Oggi navighiamo tutti a vista. L'unica certezza, come appare evidente, è che non ci sono certezze. L'articolo che segue va letto attentamente e criticamente, come tutto. La politica non è una scienza esatta.
Per quanto riguarda l'Italia, pur essendo molto critico nei confronti del movimento "cinque stelle" ( già lo stesso nome dovrebbe far discutere: nomen omen!) non mi pare che ci possano essere dubbi sul fatto che Renzi non è stato meno populista di Grillo. Oggi ha perduto Renzi. Ma anche Grillo voleva perdere e non si aspettava questo risultato. Andatevi a rileggere il discorso che ha tenuto a Torino, a conclusione della sua campagna referendaria. Cinicamente si era augurato di perdere perchè aveva capito che perdendo il suo movimento avrebbe finito per rafforzarsi. Oggi, infatti, è evidente, non sono per nulla in grado di governare questo Paese.
fv
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Il populismo al tempo degli algoritmi
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di Franco Berardi Bifo
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Il crollo
interminabile
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Molti segnali di
aggravamento della crisi sociale e di stagnazione irreversibile dell’economia
sembrano annunciarlo: il diciassette che viene coinciderà probabilmente con una
precipitazione globale. Il ceto finanzista globale ha reagito ai segnali
rincarando la dose: l’aggressione golpista contro i governi latino-americani
colpevoli di aver resistito al diktat finanziario, l’imposizione violenta del
Jobs-act in Francia, la ferrea applicazione del Fiscal compact che ha già
strangolato la società greca e sta finendo di strangolare l’Italia, la Spagna e
la Francia. Ma il cavallo non beve, la ripresa cento volte annunciata non
viene, e un’ondata anti-globalista, anti-europea, implicitamente quando non
esplicitamente razzista, è ormai maggioritaria nel mondo bianco: America Europa
e Russia unite nella guerra.
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In assenza di una
soggettività progettuale capace di ricomporre i processi sociali secondo un
modello diverso da quello che si sta decomponendo, il crollo del capitalismo
può essere interminabile e infinitamente distruttivo. Questa soggettività, che
nel ventesimo secolo si riconobbe nel movimento operaio, oggi appare disgregata
fino al punto che non riusciamo a intravedere possibili linee di
ricomposizione.
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Le rivolte
anti-finanziarie del 2011 non hanno potuto invertire la rotta del sistema
finanziario né sottrarsi ai suoi effetti. Quanto ai partiti della sinistra
europei, si sono fatti strumento della violenza finanziaria, si sono piegati al
Fiscal compact e alle politiche austeritarie anche a costo di scomparire come
sta accadendo.
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La storia mostra
di non avere molta fantasia, e sta riproponendo la dinamica che portò al
nazismo e poi alla seconda guerra mondiale: esattamente come negli anni Venti
del secolo scorso, la disperazione produce un effetto di tipo identitario che
si manifesta in un fronte Nazional-Operaista: uno schiavista alla presidenza
americana, la Brexit, l’affermazione clerico-fascista in Polonia, la crescita
del Front National e così via.
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Agli operai
impoveriti dal sistema finanziario le destre di oggi ripetono quel che Hitler
disse ai lavoratori impoveriti dalle decisioni del Congresso di Versailles: non
siete lavoratori sconfitti ma guerrieri nazionali che vinceranno. Non vinsero
ma distrussero l’Europa. Neppure questa volta vinceranno, ma possono
distruggere il mondo.
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Populismo o
ricomposizione
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Ogni tentativo
democratico di sottrarsi alla governance neoliberale è fallito: la
volontà cosciente del corpo sociale non è in grado di agire sull’astrazione
finanziaria, quindi reagisce secondo le linee dell’identità anti-globale.
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La parola «populismo», molto usata di questi tempi, è una truffa che non
spiega niente. L’idea di restaurare la sovranità popolare è una scemenza. La
sovranità, in quanto facoltà di governare la vita sociale secondo le linee
della volontà sovrana, è irreversibilmente perduta perché nelle condizioni di
accelerazione ipercomplessa la volontà è impotente, e viene sostituita da
automatismi tecnici e linguistici ai quali la società non può che sottostare.
Inutile spazientirsi e provare frustrazione. L’impotenza non si cura con
l’impazienza né col viagra dell’identità nazionale e popolare.
Il popolo, la nazione sono nozioni romantiche che identificano un coacervo di soggettività socialmente prive di potenza solidale. Il problema che il populismo non sa affrontare, figuriamoci poi risolvere, è proprio quello della solidarietà, o meglio della ricomposizione delle forze soggettive del lavoro. Popolo e nazione ritornano come tentativo reazionario di riterritorializzare forze sociali che hanno perduto ogni rapporto con la territorialità.
