
il tenue velo della reticenza nasconde poco e male (volutamente, va da
sé) inequivocabili e a tratti sorprendenti allusioni sessuali. In
secondo luogo, e ancora oggi, una lettura superficiale, che vede nella
vicenda dell’infelice matrimonio della protagonista nient’altro che una
trasparente allegoria politica – e l’allegoria, si sa, non gode da noi
di buona stampa (l’inconscio estetico di molta critica italiana è ancora
crociano). Infine, e soprattutto: la disperante difficoltà di un testo
che, venato a ogni pagina d’ironia e sottilmente teso all’iperbole,
ricorre con esuberante baldanza al calembour, al doppio senso
salace, all’ammiccamento, così da mettere a durissima prova la perizia
del traduttore, ancor più di quanto possano fare molti altri capolavori
di Balzac: autore, peraltro, meravigliosamente difficile sempre – a
dispetto dell’equivalenza vulgata fra realismo e trasparenza del senso.
Francesco Monciatti ha raccolto la
sfida, offrendo una versione che contempera rispetto rigoroso
dell’originale e godibile emulazione stilistica: con qualche inflessione
arcaizzante, perfettamente intonata all’atmosfera di un racconto tutto
giocato, appunto, sul filo dell’antifrasi ironica e dello slittamento
iperbolico; e con l’ambizione di ritrovare nella nostra lingua quel
registro ambiguo, quel tono sfuggente, capace di tenere in sospeso, per
tutto il romanzo, il giudizio del lettore sulla protagonista: che deve
risultare, al tempo stesso, grottesca e sublime (e perfino
desiderabile). Anche per questo, e non solo per ragioni di opportunità
editoriale, alla traduzione letterale del titolo (La vieille fille è La zitella), inevitabilmente connotata, oggi, in senso dispregiativo, si è preferito un più neutro La signorina Cormon.
In realtà, come la critica non ha mancato di notare, anche nella logica della Commedia umana
il titolo francese, che sembra promettere la storia di un ‘tipo’
fortemente caratterizzato e largamente rappresentativo, risulta un poco
incongruo. Se è vero, infatti, che le zitelle balzachiane si possono
distinguere di norma in due categorie – la megera egoista e inacidita da
un lato, l’eroina della rinuncia e dell’altruismo dall’altro –, di
certo a nessuna delle due può essere ascritta, nella sua complessa,
contraddittoria, stupefacente opacità, la signorina Cormon: che, contro
ogni apparenza, pur essendo povera di spirito, e senz’altro
«sempliciotta», anzi «ignorante come una capra, e anche un po’ scemotta»,
tutto è fuorché un personaggio ‘semplice’. Al contrario, la sua
singolarità è esplicitamente evocata: agli occhi di qualche «donna
frivola» (e di molti lettori), la signorina Cormon apparirà
inevitabilmente come «una di quelle eccezioni incredibili che il buon
senso proibisce di presentare come esemplari».
Il narratore non perde occasione per
sottolineare la sua stolida ingenuità; mai, tuttavia, manifesta nei suoi
confronti astio o disprezzo. Se altre donne nubili e non più giovani –
su tutte, l’orribile signorina Gamard del Parroco di Tours –
offrono programmaticamente esempio dei danni del celibato (aberrazione
foriera, nella versione più rigida dell’ideologia balzachiana, di un
meschino e quasi maniacale egoismo: così la Prefazione di Pierrette, del 1840); se alcune rare perle di abnegazione – come Pauline de Villenoix in Louis Lambert o Armande d’Esgrignon nel Gabinetto della antichità
– trasformano la rinuncia ai piaceri matrimoniali in missione quasi
sacrificale; per parte sua, meno unilaterale e più oscillante, la ricca
ereditiera di Alençon, pur cominciando a mostrare, dopo i quarant’anni,
qualche sintomo di piccata disillusione, pur tenendo in varie occasioni
un comportamento «innocentemente egoista» (Berthier), non ha rinunciato
alla speranza di metter su famiglia e anzi deborda di una, sia pure
potenziale, materna generosità. Soprattutto, ha in Dio una fede schietta
e immacolata (virtù somma per il cattolico Balzac), che la rende
superiore a ogni calcolo interessato, a ogni degradante meschinità. E
tuttavia la sincera devozione non vale a sottrarla al richiamo
prepotente del «sangue» e dei sensi, alle «tribolazioni di una verginità
prolungatasi oltre misura»: tribolazioni compensate, nell’immaginazione
notturna, da «matrimoni fantastici» con uomini piacenti, e più giovani
di lei; o anche con un aitante soldato, poco versato nelle buone maniere
e perfino «oberato dai debiti»: ‘matrimoni’ di cui, la mattina, serba
testimonianza, agli occhi della cameriera, il letto «tutto disfatto».
