Dal sito http://www.nazioneindiana.com/ prendo questo bel saggio insieme all'invito a rileggere con occhi nuovi J. L Borges.
Tlön, Babele, Borges
di
Carlo Cenini
Nel celebre racconto di Borges La biblioteca di Babele, contenuto nella raccolta Finzioni, viene descritta una biblioteca forse infinita nella quale vengono esaurite tutte le possibili combinazioni di lettere, tutti i possibili linguaggi, tutte le possibili storie. In quella biblioteca sono contenute anche le parole che state leggendo in questo momento. La biblioteca è descritta da un bibliotecario che vi abita, e che nel descrivere i volumi, per la grandissima parte incomprensibili, dice che tra i migliori della zona di cui è responsabile ce n’è uno intitolato Axaxaxas mlö, titolo che in apparenza non ha nulla di interessante o comprensibile. Ma due circostanze rendono notevole questo titolo: la prima, interna al racconto, è che nei paragrafi precedenti il bibliotecario, nel descrivere i volumi della biblioteca, ha tenuto a precisare che “Il numero dei simboli ortografici è di venticinque”, e a questo punto un non meglio identificato editore annota a piè pagina che “il manoscritto originale non contiene cifre né maiuscole. La punteggiatura è limitata alla virgola e al punto. Questi due segni, lo spazio, e le ventidue lettere dell’alfabeto, sono i venticinque simboli sufficienti che enumera lo sconosciuto [Nota dell’editore]” (J. L. Borges, Finzioni, trad. it. Einaudi 1955, p. 71): com’è possibile dunque che uno dei libri della biblioteca contenga il carattere ö? E dato che si è ritenuto necessario introdurre la figura di un editore: come ha fatto il manoscritto del bibliotecario ad attraversare l’infinità della biblioteca per giungere nelle sue mani? La seconda circostanza bizzarra è che il lettore ha già incontrato le parole di quel titolo nel primo racconto della raccolta Finzioni, intitolato Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Non solo: il lettore di quel racconto sa benissimo cosa significhino quelle parole; nell’emisfero australe di Tlön, infatti, “Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö, cioè, nell’ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggiò” (Ivi: 14). La presenza della ö accanto alla nota dell’immaginario editore della Biblioteca di Babele serve proprio a fermare la nostra attenzione su quelle lettere, a chiederci perché tra tutte le possibili combinazioni il narratore abbia scelto di riportare proprio quella che potrebbe contraddire una delle presunte regole della biblioteca (a meno di non intenedere l’umlaut come un uso decisamente lasco del segno del punto fermo, ma l’editore si è addirittura premurato di dire che tra i simboli mancano le maiuscole…). Il fatto poi che quelle parole abbiano un significato nella lingua di un paese immaginario citato in un altro racconto può suscitare grosso modo due reazioni: la prima è dire, con modalità più o meno elaborate, qualcosa che bene o male si può riassumere in “Ma guarda un po’ Borges che si diverte a citare se stesso”; la seconda è chiedersi se la presenza nella biblioteca di Babele di un bibliotecario che comprende il linguaggio di Tlön possa avere un significato di tipo narrativo. Qui voglio provare a seguire questa seconda strada.
Avverto il lettore che la piena comprensione di quanto segue presuppone una conoscenza abbastanza puntuale della raccolta Finzioni.
Una prima ovvia considerazione sarà che, se il narratore del racconto cita Axaxaxas mlö come esempio di titolo dotato di un sia pur minimo senso, sarà perché conosce il linguaggio di Tlön. Altrettanto plausibile è l’ipotesi che il bibliotecario sia addirittura uno degli abitanti di Tlön. Questa seconda ipotesi viene confermata da numerosi indizi contenuti sia in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius che nella Biblioteca di Babele.
Com’è noto, la descrizione della struttura architettonica della biblioteca di Babele nell’omonimo racconto di Borges è delle più confusionarie. Tra l’edizione del ’41 e quella del ’44, Borges ha introdotto delle varianti nel passo che contiene quella descrizione; queste varianti, aggravando le contraddizioni, fugano qualsiasi dubbio che possa essersi trattato di una svista.
Edizione del ’41: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venticinque scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno […]. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (Ivi: 69)
Edizione del ’44: “L’universo […] si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo […]. Venti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno due […]. Una delle facce libere dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte” (traduco da J. L. Borges, Ficciones, Alianza Editorial, 1971, p. 89)
Come si vede, dal ’41 al ’44 Borges rende se possibile ancora più oscura e lacunosa una descrizione già di per sé sconcertante nella sua imprecisione. Se nella versione del ’41 la presenza di un unico lato libero per ogni esagono impediva di immaginare come la biblioteca potesse estendersi all’infinito in direzioni diverse da quella verticale, nella versione del ’44 ci sono sì due lati liberi (il che in ogni caso non sarebbe sufficiente per costruire una biblioteca che si sviluppi in tutte le direzioni), ma il narratore descrive solo uno di questi lati liberi: dove porta l’altro?
