14 aprile 2014

MARCO BELLOCCHIO SI CONFESSA




In una lunga (e illuminante) intervista Marco Bellocchio racconta la sua vita: “Se potessi dividerla in capitoli il primo riguarderebbe certamente la perdita della fede”. A seguire cinema, politica e psicoanalisi.

Marco Bellocchio
“Non rinnego nulla di nulla, oggi ho soltanto voglia di seguire le mie idee. Sbagliate oppure no, ha poca importanza”

Intervista di Maria Pia Fusco

«L’ ultima retrospettiva che mi è stata dedicata forse fu quella di Locarno, una ventina d’anni fa. Anzi no, ce n’è stata anche un’altra un po’ più recentemente, a Pesaro. Ma in America...».
Il cinema di Marco Bellocchio arriverà a New York tra pochi giorni, il 16 aprile. Il regista di matrimoni aprirà al MoMa una retrospettiva di diciotto titoli che si concluderà il 7 maggio con Vincere.

«Non so, può darsi sia stato proprio il successo di quel film a favorire una cosa così corposa. Finora negli Stati Uniti erano usciti solo alcuni dei miei lavori, e soltanto singolarmente»
racconta il regista in partenza per Manhattan. O forse la retrospettiva organizzata insieme all’Istituto Luce-Cinecittà vuole più semplicemente raccontare un percorso artistico lungo cinquant’anni: ci sono I pugni in tasca (1965), Enrico IV (1984), Diavolo in corpo (1986), Il principe di Homburg (1996), La balia (1999), Bella addormentata (2012) e le versioni restaurate di Vacanze in Val Trebbia (1980) e Gli occhi, la bocca (1982). E poi, perché no, dopo l’Oscar a Sorrentino una retrospettiva così prestigiosa potrebbe anche essere un ulteriore segno di vitalità del cinema italiano.

«Certo che mi fa piacere, e anche se per carattere tendo a tenermi a distanza so che non appena metterò piede sull’aereo cercherò di essere più reattivo e di farmi coinvolgere al massimo da questa cosa. Mi succede sempre così».
Anche al Festival del cinema di Bari, dove avviene il nostro incontro e dove Bellocchio ha partecipato all’omaggio a Gian Maria Volontè presentando Sbatti il mostro in prima pagina ( 1972):

«Ero arrivato non dico con superiorità, ma con molto distacco. Poi alcune domande del pubblico, e certe espressioni di entusiasmo sincero, beh, mi hanno addirittura commosso».
I pugni in tasca
A New York, negli incontri con i media e con gli spettatori, il regista sarà obbligato a ripercorrere le fasi di una movimentata carriera artistica che si intreccia fortemente con la vita personale. Meglio portarsi avanti con un breve ripasso. E dunque, se si potesse racchiudere una vita in capitoli in quella di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema:

«La regia è stata per me la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo dall’adolescenza, potrebbe intitolarsi La perdita della fede, un passaggio fondamentale. Me ne resi conto proprio nel bel mezzo dell’educazione cattolica, mentre frequentavo il collegio dei Barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni e a un certo punto cominciai a chiedermi “perché sto qui?”, una domanda che è diventata poi il motore di tante altre cose. Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio mi sono dedicato alla poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la voglia di esprimermi». Non era vero perché, anche se nei primi anni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I morti crescono di numero e di età, «avevo una passione segreta, ed era quella di fare l’attore».
Poeta, pittore, attore:

«Nessuna delle tre ha funzionato. Finito il liceo, sono andato a iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano ed è stato in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici. Si manifestavano nella perdita della voce, divenni completamente afono».
Costretto a lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una volta l’amata Bobbio, sui colli piacentini, dove è nato il 3 novembre del ‘39, stavolta per Roma:

«Qui tentai l’esame come attore al Centro Sperimentale. La mia voce che ora è pessima allora era ancora più sgraziata, ricordo che con Orazio Costa adducevo strani abbassamenti vocali. E comunque superai l’esame. E fu proprio frequentando i corsi come attore che cominciai a scoprire il cinema. Certo, avevo visto tanti film, ma a scuola era diverso, era la scoperta del muto, la magia delle immagini in movimento dei grandi maestri del passato. Lì cominciai a desiderare di “fare le immagini”. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fui ammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza della pittura».