Probabilmente, come ha sostenuto Pierre-Georges Castex, molti degli attacchi subiti, sulla stampa concorrente, dalla Signorina Cormon,
al momento della pubblicazione sulla «Presse», avevano natura
pretestuosa: vero bersaglio essendo Girardin e la sua aggressiva
operazione commerciale; nondimeno è certo che una così esplicita
esibizione del desiderio femminile – tabù per eccellenza nella cultura
borghese ottocentesca (e non solo) – non poteva non suscitare
l’orripilata ripulsa dei lettori benpensanti. Per antonomasia romanziere
della donna (di trent’anni, e non solo), Balzac esplora
psiche, corpo, pulsioni femminili con acutissima, affascinata curiosità.
Né il velo ambiguo del comico inficia la serietà del racconto: per
l’essenziale, quello della signorina Cormon è dramma, non farsa; e la
sua protagonista – proprio perché mediocre, contraddittoria, inchiodata
alla materialità del corpo; e al tempo stesso tenera e purissima – conta
fra i più esemplari personaggi del novel ottocentesco; è
realizzazione perfetta dell’idea di romanzo esposta da Félix Davin,
evidentemente ventriloquo di Balzac, nell’Introduzione agli Studi di costume nel secolo XIX
(1835): «È una successione di piccole cause che produce effetti
potenti, è la fusione terribile di triviale e sublime, di patetico e
grottesco».
È vero: La signorina Cormon è
anche un’allegoria storico-politica. L’ingenua protagonista, zitella per
l’epoca oltremodo attempata e nondimeno tormentata da una vera e
propria ossessione matrimoniale, è figura della Francia, o quantomeno di
quella France profonde, di quella provincia tradizionalista e un po’ ottusa che – nella realtà storica come nel mondo parallelo della Commedia umana
– è contraltare e necessario complemento del vorticoso fervore
parigino. Non a caso, Rose-Marie-Victoire Cormon è l’ultima discendente
di una famiglia di origini borghesi, ma da secoli arricchita e
imparentata con la nobiltà: come il suo «salotto variegato», dove
possono incontrarsi notabili di diversa estrazione, la zitella è una
sorta di terreno neutro, oggetto – simbolico non meno che economico –
delle mire delle opposte fazioni. E infatti i suoi due più accreditati
pretendenti, il cavaliere di Valois e il signor du Bousquier, riassumono
in sé i tratti di due diversi momenti della storia francese, di due
diversi sistemi politici, di due classi sociali nemiche: Ancien Régime e Rivoluzione, monarchia e repubblica, aristocrazia e borghesia.
Però l’allegoria s’incarna. I due protagonisti maschili sono personaggi fra i più riusciti della Commedia umana perché frutto maturo di quello storicismo balzachiano che proprio nella Signorina Cormon
trova una formulazione metaforica memorabile: «Le epoche stingono sugli
uomini che le attraversano». Fra i molti, e non di rado strampalati,
che scandiscono le pagine di Balzac, questo «assioma», come ha mostrato
Erich Auerbach in Mimesis, è quello che meglio rappresenta la
novità del realismo di primo Ottocento: non più disposto a fare
astrazione da quanto persone in carne e ossa e personaggi di carta
devono ai tempi e agli ambienti in cui si trovano a vivere; deciso a
mettere in risalto quelle sfumature di colore che quasi insensibilmente
gli eventi storici, l’immaginario di un secolo o di un decennio, e
perfino gli oggetti dell’uso quotidiano, proiettano su una natura umana
non più vagheggiata nella sua atemporale universalità; e convinto di
poter ritrovare nell’oscura banalità della più ordinaria vita privata la
stessa intensità di passione, la stessa complessità, lo stesso
interesse narrativo evidenti nei più drammatici conflitti che segnano il
corso delle vicende pubbliche: perché – altro assioma decisivo
incastonato nel testo – «non c’è nessuno che abbia una vita così
semplice come quella che gli attribuiscono gli invidiosi».
