Per tutta la vita Primo Levi cercò dare un senso all'esperienza
tragica (sua e di milioni d'altri) del campo di sterminio. Per questo
sviluppò una fitta corrispondenza con studiosi e ricercatori tedeschi.
Le lettere che gli
arrivavano dalla Germania nel Dopoguerra dovevano far parte di un
libro che non vide mai la pubblicazione.
Martina Mengoni
Primo Levi e i tedeschi. Fino all’ultimo cercò di capire
Sopravvissuto ad Auschwitz, Primo Levi non tronca i suoi rapporti con i tedeschi. Nell’ultimo dopoguerra, il confronto con quel popolo sarà una storia di incontri, letture, scambi epistolari, tentativi editoriali, elaborazioni letterarie e, soprattutto, di domande che attendono una risposta. Che i tedeschi abbiano rappresentato un rovello per Primo Levi (uomo, scrittore, testimone, perfino chimico) è un dato di fatto. Come questa relazione difficile, ondivaga, a tratti entusiasta, a tratti frustrante, si sia modificata nel tempo, dentro e fuori la sua scrittura, è quanto occorre ricostruire. Oggi lo si può fare contando su una mole di documenti poco noti o inediti, provenienti da archivi di tutta Europa.
Fin dal 1962 Levi si era creato una rete di corrispondenti dalla Germania Ovest: i primi lettori della traduzione tedesca di Se questo è un uomo, apparsa nel novembre del 1961. [...] Sempre in quegli anni, Levi avviò uno scambio epistolare con Hermann Langbein, storico austriaco, ex triangolo rosso (comunista) in Lager, segretario generale del Comitato Internazionale di Auschwitz; Langbein lo coinvolse nel progetto di una grande antologia di testimonianze di vittime e carnefici di Auschwitz. Doveva uscire in contemporanea con la prima istruttoria del processo di Francoforte contro i responsabili del campo; ma il libro fu pubblicato già nel 1962 e vi furono inclusi due capitoli di Se questo è un uomo.
Nel 1964 un ulteriore
capitolo di Se questo è un uomo uscì in un volume-strenna che le
acciaierie Hoesch di Dortmund distribuirono ai loro dirigenti e
dipendenti. Nella Germania di Hitler le grandi industrie avevano dato
un sostegno decisivo al regime. Ora una di quelle industrie
pubblicava un volume sulla fratellanza, di ispirazione
cattolico-liberale, curato dallo stesso Albrecht Goes. In un contesto
di invito all’accoglienza e all’ecumenismo cristiano, Levi aveva
scelto il capitolo Ottobre 1944 che si concludeva con la ben nota
sentenza «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Per sua stessa
ammissione, Levi riceve in quegli anni «una quarantina di lettere»
di tedeschi. Nel 1963 annuncia in due interviste che Einaudi intende
pubblicarle. È una non-notizia, perché il libro non si farà, ma è
anche una notizia: apprendiamo che per Levi, fin da allora, le
lettere dei lettori tedeschi possedevano una dignità editoriale e di
contenuto autonoma rispetto al libro che le aveva originate.
Più tardi, Levi
avrebbe affidato quelle corrispondenze (denominandole «progetto
tedesco») a Kurt Heinrich Wolff, un sociologo tedesco naturalizzato
statunitense. Wolff era un «tedesco anomalo». Fuggito dalla
Germania perché ebreo, rifugiatosi in Italia negli Anni Trenta,
emigrò infine negli Stati Uniti diventando professore alla Brandeis
University.
Nei primi Anni Cinquanta,
invitato da Max Horkheimer, partecipò ai Gruppen-Experimenten
dell’Istituto di Sociologia di Francoforte, che aveva appena
riaperto dopo la guerra, redigendo due studi: uno
sull’autorappresentazione della popolazione tedesca dopo la guerra
(German attempts at picturing Germany), l’altro sulla
denazificazione della Germania (The American Denazification of
Germany). Nel 1963, Wolff ottenne una borsa Fulbright in Italia, e
Levi entrò in contatto con lui proprio in quei mesi, probabilmente
tramite la sorella Anna Maria e il sociologo Franco Ferrarotti. Sono
queste le premesse in base alle quali gli affidò le lettere del
«progetto tedesco».
Che cosa comportò, in termini di auto-percezione, di riflessione su Auschwitz, di progressione creativa di Levi, il fallimento di quel progetto, cioè di un libro fatto di dialoghi epistolari con tedeschi? Così come la pubblicazione di un libro, anche la sua mancata pubblicazione può cambiare la vita, l’opera e l’autocoscienza di uno scrittore. In molte interviste dei suoi ultimi anni Levi ha parlato di Se questo è un uomo come una memoria-protesi: i ricordi che aveva messi per iscritto tendevano a sovrapporsi ai ricordi ricordati: «una memoria esterna che si interpone tra il mio vivere di oggi e quello di allora».
La mancata pubblicazione delle lettere di tedeschi negli Anni 60 ebbe l’effetto opposto: quelle corrispondenze, rimaste chiuse nella loro cartellina, continuarono nel corso degli anni a esercitare la loro carica interrogativa dall’interno, in maniera regolare e persistente, senza che Levi avesse avuto la possibilità di oggettivarne i significati attraverso la scrittura. Sarebbero così diventate l’ultimo capitolo del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati: dove ebbero il titolo Lettere di tedeschi, inevitabile quanto il dialogo che le aveva propiziate.
La Stampa – 26 ottobre
2016
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