Domandate che sanno fare ancora le donne?
Ma tutto!
Se qualcuno distende sopra un abisso
tre fili di paglia,
vi passano sopra con piede leggero.
Come, non so spiegare,
ma ricordate
che i loro piedi hanno inventato la danza.
Nei momenti liberi
lavorano a croce per il bosco nero
le foglie di felce.
Se però càpitano nel bosco di notte,
spengono con coraggio le fiammelle fatue,
affinché neppure negli acquitrini il viandante
abbia timore.
Hanno anche consigliato ai timidi fiori
di riempirsi i calici
del familiare profumo.
Loro stesse sanno però come di spada
far uso di profumi
pericolosi ancor più
che gli scorpioni velenosi dei tropici.
Quel che è davvero straordinario:
hanno inventato i seni,
ed essi sono belli
come i castelli sulla Loira.
Forse più belli ancora.
E che sanno fare gli uomini?
Non è molto.
Si sono inventati la guerra,
la miseria, la disperazione e il gèmito dei feriti.
Sanno forgiare folli cannoni,
ridurre città in macerie,
e intanto mettono bene in mostra
il povero coraggio virile.
Hanno inventato le pompe di benzina
e l’emancipazione delle donne.
E in cambio di baci fra le loro braccia
hanno progettato per loro sedili speciali
perché possano stare ancora
alle macchine
nell’ultimo mese di gestazione.
Cosí è.
Ed è tutto, arrivederci, adieu.
Volevate una cantilena da me
e ora c’è!
****
« Ho veduto solo una volta »
Ho veduto solo una volta
un sole cosí insanguinato.
E poi mai piú.
Scendeva funesto sull’orizzonte
e sembrava
che qualcuno avesse sfondato la porta
dell’inferno.
Ho domandato alla spécola
e ora so il perché.
L’inferno lo conosciamo, è dappertutto
e cammina su due gambe.
Ma il paradiso?
Può darsi che il paradiso non sia null’altro
che un sorriso
atteso per lungo tempo,
e labbra
che bisbigliano il nostro nome.
E poi quel breve vertiginoso momento
quando ci è concesso di dimenticare velocemente
quell’inferno.
Ho veduto solo una volta
un sole cosí insanguinato.
E poi mai piú.
Scendeva funesto sull’orizzonte
e sembrava
che qualcuno avesse sfondato la porta
dell’inferno.
Ho domandato alla spécola
e ora so il perché.
L’inferno lo conosciamo, è dappertutto
e cammina su due gambe.
Ma il paradiso?
Può darsi che il paradiso non sia null’altro
che un sorriso
atteso per lungo tempo,
e labbra
che bisbigliano il nostro nome.
E poi quel breve vertiginoso momento
quando ci è concesso di dimenticare velocemente
quell’inferno.
Jaroslav Seifert, da “La colata delle campane” (1967), in “Jaroslav Seifert, Vestita di luce”, Einaudi, Torino, 1986
(Traduzione di Sergio Corduas)
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