Ma nella Signorina Cormon
l’allegoria s’incarna anche, e forse soprattutto, perché uno snodo
decisivo della storia di Francia sembra trovare il suo deludente
scioglimento nella concreta materialità del corpo e del linguaggio. Se
in tutto il romanzo, come ha scritto Philippe Hamon, vige «una sorta di
auto-riflessività globale e permanente», lontanissima dal presunto
‘grado zero’ della scrittura realista, è perché l’ambivalenza
dell’espressione ironica – anche preterintenzionale: la protagonista «è
specialista del gioco di parole involontario» (ancora Hamon) – e perfino
la facile ecolalia del doppio senso a buon mercato (di cui è campione, en abyme,
un personaggio secondario, du Coudrai) si fanno figura di un’ambiguità
storica, assurgono a perfetto equivalente dell’inestricabile confusione
socio-politica dei decenni postrivoluzionari. E il nome stesso
dell’illibata protagonista ne svela, per virtù del significante, le
segrete pulsioni: Cormon, in anagramma (graficamente parziale, ma
foneticamente perfetto), è infatti Mon Cor(ps), ‘il mio corpo’. Fin
dall’iscrizione all’anagrafe, la massiccia eroina della devozione e
della castità cede perciò alle lusinghe della carne, si conforma a un
destino creaturale che rivela il legame inscindibile fra politica e
biologia, fra sfera pubblica e desiderio privato, fra economia e
erotismo. E davvero è sul suo corpo, al tempo stesso concretissimo e
allegorico, che si consuma lo scontro per il predominio economico e
politico nella città di Alençon.
La trama del romanzo è tanto esile, la
sua importanza tanto secondaria rispetto alle descrizioni che la
preparano e ai virtuosismi linguistici che la complicano, che di certo
non si fa torto al lettore spiattellandola in compendio: la devota
Rose-Marie-Victoire, la cui mente ottusa nemmeno per un istante potrebbe
contemplare l’idea di farsi un amante, non per altro si sposa che per
tardiva, prepotente pulsione sessuale, alla bell’e meglio sublimata in
desiderio di maternità (parossistico al punto da diventare quasi
blasfemo: «lo acquisterei, un bambino, anche in cambio di cento anni
d’inferno!»). Contro il proprio gusto, contro i propri principi, sceglie
il rozzo du Bousquier, uomo della Rivoluzione passato, per mero calcolo
ipocrita (l’azione inizia nel 1816 e si svolge per l’essenziale nel
quindicennio della Restaurazione borbonica), al partito
monarchico-costituzionale; rifiuta invece l’elegante cavaliere di
Valois, nelle cui braccia la spingerebbero («da dodici anni»!)
convinzioni politiche e inclinazione personale.
Il fatto è che l’azzimato, ancorché
anziano, nobiluomo, per rendersi gradito alla bigotta ereditiera, ha
saputo nascondere agli occhi della cittadina pettegola i suoi frequenti
commerci con le più procaci lavandaie e stiratrici al servizio della sua
padrona di casa; mentre il focoso borghese, nonostante i dubbi che
alcuni sollevano sulla sussistenza delle sue virili virtù, a suo tempo
fiaccate nelle orge del Direttorio, ha fama di impenitente dissoluto.
Paradossalmente proprio per questo – complice il ritardo del rivale,
impegnato a perfezionare la sua meticolosa toilette,
aggiungendo vezzoso «un’ombra di fard» – la pia Rose finisce per
accettare, dopo averle una prima volta rifiutate, le profferte
matrimoniali dello sfrontato ex fornitore, consegnando se stessa, e per
metonimia l’intera città di Alençon, nelle mani del «tanghero
repubblicano». Per poi scoprire con disperato sconcerto quel che il
lettore fin dalle prime pagine sospetta: e cioè che du Bousquier è, non
solo in metafora, «impotente come un’insurrezione».