Il popolo, la nazione sono nozioni romantiche che identificano un coacervo di soggettività socialmente prive di potenza solidale. Il problema che il populismo non sa affrontare, figuriamoci poi risolvere, è proprio quello della solidarietà, o meglio della ricomposizione delle forze soggettive del lavoro. Popolo e nazione ritornano come tentativo reazionario di riterritorializzare forze sociali che hanno perduto ogni rapporto con la territorialità.
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Solo quando la
soggettività politica corrisponde alle forze sociali che muovono la macchina
sociale diviene possibile un cambiamento cosciente. Solo la ricomposizione
della minoranza sociale costituita dai lavoratori cognitivi, cioè coloro che
programmano la macchina globale e le permettono di evolversi e di funzionare,
potrà mettere in moto un processo di trasformazione reale. Non è questione di
sovranità, ma di smantellamento e riprogrammazione dell’algoritmo
tecno-linguistico che sta al cuore della macchina sociale.
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Sulla scena
globale si muovono oggi due attori: l’astrazione globalizzante e i corpi
identitari incapaci di universalità. La corporeità demente confligge con
l’astrazione prodotta dal cervello finanziario: un’onda identitaria
nazionalista sessista e religiosa monta nel mondo. Il nazionalismo non
sostituisce affatto il potere finanziario: l’astrazione adatta i suoi codici a
un corpo demente, e infatti i mercati hanno reagito favorevolmente alla
vittoria di Trump. Wall Street è perfettamente a suo agio con il nazismo, come
la storia insegna.
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Il modello
neoliberista continua a imporsi per automatismo, anche se il consenso si è
dissolto. Nonostante il dilagare dell’illusione sovranista
l’offensiva neoliberale continua, anzi accelera furiosamente. Come spesso accade quando un regime si avvicina al
crollo, il ceto finanziario dominante, dopo aver portato l’economia mondiale al
limite del collasso, impone come rimedio un’accelerazione isterica delle sue
politiche: lo schiavismo porta a compimento la parabola del neoliberalismo, e
il trumpismo, alimentato della rabbia impotente del popolo demente, non farà
che accentuare l’impoverimento e lo sfruttamento di chi l’ha sostenuto.
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Le modalità di
semiotizzazione dell’esistente che sinteticamente definiamo «capitalismo» sono
incapaci di interpretare la potenza implicita nel sapere e nella tecnologia, e
piegano quelle potenze entro le categorie della crescita e dell’accumulazione.
In un micidiale pervertimento, esse trasformano le potenze del sapere e della
tecnica in fattori di scarsità e distruzione.
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Un secolo dopo
il 1917
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Trasformare la
guerra civile imperialista in guerra civile rivoluzionaria, disse Lenin, intuendo
la possibilità di usare la guerra contro il capitalismo. Le condizioni della
guerra si riproducono oggi su scala planetaria, ma non possiamo riproporre il
rovesciamento leninista, perché la presa del Palazzo d’Inverno non ha più alcun
significato nell’epoca del decentramento bio-info-politico del potere. Ma
occorre ripensare il senso di quell’evento. Nella rivoluzione sovietica è
iscritto il dispositivo che ha modellato l’intero Ventesimo secolo: la
rivoluzione di Lenin impose un’identificazione militare delle classi sociali.
Questa fu la sua forza tattica che permise ai bolscevichi di prendere il
potere. Questo fu il suo errore strategico, e forse il suo crimine. Il partito
operaio si impadronì dello stato, della sua struttura burocratica, del suo esercito,
e si contrappose militarmente all’imperialismo mondiale, trasformando la lotta
di classe in guerra nazionale, e soffocando i processi di autonomia
rivoluzionaria in Germania, negli Stati Uniti e in molti altri paesi del mondo.
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Nel corso di
quella guerra il capitale suscitò le forze del fascismo per sconfiggere la
classe operaia. Com’è finita lo sappiamo. Il comunismo di Stalin si alleò con
la democrazia anglo-americana per sconfiggere il nazismo. In seguito la
democrazia capitalista ha sconfitto il comunismo sovietico, e la democrazia
divenne il mito politico fondamentale della seconda metà del Novecento. Ma
presto si rivelò un’illusione: la riforma neoliberista cominciò a cancellare la
democrazia con il colpo di stato in Cile l’11 settembre 1973, e continuò a
cancellarla sistematicamente fino al luglio del 2015 in Grecia.
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Si è instaurata
allora una dittatura dell’astratto sul concreto che prende nome di governance
liberista, che ha funzionato senza grandi conflitti negli ultimi decenni del
Novecento. Dopo il nuovo 11 settembre del primo anno del nuovo secolo (e dopo
la prima crisi della new economy che nel 2000 inaugurò il ciclo
depressivo dell’economia globale), la triangolazione è cambiata, e il mondo si
è sgretolato in frammenti identitari tra i quali si è scatenata una guerra
civile globale.