“L’intenzione di Borges, e a questo collabora la maniacale precisione della descrizione, voleva [sic] che noi decidessimo di non tentare affatto di vedere la biblioteca, se non come si vede alla fine di un sogno, svegliandosi al mattino, con gli occhi annebbiati e impastati” ( U. Eco, Les sémaphores sous la pluie (I), qui).
Sebbene la precisione sia tutt’altro che maniacale, è innegabile che l’effetto è di un qualcosa che lì per lì, a una prima lettura, “funziona”, ma che a ripensarci e a rileggere non “funziona” affatto: una di quelle descrizioni che ci fa provare, da svegli, l’abbaglio del sogno. Limitarsi a pensare che Borges abbia voluto dare una descrizione deliberatamente imprecisa per creare un particolare effetto psicologico è senz’altro legittimo, ma numerosi altri dettagli spingono a fare un’ipotesi più interessante; forse questa imprecisione, che come abbiamo visto è voluta e persino perfezionata tra un’edizione e l’altra del racconto, è l’indicazione per qualcosa d’altro, forse, per venire subito al punto, la sensazione straniante che proviamo di fronte alla biblioteca non è semplicemente frutto dell’abilità dello scrittore Borges, quanto effetto di un universo mentale e percettivo, quello del narratore bibliotecario di Babele, perfettamente estraneo al nostro. Viene in mente il celebre passo del naturalista Uexküll (1864 – 1944) sulla percezione del mondo in una zecca: per questo parassita l’intero universo si riduce a intermittenti emanazioni di acido butirrico che sono stimoli a lasciarsi cadere su corpi pieni di sangue. Descritto da una zecca, il nostro mondo sarebbe un universo completamente alieno, e a meno di non conoscere i modi percettivi della zecca, non ci potremmo mai rendere conto del fatto che si tratta, in realtà, dello stesso mondo in cui viviamo noi. Forse qualcosa di simile è accaduto per la Biblioteca di Babele, forse quel luogo ci sembra tanto strano e incoerente perché chi ce lo sta descrivendo fa parte di un paradigma percettivo radicalmente diverso dal nostro.
Nella sezione centrale di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius Borges si sofferma appunto a spiegare le bizzarre caratteristiche mentali e percettive degli abitanti di Tlön: ciascuna di queste caratteristiche può rendere ragione delle aporie nella descrizione della biblioteca di Babele. Gli abitanti di Tlön faticano a concepire “che lo spaziale perduri nel tempo” (Borges, Finzioni 1955 cit., p. 15), e uno dei paradossi più incomprensibili a Tlön è quello dell’uomo che perde nove monete, sette delle quali nel corso di due giorni vengono raccolte da altri due uomini, cosicché alla fine l’uomo ritrova solo due delle monete che aveva perso. Ciò che su Tlön risulta alieno da ogni logica, è concepire che le varie monete raccolte siano le stesse che sono state perdute; questo fatto che per noi è normalissimo, su Tlön è considerato un paradosso di livello eleatico, e per renderne ragione si arrivano a concepire le spiegazioni più astruse: forse le nove monete sono in realtà la stessa moneta, i tre uomini lo stesso uomo… su Tlön l’uguaglianza e l’identità occupano un posto diverso e più incerto che tra noi.
Gli abitanti di Tlön non sono i soli a soffrire di questa confusione: Funes el memorioso è infastidito dal fatto che “il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta […]. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata” (Ivi: 105); il detective Lönnrot, in La morte e la bussola, prima di raggiungere il luogo della sua morte passa “per gallerie e retrocucina uscì in cortili uguali, o più volte nello stesso cortile” (Ivi: 128); nello stesso racconto troviamo uno spunto fondamentale: “«La casa non è così grande, – pensò. – L’ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, il mio straniamento, la solitudine»” (Ivi: 129). Forse anche la biblioteca di Babele non è poi così grande, e le stesse cose che hanno contribuito a rendere più vasta la casa in cui si trova Lönnrot, unite alle caratteristiche mentali di un abitante di Tlön, hanno reso infinita la biblioteca (noto per inciso che il nome Lönnrot è l’anagramma quasi perfetto di Tlön più hrön; la parola hrön indica una particolare categoria di oggetti di Tlön).