Non più retto da gerarchie rigide, da
codici simbolici immutabili e universalmente condivisi, il mondo uscito
dalla Rivoluzione del 1789 – che, per l’essenziale, è ancora il nostro
mondo: lo spazio politico, culturale e psichico della modernità – chiede
di essere interpretato; impone scelte non scontate, prive di cauzione
metafisica; espone ogni individuo, in ogni momento della sua vita,
all’azzardo del rischio. Di là dalla contingenza storica dello scontro
fra principio monarchico e principio repubblicano, La signorina Cormon
è perciò – come ha visto molto bene uno dei suoi migliori studiosi,
Stéphane Vachon – rappresentazione esemplare della «vertigine
democratica»; e, per dirla con Karl Marx, immagine di un mondo moderno
in cui «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». Ma una vita ormai
sottratta all’ordine rassicurante (oltre che opprimente: non è
superfluo ricordarlo) dell’Ancien Régime richiede
facoltà di discernimento di cui la sprovveduta Rose Cormon è
drammaticamente priva, cieca com’è di fronte agli indizi al tempo stesso
nascosti e patenti – così, sempre, nella Commedia umana – fra le pieghe di una contingenza enigmatica.
Colpa imperdonabile della protagonista è
la completa ignoranza di quella che Balzac chiama «antropologia»,
pensando però a discipline che pochi, oggi, sarebbero disposti a
includere fra le scienze umane: su tutte, la fisiognomica di Johann
Kaspar Lavater e la frenologia di Franz Joseph Gall. Discipline che
avrebbero consentito alla zitella tormentata dal desiderio di vedere,
oltre le apparenze ingannatrici (la gracilità leggermente effeminata del
cavaliere di Valois, la sanguigna, muscolosa esuberanza di du
Bousquier), la vera natura dei pretendenti; le avrebbero consentito di
intuire l’intatta vigoria del nobiluomo, estroflessa nel suo «naso
magistrale e superlativo» e nel suo appetito da «orco»; e l’esaurimento
fisico del borghese, rivelato dal «naso appiattito», dallo sguardo «un
po’ spento», dalla «voce che mal si confaceva ai suoi muscoli» (una voce
il cui suono assomiglia «al rumore che fa una sega in un legno molle e
fradicio»), infine dalla calvizie goffamente coperta da un volgare
parrucchino. Dell’eventuale ilarità del lettore potranno far le spese
l’incrollabile fiducia di Balzac nella corrispondenza fra aspetto fisico
e caratteri spirituali, fra qualità manifeste e vizi nascosti (o
viceversa); la sua volontà ostinata – addirittura paranoica, come è
stato detto – di far parlare ogni dettaglio del corpo, del vestiario,
della gestualità. Non però la sua intuizione fondamentale, e addirittura
profetica: che in una società dell’indistinzione, qual è quella
moderna, il successo (e la sopravvivenza stessa) dell’individuo dipende
dalle sue facoltà di decifrazione e d’interpretazione.
Laddove Balzac scrive «antropologia»
(intendendo ‘fisiognomica’) è lecito perciò leggere, più o meno
anacronisticamente, ‘semiotica’ e ‘ermeneutica’: il dramma di Rose
Cormon (e della Francia moderna) deriva, nella logica del romanzo,
dall’incapacità di interpretare i segni disseminati sulla superficie del
reale, per restituire l’ordine perduto al mondo sconvolto dal crollo
della «Monarchia» e della «Religione» – le due «Verità Eterne» chiamate a
illuminare l’intera Commedia umana, secondo le dichiarazioni dell’autore nella Premessa del 1842 all’edizione Furne (il celeberrimo Avant-Propos).
Soprattutto per questo, pochi altri scrittori riconoscono alla
letteratura una dignità tanto elevata. Una dignità proporzionale al
compito pratico (esistenziale e politico) che le è affidato: quello di
raccontare il nuovo mondo borghese per renderlo intelligibile, per
restituirgli una sia pur precaria solidità, per guidare le scelte di
un’esistenza costretta a procedere a tentoni, in balia del caso (che è
«il più grande romanziere del mondo», come dichiara la stessa Premessa; o
«il più grande di tutti gli artisti», come si legge nella Signorina Cormon), alla ricerca di un sempre sfuggente ubi consistam.
Che tuttavia l’ordine antico sia definitivamente sgretolato non lo dimostra solo l’incompiutezza della Commedia umana.
