In una lunga (e
illuminante) intervista Marco Bellocchio racconta la sua vita: “Se
potessi dividerla in capitoli il primo riguarderebbe certamente la
perdita della fede”. A seguire cinema, politica e psicoanalisi.
Marco Bellocchio
“Non
rinnego nulla di nulla, oggi ho soltanto voglia di seguire le
mie idee. Sbagliate oppure no, ha poca importanza”
Intervista
di Maria Pia Fusco
«L’
ultima retrospettiva che mi è stata dedicata forse fu quella
di Locarno, una ventina d’anni fa. Anzi no, ce n’è stata
anche un’altra un po’ più recentemente, a Pesaro. Ma in
America...».
Il cinema di Marco
Bellocchio arriverà a New York tra pochi giorni, il 16 aprile.
Il regista di matrimoni aprirà al MoMa una retrospettiva di
diciotto titoli che si concluderà il 7 maggio con Vincere.
«Non so, può
darsi sia stato proprio il successo di quel film a favorire una
cosa così corposa. Finora negli Stati Uniti erano usciti solo
alcuni dei miei lavori, e soltanto singolarmente»
racconta il regista
in partenza per Manhattan. O forse la retrospettiva organizzata
insieme all’Istituto Luce-Cinecittà vuole più semplicemente
raccontare un percorso artistico lungo cinquant’anni: ci sono
I pugni in tasca (1965), Enrico IV (1984), Diavolo in corpo
(1986), Il principe di Homburg (1996), La balia (1999), Bella
addormentata (2012) e le versioni restaurate di Vacanze in Val
Trebbia (1980) e Gli occhi, la bocca (1982). E poi, perché no,
dopo l’Oscar a Sorrentino una retrospettiva così prestigiosa
potrebbe anche essere un ulteriore segno di vitalità del
cinema italiano.
«Certo che mi
fa piacere, e anche se per carattere tendo a tenermi a distanza
so che non appena metterò piede sull’aereo cercherò di
essere più reattivo e di farmi coinvolgere al massimo da
questa cosa. Mi succede sempre così».
Anche al Festival
del cinema di Bari, dove avviene il nostro incontro e dove
Bellocchio ha partecipato all’omaggio a Gian Maria Volontè
presentando Sbatti il mostro in prima pagina ( 1972):
«Ero arrivato
non dico con superiorità, ma con molto distacco. Poi alcune
domande del pubblico, e certe espressioni di entusiasmo
sincero, beh, mi hanno addirittura commosso».
I pugni in tasca |
A New York,
negli incontri con i media e con gli spettatori, il regista
sarà obbligato a ripercorrere le fasi di una movimentata
carriera artistica che si intreccia fortemente con la vita
personale. Meglio portarsi avanti con un breve ripasso. E
dunque, se si potesse racchiudere una vita in capitoli in
quella di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema:
«La regia è
stata per me la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo
dall’adolescenza, potrebbe intitolarsi La perdita della fede,
un passaggio fondamentale. Me ne resi conto proprio nel bel
mezzo dell’educazione cattolica, mentre frequentavo il
collegio dei Barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni e a
un certo punto cominciai a chiedermi “perché sto qui?”,
una domanda che è diventata poi il motore di tante altre cose.
Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio mi sono dedicato alla
poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la
voglia di esprimermi». Non era vero perché, anche se nei
primi anni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I
morti crescono di numero e di età, «avevo una passione
segreta, ed era quella di fare l’attore».
Poeta, pittore,
attore:
«Nessuna delle
tre ha funzionato. Finito il liceo, sono andato a iscrivermi
all’Accademia dei Filodrammatici di Milano ed è stato
in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici.
Si manifestavano nella perdita della voce, divenni
completamente afono».
Costretto a
lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una
volta l’amata Bobbio, sui colli piacentini, dove è nato il 3
novembre del ‘39, stavolta per Roma:
«Qui tentai
l’esame come attore al Centro Sperimentale. La mia voce che
ora è pessima allora era ancora più sgraziata, ricordo che
con Orazio Costa adducevo strani abbassamenti vocali. E
comunque superai l’esame. E fu proprio frequentando i corsi
come attore che cominciai a scoprire il cinema. Certo, avevo
visto tanti film, ma a scuola era diverso, era la scoperta del
muto, la magia delle immagini in movimento dei grandi maestri
del passato. Lì cominciai a desiderare di “fare le
immagini”. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fui
ammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza
della pittura».