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L’eredità del
colonialismo
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La guerra civile
che in forme diverse sta investendo ogni area del pianeta è in parte un effetto
del crollo della fede nel globalismo economico, ma ancor più è un effetto
dell’esplosione dell’ordine colonialista.
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Zbigniew
Brzezinski fu consigliere di Carter negli anni Settanta, poi si dedicò
all’elaborazione di scenari del futuro politico globale. Nel 1993 pubblicò Out
of control, un libro che rovescia l’ottimismo predominante in America
dopo il crollo dell’impero sovietico, e prevede la moltiplicazione
incontrollabile di fuochi di conflitto identitario nel mondo tecnicamente
integrato dalla globalizzazione.
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Lo scorso aprile
su The American Interest Brzezinski pubblica un saggio dal
titolo Toward a Global Realignment. Dietro il titolo anodino, l’articolo contiene una
considerazione decisiva che potremmo sintetizzare così: dopo secoli di
dominazione coloniale e di violenza i popoli del mondo stanno presentando il
conto in termini morali ed economici, e l’occidente non è economicamente in
grado di pagarlo né culturalmente disposto ad accettarlo. Non possiamo pagare
il concreto debito storico verso coloro che abbiamo sfruttato per cinque
secoli, perché dobbiamo pagare l’astratto debito finanziario che ci costringe a
dedicare le risorse comuni al sistema bancario, mentre respingiamo nelle acque
del Mediterraneo coloro che sfuggono alle guerre da noi stessi alimentate.
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Le parole di
Brzezinski sono agghiaccianti e inequivocabili: «Quel che accade oggi nel medio
oriente potrebbe essere solo l’inizio di un fenomeno più vasto che si
dispiegherà nei prossimi anni in Africa, Asia e anche tra i popoli
pre-coloniali dell’emisfero occidentale. Massacri periodici da parte dei
colonialisti occidentali si risolsero nello sterminio dei popoli colonizzati su
una scala paragonabile ai crimini del Nazismo nella seconda guerra mondiale,
provocando centinaia di migliaia e talvolta milioni di vittime. Oggi sta
emergendo una potente volontà di vendetta non solo nei paesi islamici». Nella
pagina successiva Brzezinski elenca una serie impressionante di violenze provocate
dalla colonizzazione spagnola del Sud America, da quella inglese in India,
dalla guerra dell’oppio, dai francesi in Algeria, dai russi nel Caucaso e in
Asia, fino alle guerre americane degli ultimi decenni. Brzezinski conclude con
queste parole: «Quanto sconvolgente è la dimensione di queste atrocità, tanto
veloce è la cancellazione della memoria da parte dell’occidente. Ma nel mondo
post-coloniale una nuova narrazione storica fondata sul risentimento sta
emergendo».
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Solo
l’internazionalismo della classe operaia avrebbe potuto evitare che la resa dei
conti del colonialismo passato e presente si risolvesse (come sta accadendo) in
un bagno di sangue planetario: operai dell’occidente industriale e proletari
dei popoli oppressi da due secoli di colonialismo si riconoscevano nello stesso
programma comunista. Ma il comunismo è stato sconfitto, e ora dobbiamo
affrontare la guerra di tutti contro tutti in nome di niente.
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La
soggettività depressa
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La mitologia che
ha preso il sopravvento dopo la dissoluzione del sistema socialista è quella
della competizione illimitata scatenata dal neoliberismo in nome della
mitologia dell’arricchimento. Nel volgere di tre decenni questa mitologia ha
fatto fallimento: la privatizzazione ha distrutto lo stato sociale mentre il
salario reale è sceso, e il tempo di lavoro è aumentato senza più limiti. La
soggettività bianca occidentale è rabbiosamente depressa. Jonathan Franzen la
racconta nei suoi romanzi: «La gente è venuta in America per due cose, il
denaro e la libertà. Se non avete denaro, vi aggrappate più rabbiosamente alle
libertà. Anche se fumare ti uccide, anche se non hai di che nutrire i tuoi
figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci con fucili da guerra
in mezzo alla strada. Puoi essere povero ma la sola cosa che nessuno ti può
sottrarre è la tua libertà di rovinarti la vita in qualsiasi modo tu voglia
farlo» (Libertà).
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La promessa di
arricchimento ha funzionato solo per una piccola parte della società. Per tutti
gli altri l’avventura liberista si è risolta in precarietà, neuro-sfruttamento,
meno salario e più lavoro. Gli altri allora rivendicano la loro libertà, che in
America è quella di portare armi. Scomparsa la prospettiva internazionalista
che era il nucleo della coscienza operaia (dappertutto lo stesso nemico, lo
sfruttamento) ora ciascuno si rinchiude nel suo clan, etnico o virtuale, e
prepara le armi per proteggersi dall’invasione che arriva da territori che la
colonizzazione ha reso poveri e rabbiosi, e cui il globalismo ha promesso il
paradiso consumista.