Né lo conferma soltanto l’ambiguità concettuale del parossistico
pandeterminismo balzachiano (ogni dettaglio può essere letto come un
indizio; ogni azione, ogni scelta, perfino nell’ordinaria
amministrazione della vita quotidiana, genera a cascata conseguenze di
vitale importanza): anche nella Signorina Cormon, proprio nel
momento in cui il narratore ribadisce per un verso il principio per lui
decisivo della generale co-implicazione degli eventi, macroscopici e
microscopici, negando di fatto il caso («questi eventi li chiamiamo
combinazioni, fatalità», mentre sono evidentemente da ricondurre a una
catena di precise motivazioni), per un altro moltiplica vertiginosamente
i nessi causali, polverizzandone di fatto la predicibilità. E
rendendone aleatoria la lettura: in buona logica balzachiana, come dare
torto alla povera Rose, quando interpreta un «fatto casuale» (esser
caduta, priva di sensi, fra le braccia di du Bousquier) come prova di
«un disegno divino»? Tutto è significativo, tutto è motivato, nella Commedia umana;
ma tali e tanti sono significati e motivi, indizi e segnali, che
l’insieme, cioè la vita dell’uomo nella modernità postrivoluzionaria,
rischia di apparire dominato da forze contraddittorie o perfino
inintelligibili. Per dirla un po’ crocianamente: Balzac è al tempo stesso
il poeta del caso e l’ideologo della ferrea motivazione. Così, lo
scrittore legittimista e cattolico è per molti versi un devoto della
«fatalità, vera e propria religione dell’Imperatore». Così, il padre del
romanzo realista ottocentesco non rinuncia mai al piacere dell’aneddoto
stupefacente, della combinazione improbabile, dell’eccezione
paradossale (nella Signorina Cormon, per esempio: Suzanne si
finge incinta per spillare soldi ai suoi corteggiatori; il cavaliere di
Valois versa una rendita a se stesso), e anzi nel cuore del quotidiano
insedia quell’epifania dell’«evento inaudito» che secondo Goethe
caratterizza invece il genere della novella. Nel mondo della Commedia umana, alla ridondanza della motivazioni non corrispondono trasparenza e determinismo ma, al contrario, opacità e disordine.
Certo, se la signorina Cormon avesse
letto Lavater, o anche solo Ariosto – citato in conclusione, in un
parallelismo non meno illuminante perché sgangherato: du Bousquier sta a
Orlando come il cavaliere di Valois sta a Medoro (Angelica ha scelto
bene) –; se un’infarinatura di latino avesse consentito all’illetterata
Rose di decifrare tutti i possibili significati del motto araldico del
cavaliere, Valeo; se per fantasiosa ipotesi la zitella
ottocentesca di Alençon avesse seguito, a Parigi o a Bologna, negli anni
Settanta o Ottanta del Novecento, un corso universitario di semiotica, o
letto un libro sul paradigma indiziario, verosimilmente sarebbe
riuscita a diventare madre, e forse gli ultimi anni della sua vita
sarebbero stati meno infelici; ma non è affatto scontato che valori
diversi e superiori – quelli appunto, esplicitamente rimpianti da
Balzac, della Monarchia e della Religione – avrebbero trionfato.
Come sempre nella Commedia umana,
la storia che il testo racconta solo in parte collima con la lettura
suggerita dall’ideologia dell’autore: la chiave dell’allegoria si
deforma, il romanzo a tesi si sgretola nell’aporia. Se a prima vista le
opposizioni fra i due pretendenti alla mano della signorina Cormon
sembrano nette e perfino accentuate, a scopo didascalico, fino ai limiti
della caricatura (tanto è leziosamente raffinato il cavaliere, tanto è
privo di buone maniere l’ex fornitore), in realtà l’eroe positivo, il
campione di eleganza e virilità, il paladino dell’aristocrazia appare
sospetto – fin dalla prima pagina – di millantata nobiltà. Completamente
sprovvisto di mezzi, sbarca il lunario barando al gioco: se conquista
la simpatia del narratore (e del lettore) grazie all’idea geniale di
versare a se stesso una rendita vitalizia, «per non sembrare privo di
risorse in un paese in cui si bada al sodo», e farsi così accettare in
seno alla più antica nobiltà di Alençon, rimane nondimeno un truffatore.
