Lanzarote. La casa dove abitò José
Saramago è un miraggio bianco su un mare spazzato dal vento. Dentro,
libri e solo libri.
Gian Guido
Vecchi
Il volto
spietato dell’ortodossia
Tra i profili
dei rilievi vulcanici e il pendio lavico verso la pianura e
il mare, la casa bianca non si distingue a prima vista dalle
altre abitazioni costruite intorno a Tías, in un paesaggio
pietroso di bassi muretti a secco a proteggere le viti,
fichi d’India e una vegetazione rada spazzata dal vento.
Quando José
Saramago e Pilar del Rio si trasferirono nell’isola di
Lanzarote, la chiamarono semplicemente così, «a casa», e
anche oggi che è diventata un (bellissimo) museo ogni cosa
è rimasta come negli ultimi diciotto anni scanditi dai
capolavori della senilità, un caffè in cucina per gli
amici e i lettori di passaggio, gatti e cani che si stirano
al sole sul terrazzo, gli orologi fermi alle quattro e due
minuti del pomeriggio perché è l’ora nella quale lui e
la moglie si incontrarono, la vasta biblioteca del «maestro»
che Harold Bloom ha definito «uno degli ultimi titani» e
lo studio affacciato sul giardino e l’oceano con i
ritratti di altri giganti del Novecento, da Kafka a Proust:
di fronte alla scrivania, la sua foto mentre tracciava la
frase che Pilar avrebbe portato nel vestito che indossava a
Stoccolma la sera del Nobel, il dialogo con la Maddalena ne
Il Vangelo secondo Gesù — «Guarderò la tua ombra, se
non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose, Voglio
essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi
occhi» — e sul ripiano del tavolo accanto al computer una
scultura lignea del Cristo deposto che aveva trovato da un
antiquario italiano e teneva accanto a sé mentre scriveva,
lui che si diceva fermamente ateo, come l’icona di tutti i
dolori insensati degli uomini.
All’inizio c’è la parola. Quando nel 1982 uscì Memoriale del convento , Saramago aveva già sessant’anni e il bello era appena cominciato. È in quel romanzo che si compie la rivoluzione sintattica dello scrittore portoghese e si rivela al pubblico internazionale la bellezza di una scrittura che renderà inconfondibili le opere successive: quello «stile orale» che ha tra i suoi riferimenti la prosa barocca del padre gesuita António Vieira, «il mio ascendente letterario più forte», l’amore per i Saggi di Montaigne e i contes philosophiques , il gusto fantastico di Cervantes, Gogol’ o Kafka, la prosa di Proust, le incursioni di un io narrante ironico e onnisciente come lo «spirito della narrazione» nell’Eletto di Thomas Mann. «La costruzione del convento di Mafra si deve al re Giovanni V, per un voto fatto se gli fosse nato un figlio, qui ci sono seicento uomini che non hanno fatto fare nessun figlio alla regina e sono loro a pagare il voto, che si attacchino, con licenza per l’anacronistica espressione...».
Eppure,
quando andò in Svezia per ricevere il premio Nobel, José
Saramago cominciò il suo discorso così: «L’uomo più
saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né
scrivere». Parlava del nonno materno Jerónimo,
«quell’indimenticabile vecchio che, avendo il
presentimento che non sarebbe tornato dal viaggio che lo
portava da Azinhaga a un ospedale di Lisbona, si congedò
dagli alberi del suo povero giardino, a uno a uno,
abbracciandoli in lacrime», scriveva nei Quaderni di
Lanzarote.
Era il vecchio
contadino che nelle notti d’estate diceva al nipote:
«José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico».
Bisogna rileggerle, le parole con le quali il «titano»
portoghese lo raccontava a Stoccolma: «Mentre il sonno
tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei
casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni,
spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni
e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di
memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava. Non
ho mai potuto sapere se lui taceva quando si accorgeva che
mi ero addormentato, o se continuava a parlare per non
lasciare a metà la risposta alla domanda che gli facevo
nelle pause più lunghe che lui volontariamente metteva nel
racconto: E poi ?».
Non a caso la scrittura «orale» si era affacciata per la prima volta nel romanzo che precede il Memoriale , Una terra chiamata Alentejo (1980), così simile al Ribatejo della sua infanzia, come simili erano le condizioni di vita dei braccianti legati al latifondo. «E quest’altra gente chi è, abbandonata e meschina, questa gente venuta con la terra, anche se non registrata nel contratto, anime morte, oppure ancora vive?».
Un libro scritto
nel ‘47 e poi ripudiato, Terra del peccato , un altro
finito nel ‘53 e destinato ad uscire postumo, Lucernario ,
tre raccolte di poesie, il lavoro da critico letterario,
l’adesione al partito comunista e infine, dopo la
«rivoluzione dei garofani» del ‘74, la scelta di
dedicarsi solo alla scrittura, Saramago che lascia da
vicedirettore il Diário de Noticias e inizia la sua seconda
vita con due gioielli come Manuale di pittura e calligrafia
(1977) e i racconti di Oggetto quasi (1978), che saranno
riscoperti grazie ai capolavori successivi. Il Memoriale ,
seguito da L’anno della morte di Ricardo Reis (dove il
protagonista è proprio l’eteronimo di Pessoa), segna
l’inizio di una stagione creativa prodigiosa che arriva
fino a Caino , nel 2009, l’ultima opera prima della morte.
La Storia si trasfigura e si fa autentica nelle vicende e nei dolori di personaggi «comuni» che restituiscono il senso dell’umano. Una decisione improvvisa, un evento fantastico, lacerano il velo delle apparenze e aprono alla realtà. La penisola iberica che si stacca dal Continente e va alla deriva ne La zattera di pietra , il revisore che nella Storia dell’assedio di Lisbona aggiunge un «non » alle bozze, «quello che adesso dice il libro è che i crociati NON aiuteranno i portoghesi a conquistare Lisbona».
E poi, dopo lo
«scandaloso» romanzo su Gesù — le polemiche in patria
saranno all’origine del suo trasferimento a Lanzarote —
la trilogia che alla fine del Novecento lo consacra fra i
grandi del secolo, aperta nel ‘95 da Cecità : «Vuoi che
ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati
ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che,
pur vedendo, non vedono».
La moglie del
medico che nel romanzo è l’unica a mantenere il senso
morale, in un paese dove d’improvviso la gente perde la
vista e la propria umanità, è la più classica delle
creature di Saramago, come il signor José che nel
successivo Tutti i nomi è lo scritturale che decide di
violare le regole della Conservatoria dell’Anagrafe per
mettersi alla ricerca di una donna sconosciuta. Finché ne
La Caverna , nel 2000, saranno il vasaio Cipriano Algor e
sua genero a scoprire che cosa si cela nel sottosuolo di
quello spaventoso Centro commerciale che è il nostro mondo:
donne e uomini costretti fino alla morte a rivolgere lo
sguardo verso il fondo di una grotta dove scorrono ombre.
Come nella Caverna della Repubblica di Platone («Strana immagine è la tua — disse — e strani sono quei prigionieri». «Somigliano a noi —, risposi»), la realtà sta fuori. Si tratta di avere la forza di uscire. «Non rimarrò il resto dei miei giorni legato a una panchina di pietra a guardare una parete».
Il Corriere della Sera -
22 Aprile 2014
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