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Il sentimento di
appartenenza ha preso il posto della ragione universale, la soggettività
sociale sembra incapace di coscienza autonoma, e le condizioni tecno-psichiche
in cui si forma la relazione sociale rendono impensabile la solidarietà.
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Eppure la
possibilità del comunismo, cioè di una società libera dal ricatto del salario e
capace di sopperire ai suoi bisogni con l’esercizio libero dell’attività
intelligente in rete, rimane iscritta nella conoscenza e nella tecnologia,
anche se l’attualizzazione di quella possibilità è resa terribilmente
improbabile dalla composizione culturale e psichica del lavoro cognitivo
precario e frattalizzato.
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Dobbiamo imparare
a ragionare con due cervelli. Il primo cervello deve avere piena coscienza
della deriva disastrosa in cui siamo entrati, e della nostra impotenza a
fermarla coi metodi obsoleti della politica. Ma col secondo cervello dobbiamo
confidare nella forza dell’imprevedibile: un movimento internazionale dei
lavoro precario e cognitivo che stravolga dall’interno il funzionamento della
macchina finanziaria globale e inizi un processo di solidarietà
internazionalista. Gli Stati Uniti potrebbero essere nei prossimi anni
l’epicentro di un movimento che attraversi insieme le minoranze oppresse e il
ciclo del lavoro cognitivo: la Silicon Valley globale che non è soltanto un
centro di potere ma anche un luogo di conflitto sociale, culturale ed estetico.
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che vuol dire
programma
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Quanto più il
lavoro diviene cognitivo tanto più la coscienza riflessiva è assimilata dalle
modalità lavorative: i lavoratori industriali tenevano distinta la loro
attività cosciente dal loro lavoro, mentre l’attività riflessiva dei lavoratori
cognitivi tende ad essere integrata con l’attività lavorativa.
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La subalternità
della coscienza cognitaria dalla forma lavoro (competizione, efficienza,
prescrizione automatica delle finalità cognitive) va messa in questione:
rompere quella subalternità è la condizione perché la società possa uscire dal
dominio neuro-totalitario.
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Un processo di
soggettivazione cosciente nella sfera del lavoro cognitivo nascerà forse come
cura della sofferenza psichica, e quindi attraverso la riattivazione della
corporeità erotica collettiva, e solo quando la mente collettiva interconnessa
sarà in grado di riconoscersi socialmente ed eroticamente in una corporeità
collettiva emergerà l’energia necessaria per un movimento di fuoriuscita
dall’ordine distopico che si sta instaurando. L’attività di trasformazione si
manifesterà allora come forza di ri-programmazione.
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Il concetto di
programma è sempre stato centrale nel pensiero politico. Ma il senso di questa
parola è cambiato
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Nel ventesimo
secolo programma era un insieme di linee progettuali che la volontà politica
imponeva al corpo sociale. Oggi dobbiamo ragionare sul programma come
alternativa algoritmica all’algoritmo dominante. La programmazione (nel senso
di design informatico dei processi produttivi e distributivi) è la forma di
azione specifica del lavoratore cognitivo.
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L’autonomia delle
pratiche di programmazione è il progetto politico cui occorre dedicarsi, ma
sappiamo che l’autonomia della pratica presuppone l’autonomia del soggetto.
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Dobbiamo pensare
alla Silicon Valley globale come nel ’17 pensavamo alle officine Putilov e
negli anni ’70 pensavamo a Mirafiori: il reparto centrale della riproduzione
del mondo, il luogo in cui si concentra il massimo di sfruttamento e il massimo
di potenza trasformativa.
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Mentre i poteri
politici si afflosciano nell’impotenza e gli stati nazionali sono incapaci di
governare i flussi semio-finanziari, la Silicon Valley globale prende il posto
dei poteri del passato. Ma (contrariamente a quel che pensa Eugenj Morozov) la
Silicon Valley globale non è un luogo privo di conflitti, perché dentro ci
stanno cento milioni di lavoratori cognitivi sparsi nelle città di tutto il
mondo. E’ dalla loro sofferenza psichica che può venire il loro risveglio
etico. E dal risveglio etico di cento milioni di lavoratori cognitivi, di
ingegneri e di artisti viene la sola possibilità di evitare una regressione
spaventosa, di cui cominciamo a vedere i contorni.
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Da https://www.alfabeta2.it/2016/12/03/speciale-populismo-al-tempo-degli-algoritmi-2-diciassette-viene/
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