Cavaliere, certo, ma d’industria, come ha suggerito giustamente
Félicien Marceau: piuttosto che (o prima che, se mai i suoi titoli
nobiliari fossero autentici) cavaliere di un qualsivoglia ordine
aristocratico. Simpatico mascalzone e arguto imprenditore di se stesso,
il sedicente Valois rivela uno spirito non meno borghese di quello che
anima du Bousquier. Del resto, già un dettaglio stilistico, acutamente
notato da Philippe Hamon – gli attributi di cui il nobiluomo è
gratificato sono costantemente, enfaticamente preposti al suo titolo, e
per ciò stesso avvolti dal sospetto di una distanza ironica: «civettuolo
cavaliere», «eroico cavaliere», «affascinante cavaliere», «troppo
morigerato cavaliere», e così via –, induce a diffidare da ogni
interpretazione manichea.
Come il suo «abbigliamento di
transizione che univa due secoli l’uno all’altro», il cavaliere di
Valois si muove con virtuosistico e a tratti grottesco equilibrismo fra
universi estetici, etici e ideologici incompatibili. Se è figura dell’Ancien Régime,
di sicuro non ne incarna l’aura sacrale e l’immutabile fedeltà ai
valori della tradizione. È uomo del Settecento, d’accordo: ma del secolo
libertino e spregiudicato (oltre che edonista, elegante, spiritoso) dei
Cagliostro e dei Casanova, non di quello tragico dei nobili
incorruttibili condannati alla ghigliottina o caduti nelle campagne
controrivoluzionarie degli chouans di Bretagna. E se nei gesti a
effetto imita i grandi attori di fine Settecento e degli anni
dell’Impero, come Molé e Fleury, che a loro volta imitavano i marchesi
veri, il cavaliere di Valois rischia di rivelarsi, quanto a nobiltà di
maniere (e non solo), copia di una copia: personaggio roso e anzi
sgretolato, come tutto l’universo moderno che lo circonda, dal tarlo
dell’inautenticità.
Specularmente, l’uomo dei tempi nuovi,
du Bousquier, discende in realtà «da un’antica famiglia di Alençon»; e
si colloca «a metà tra il borghese e il signorotto di provincia». Se a
tratti appare ripugnante per volgarità di modi, ridicolo per
ostentazione di virilità fasulla (quando Suzanne, imbeccata dal
cavaliere di Valois, gli attribuisce una chimerica paternità, è troppo
fatuo per non indursi a crederle, contro ogni evidenza), addirittura
ignobile per cinismo (quando sospetta che la signorina Cormon accetti la
sua mano perché incinta, anziché sottrarsi al mercimonio ci trova il
suo tornaconto, non solo economico o di potere: oltre a tenere la moglie
ricca sotto il ricatto del disonore, avrebbe potuto esibire un figlio,
per smentire le voci che circolano insistenti sulla sua impotenza), se
insomma il campione della borghesia è davvero per molti versi un
buzzurro rampante, per altri svolge senz’ombra di dubbio un ruolo
positivo nello sviluppo economico e culturale di Alençon. Addirittura,
come ha notato Pierre Barbéris, Balzac travisa (volutamente? o per una
sorta di lapsus del suo inconscio politico?) la realtà storica,
accentuando l’arretratezza manifatturiera della città agli inizi della
Restaurazione, con il risultato di ingigantire i meriti dell’ingegnosa
operosità di du Bousquier: finalizzata certo a un rapido e imponente
arricchimento personale, ma anche – in una logica di liberismo classico,
che il testo non fa nulla per confutare – al conseguimento del bene
pubblico, di una prosperità condivisa.
Non c’è dubbio: per quanto sia stata da
tempo relegata fra i luoghi comuni che la moda impone di citare solo per
prenderne le distanze, si conferma la piena validità della diagnosi
critica formulata da Friedrich Engles (ma già abbozzata da Victor Hugo e
da Émile Zola): il reazionario Balzac, per onestà realistica e contro
ogni sua convinzione, comprende con ineguagliata lucidità come il
trionfo della borghesia ottocentesca – e il parallelo declino del potere
nobiliare e dei valori religiosi – sia non solo inevitabile, ma anche
storicamente giusto; come non ci sia alternativa possibile alla
traumatica affermazione della modernità democratica e industriale; come i
paladini dell’Ancien Régime assolutamente non meritassero (cito Engles) «alcuna sorte migliore».