La Cina è vicina

All’inquieto ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava.

«Mi sembrava una provincia, decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni. Oggi imparare l’inglese è un obbligo, allora era una cosa più insolita. Erano gli anni dei Beatles, cominciava la Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro, all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. Ancora oggi gli amici e Francesca (Francesca Calvelli, montatrice eccellente e attuale compagna di Bellocchio, ndr) mi prendono in giro per non aver vissuto l’animazione e il fervore di quel periodo. Londra però è stata essenziale per la progettazione de I pugni in tasca, perché lì ritrovai Enzo Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo affascinante, amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva diventare produttore. E io avevo il diploma del Centro Sperimentale ma sentivo di dover dimostrare che ero davvero un regista».
Non fu facile trovare i finanziamenti e dopo vari tentativi falliti Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio.

«Nel mio essere una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole praticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei saputo raccontare, mi arrangiai a girare in casa di Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina la mia povera famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel patrimonio, e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la fortuna di incontrare al Centro un ragazzo biondo, Lou Castel, perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andata se avessi scelto Gianni Morandi che pure a un certo punto era stato preso in considerazione ».
Così, dopo La perdita della fede, Il fallimento dell’attore, La scoperta delle immagini, arriva nel ‘65, a ventisei anni, il quarto capitolo - Il clamoroso esordio alla regia con I pugni in tasca seguito subito dopo da un quinto: La crisi pre-68.

«Non mi sopportavo più come rappresentante della classe cui appartengo, la classe borghese. Oggi fa ridere, allora era una cosa seria la ricerca di una cultura diversa, opposta. Io sentivo il fascino dell’estrema sinistra, non operaista, piuttosto il movimento marxista leninista, Servire il Popolo. Per un ex cattolico come me c’era qualcosa di religioso, il fascino delle regole, le continue critiche e autocritiche. La classe borghese era morta. Imparare dal popolo, solo mettermi al suo servizio poteva restituirmi una ragione. In quel periodo la mia parte artistica fu praticamente annullata, feci giusto qualche film di propaganda, Il popolo calabrese ha rialzato la testa, Viva il 1° maggio rosso. Ma il contagio non durò».
Il film della crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e Laura Betti, il racconto della ribellione alle regole in un collegio cattolico.

«Era un film in cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita. Ma il “fuori”, il rapporto con la realtà sociale esterna non mi bastava. Continuavo ad avere bisogno di capire chi ero io. E dunque la psicanalisi. Per qualche anno un’analisi classica, poi il mio grande amico Piero Natoli mi portò alla scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli».
Era il 1978, l’anno prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano da Cechov, uno degli autori che con Pirandello più lo hanno attratto.

«Con Fagioli il rapporto è stato graduale fino a diventare un forte legame personale e il cinema, con la sua partecipazione, mi sembrava prendesse la direzione giusta. Il Diavolo in corpo è un film bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato. La condanna era già più orientato ideologicamente. Finché arrivammo a Il sogno della farfalla, un film estremo, delicatamente estremo».
Fu il film che segnò la fine del legame con Fagioli e, con Il principe di Homburg, un ritorno al cinema classico.

«Non mi vergognavo più della mia origine e dei miei problemi personali. Senza rinnegare né il percorso politico né quello psicanalitico sentivo di dover seguire liberamente le mie idee, quello che mi veniva in mente, sbagliando o non sbagliando, non aveva più importanza».
Gli è rimasta invece, dice, una dimensione anarchica di vedere le cose.

«Mi appartiene da sempre, così come da sempre è fortissima la mia insofferenza nei confronti del Potere. Chissà, verrà forse dalla formazione cattolica, ma ci tengo alla coerenza e alla moralità. A proposito, mi piace molto il titolo del volume pubblicato per il MoMA: Morale e bellezza».


La Repubblica – 13 aprile 2014

Nessun commento:

Posta un commento