La geometria di Tlön è afflitta dagli stessi paradossi della sua ontologia: “Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano” (Ivi: 19). I matematici di Tlön, dal canto loro, hanno per base la nozione di numero indefinito e “affermano che l’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantità, giungano a risultati eguali, è per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria” (Ibidem). Descritte da un uomo che vivesse in un simile cosmo mentale, anche le cose più banali o esatte ci apparirebbero di colpo come enigmi incomprensibili.
“La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade” (Ivi: 69): la sfacciata goffaggine di questa frase del bibliotecario di Babele, forse ancora più sconcertante della descrizione della biblioteca, lo è meno se si suppone che l’uomo che l’ha pronunciata provenga da un paese come Tlön, abitato da tigri trasparenti e torri di sangue (Ivi: 13); un uomo cui l’immagine di un frutto sferico che emana luce riesce più familiare di quella di una banale lampada, a quale figura potrebbe affidarsi per descrivere una biblioteca?
Insomma, al lettore della Biblioteca di Babele le caratteristiche mentali degli abitanti di Tlön appaiono tutte congegnate, nessuna esclusa, per spiegare ciascuna delle incongruenze e stranezze della descrizione della biblioteca. Da un abitante di Tlön, potremmo aspettarci di vedere una stessa cosa, una stessa persona, una stessa stanza esagonale moltiplicate infinite volte, quante sono gli istanti che quella cosa, quella persona, quella stanza, hanno attraversato nel tempo: non essendo in grado di concepire che lo spaziale perduri nel tempo (Ivi: 15), un abitante di Tlön potrebbe essere costretto a moltiplicare un certo corpo nello spazio per giustificarne la permanenza nel tempo; incapace di pensare a un unico esagono che attraversa infiniti istanti, preferirebbe concepire ogni istante popolato di infiniti esagoni. “Le cose, su Tlön, si duplicano” (Ivi: 22). Le quantità numeriche, posto che la matematica di Tlön si fonda sull’indefinito, sarebbero tanto più sospette quanto più fossero precise. La difficoltà a conciliare quantità indefinite e definite compare con nettezza anche alla fine del racconto: subito dopo aver chiarito che il numero dei volumi possibili è, per quanto immane, limitato, il narratore, commentando in nota una considerazione di Letizia Alvarez de Toledo, parla della possibilità di contenere i libri della biblioteca in un volume unico, “stampato in corpo nove o in corpo dieci”, con un numero infinito di pagine, passando poi ad enumerare le aporie di questo “serico vademecum” (Ivi: 78); ma, tanto per cominciare, se le pagine sono infinite a che serve preoccuparsi del corpo dei caratteri? e poi perché dovrebbero essere infinite, se il numero di libri possibili è limitato?
Su Tlön, le forme geometriche non sarebbero nient’altro che conseguenze del movimento. Per un abitante di Tlön sarebbe quindi del tutto naturale descrivere una biblioteca convenzionale sotto la specie di un improbabile e incoerente alveare di esagoni che si diffondono all’infinito e che, se fossimo noi a doverli descrivere, sarebbero semplicemente un solo esagono, un’unica stanza che il bibliotecario di Tlön ha moltiplicato per quante sono le volte che vi è entrato o uscito o vi ha ripensato o la ha vista riflessa nello specchio in fondo al corridoio, o la ha sognata. Sempre riguardo la geometria, c’è poi un passo in cui il bibliotecario tradisce, in modo che mi pare incontrovertibile, la sua appartenenza a un mondo mentale e percettivo che non ha nulla a che fare con il nostro; il passo ricorda molto, molto da vicino certe incapacità degli abitanti di Tlön di concepire cose che per noi sono banali, quotidiane: (i corsivi e i punti esclamativi/interrogativi sono miei) “Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che è inconcepibile una sala triangolare o pentagonale [!!??]. (I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure)” (Ivi: 70). La descrizione del libro circolare per noi non è affatto oscura: lo è per una persona che trova inconcepibile anche una sala pentagonale. Non è tanto che i bibliotecari di Babele conoscono solo ambienti esagonali (conoscono le latrine, gli stanzini, i corridoi, le scale a chiocciola, i frutti sferici che emanano luce…): è che la loro geometria, condizionata dal loro movimento nello spazio, è incapace di applicare una forma astratta a un oggetto concreto. Traviato dalla metafisica capricciosa del suo pianeta (“abbondano i sistemi incredibili” (Ivi: 16)), un bibliotecario di Tlön troverebbe del tutto normale sdoppiarsi in altrettanti bibliotecari quanti sono i diversi pensieri che ha fatto; dire che ciascun volume ha un preciso numero di pagine e di lettere, certe invariabili dimensioni geometriche, equivarrebbe per lui ad indicare, con la massima approssimazione, la diversità di ogni volume; per lui ogni corridoio sarebbe sempre due corridoi: quello in cui passa e quello in cui non si trova più: uno dei due viene sempre utilizzato, l’altro è sempre deserto, e questo è il motivo per cui il narratore non dice dove porta. Un solo scaffale di libri, persino una sola parola sarebbero sufficienti per fargli presumere (e con ciò stesso considerare una delle realtà da descrivere) la totalità dei significati possibili. “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio” (Ivi: 77).