La Cina è vicina |
All’inquieto
ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava.
«Mi sembrava
una provincia, decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni.
Oggi imparare l’inglese è un obbligo, allora era una cosa
più insolita. Erano gli anni dei Beatles, cominciava la
Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro,
all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. Ancora oggi
gli amici e Francesca (Francesca Calvelli, montatrice
eccellente e attuale compagna di Bellocchio, ndr) mi prendono
in giro per non aver vissuto l’animazione e il fervore di
quel periodo. Londra però è stata essenziale per la
progettazione de I pugni in tasca, perché lì ritrovai Enzo
Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo affascinante,
amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva
diventare produttore. E io avevo il diploma del Centro
Sperimentale ma sentivo di dover dimostrare che ero davvero un
regista».
Non fu facile
trovare i finanziamenti e dopo vari tentativi falliti
Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio.
«Nel mio essere
una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole
praticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei
saputo raccontare, mi arrangiai a girare in casa di
Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina la mia povera
famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel
patrimonio, e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la
fortuna di incontrare al Centro un ragazzo biondo, Lou Castel,
perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andata se avessi
scelto Gianni Morandi che pure a un certo punto era stato preso
in considerazione ».
Così, dopo La
perdita della fede, Il fallimento dell’attore, La scoperta
delle immagini, arriva nel ‘65, a ventisei anni, il quarto
capitolo - Il clamoroso esordio alla regia con I pugni in tasca
seguito subito dopo da un quinto: La crisi pre-68.
«Non mi
sopportavo più come rappresentante della classe cui
appartengo, la classe borghese. Oggi fa ridere, allora era una
cosa seria la ricerca di una cultura diversa, opposta. Io
sentivo il fascino dell’estrema sinistra, non operaista,
piuttosto il movimento marxista leninista, Servire il Popolo.
Per un ex cattolico come me c’era qualcosa di religioso, il
fascino delle regole, le continue critiche e autocritiche. La
classe borghese era morta. Imparare dal popolo, solo mettermi
al suo servizio poteva restituirmi una ragione. In quel periodo
la mia parte artistica fu praticamente annullata, feci giusto
qualche film di propaganda, Il popolo calabrese ha rialzato la
testa, Viva il 1° maggio rosso. Ma il contagio non durò».
Il film della
crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e
Laura Betti, il racconto della ribellione alle regole in
un collegio cattolico.
«Era un film in
cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita.
Ma il “fuori”, il rapporto con la realtà sociale esterna
non mi bastava. Continuavo ad avere bisogno di capire chi ero
io. E dunque la psicanalisi. Per qualche anno un’analisi
classica, poi il mio grande amico Piero Natoli mi portò alla
scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli».
Era il 1978, l’anno
prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano da Cechov, uno degli
autori che con Pirandello più lo hanno attratto.
«Con Fagioli il
rapporto è stato graduale fino a diventare un forte legame
personale e il cinema, con la sua partecipazione, mi sembrava
prendesse la direzione giusta. Il Diavolo in corpo è un film
bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il
rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato. La
condanna era già più orientato ideologicamente. Finché
arrivammo a Il sogno della farfalla, un film estremo,
delicatamente estremo».
Fu il film che
segnò la fine del legame con Fagioli e, con Il principe di
Homburg, un ritorno al cinema classico.
«Non mi
vergognavo più della mia origine e dei miei problemi
personali. Senza rinnegare né il percorso politico né quello
psicanalitico sentivo di dover seguire liberamente le mie idee,
quello che mi veniva in mente, sbagliando o non sbagliando, non
aveva più importanza».
Gli è rimasta
invece, dice, una dimensione anarchica di vedere le cose.
«Mi appartiene
da sempre, così come da sempre è fortissima la mia
insofferenza nei confronti del Potere. Chissà, verrà forse
dalla formazione cattolica, ma ci tengo alla coerenza e alla
moralità. A proposito, mi piace molto il titolo del volume
pubblicato per il MoMA: Morale e bellezza».
La Repubblica – 13
aprile 2014
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