In definitiva non c’è, a ben vedere, nella Signorina Cormon,
nessuna possibilità di risarcimento utopico: se non nel divertimento
liberatorio dell’allusione salace e del gioco linguistico. E infatti
perfino all’ultima pagina del romanzo, dove il narratore in prima
persona non rinuncia a ricavare dalla storia che ha raccontato una
morale autorizzata, Balzac cede, con una facilità che ai contemporanei
(e non solo) è sembrata cattivo gusto, alla tentazione del calembour: mentre spiega come i mal compresi «miti moderni» addirittura «ci divorino», gioca sull’omofonia, in francese, fra mythes (‘miti’) e mites (‘tarme’). Lo dimostra senz’ombra di dubbio il fatto che lo stesso gioco di parole torna nelle Illusioni perdute,
esplicito in una battuta di Lousteau, che vuole disfarsi di un libro
sul mito, temendo di vederne uscire «migliaia di tarme»; o meglio:
«migliaia di termiti». Perché, forse è superfluo precisarlo, se è vero
che mites, a rigore, significa ‘tarme’, in specie della lana,
nondimeno un buon traduttore non potrebbe non rendere con ‘termiti’: la
trasposizione metaforica (dall’abito al legno, dall’ordito della stoffa
alla travatura dell’edificio: gli uni e gli altri pertinente figura, nel
contesto della Signorina Cormon, della società moderna)
conserva i due elementi essenziali dell’originale, riproducendo al tempo
stesso l’immagine di un lento, inesorabile sbriciolamento e il gioco di
parole, sacrificato invece dalle versioni pedissequamente letterali
delle Illusioni perdute. Più importa sottolineare come il
Balzac filosofo, da par suo arruffone non meno che geniale,
difficilmente potesse cogliere in pieno il valore profetico
dell’immagine: precisamente i metamorfici ‘miti d’oggi’ (per dirla con
Roland Barthes), nei due secoli che hanno visto il progressivo trionfo
del mercato globale e della società dei consumi, hanno divorato come
tarme il tessuto sociale, come tarli o termiti hanno sbriciolato le
architravi delle comunità tradizionali, i valori religiosi e morali su
cui (nel bene e nel male: soprattutto nel male, converrà riconoscere) si
era fondata per secoli la nostra civiltà.
Carattere peculiare dei moderni miti –
di quelli borghesi, repubblicani, rivoluzionari osteggiati da Balzac,
come di quelli edonistico-tecnologici (se così si può dire) che dominano
il tempo nostro; di tutte le mode che vorticosamente da due secoli si
susseguono, come del mito per eccellenza che le fonda: il feticcio-merce
– è di coniugare paradossalmente irresistibile forza d’attrazione e
assoluta inconsistenza ontologica: di questo è immagine l’impotenza
dell’energico e intraprendente du Bousquier, che sublima l’esausta
libido in genio imprenditoriale; per questo la protagonista rimarrà
signorina, costretta a accontentarsi dello sterile surrogato, di fatto
onanistico, di quei giochi erotici (altamente scandalosi per l’epoca)
con cui il marito, «nel corso dei due primi anni di matrimonio», placa
efficacemente i suoi ardori sensuali (se è vero che «il sangue non la
tormentava più»), fomentando nella sua sconfinata, e «illibata»,
ignoranza una grottesca speranza di maternità – di null’altro foriera,
ogni mese, che di «periodiche afflizioni».
Ma se perfino l’uomo dell’Ancien Régime, il custode virile della tramontata eleganza, altro non è che un baro di provincia, come e più di tutta la Commedia umana,
anche questo romanzo, il cui tema è «il fiasco del sesso, il fiasco del
linguaggio, il fiasco dei maneggi matrimoniali, il fiasco
dell’interpretazione» (Hamon), oltre ai «miti moderni» denuncia e
decostruisce anche quelle nostalgie reazionarie di cui sembra nutrirsi; e
rappresenta, con radicalità prossima al nichilismo, un mondo dove ogni
valore nasce adulterato; e dove soltanto le elementari pulsioni del
corpo conservano indubitabile consistenza. Un mondo sorprendentemente
simile al nostro. Un mondo di cui la sprovveduta Rose Cormon è davvero
l’unica possibile – ottusa e patetica, ridicola e umanissima – eroina.
Pierluigi Pellini
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