L’avvertenza che segna il culmine del racconto: “Tu che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?” (Ivi: 77) sarà allora da intendere con la massima serietà, non tanto perché non in tutte le lingue “il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali” (Ibidem), quanto perché una stessa definizione può dar luogo a rappresentazioni e realtà radicalmente differenti a seconda del sistema mentale e percettivo, prima ancora che linguistico, in cui venga collocata. Non è escluso insomma che se finalmente ci portassero nella biblioteca di Babele, ci troveremmo davanti una biblioteca come tutte le altre, e scopriremmo che gli altri bibliotecari sono in realtà sempre lo stesso bibliotecario narratore, incapace di pensare che quello che lui era il giorno prima, l’ora prima, l’istante prima, sia la stessa persona del presente (una delle scene finali del recente film Interstellar di Nolan, in cui una camera viene vista attraverso un buco nero, può dare un’idea – un po’ grossolana – di quello che intendo). Inversamente, se noi proponessimo al bibliotecario di Babele la descrizione di un uomo solitario che passa gli anni in un’unica biblioteca in cui volumi di varia dimensione sono costantemente, un giorno dopo l’altro, gli stessi, non c’è dubbio che egli riconoscerebbe in quest’immagine un artificio affascinante e paradossale, a tratti incoerente, infine inaccettabile.
In base a questa lettura, La biblioteca di Babele sarebbe allora un racconto proveniente da Tlön: insieme alla Encyclopaedia of Tlön, il reperto di un mondo immaginario destinato a contaminare irreparabilmente la nostra realtà: nel Poscritto al racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Borges spiega infatti che la minuziosa creazione dell’Encyclopaedia of Tlön è il primo passo di una congiura dell’ingegno umano per eguagliare Dio nella capacità di creare un mondo. Il primo passo di questa congiura è la diffusione di oggetti provenienti da Tlön. Borges descrive due di questi oggetti, ma forse il racconto La biblioteca di Babele è un terzo oggetto? Anche Borges, nonostante le sue dichiarazioni di estraneità alla cosa, è uno dei congiurati di questa “intrusione del mondo fantastico in quello reale”?
Qui l’analisi deve necessariamente fermarsi. Quello che mi premeva suggerire è che l’accostamento tra i racconti di Finzioni può generare almeno un ulteriore racconto, racconto il cui fascino estremo consiste nella sua costante assenza, nella necessità che il lettore cerchi (inutilmente) di catturarlo, una specie di labile vapore narrativo che aleggia sulla raccolta come una instabile nebulosa, ipotetica e nello stesso tempo innegabile, incerta e deliberatamente oscillante tra esistenza e non-esistenza, come tra la vita e la morte il gatto di Schrödinger.
Perché dare un significato narrativo alle stranezze e incoerenze di Finzioni? È Borges stesso, per bocca dell’amico Bioy Casares, a suggerire di avere un ruolo più creativo nella lettura; siamo, di nuovo, in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, all’inizio del racconto e di tutta la raccolta Finzioni: “Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.” (Ivi: 7) Al lettore decidere se raccogliere o meno la sfida implicita lanciata da Borges.
Di fronte agli indizi che ho mostrato ci si trova, come ho detto all’inizio, di fronte a un bivio interpretativo. Una strada porta a mere considerazioni estetiche (“Borges si diverte citare se stesso”), l’altra conduce a un più complesso ordine di eventi…
“Lequel prendrez-vous donc?” (Pascal, Pensées, 233).
Questo saggio fa parte di un intervento più lungo intitolato Innere Stimme, Innerer Roman, pubblicato nel volume edito dall’università di Trento nella collana labirinti a cura di W. Nardon e S. Carretta, intitolato “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”.(qui ).
Testo tratto da http://www.nazioneindiana.com/2015/03/02/un-borges-piccolo-piccolo-2/
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