Augusto Benemeglio
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Un ricordo di Cesare Pavese
“E’ bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”, ha scritto Cesare Pavese da Santo Stefano Belbo, come amava sottolineare. In realtà era nato lì, nelle Langhe, solo per caso ; non era un contadino, anche se ha mitizzato e idealizzato il mondo rurale come umana matrice, antica terra d’origine, luogo di libertà dalle costrizioni della civiltà cittadina, oasi della sua infanzia.
Pavese era un piccolo borghese di Torino che ebbe ben presto, fin da ragazzino, un mare, un oceano di problemi, a causa della morte del padre, cancelliere al tribunale di Torino, a soli 42 anni, per un cancro al cervello, quando Cesare non aveva ancora compiuto 6 anni; la madre, rimasta sola ad allevare e mantenere i due figli (Cesare aveva una sorella più grande, Maria), si dimostrerà una donna eccezionale, coraggiosa, austera, forte, e, lavorando sodo dal mattino alla sera, riuscirà a superare difficoltà enormi e situazioni disperate, come solo le donne sanno fare, per un sublime istinto materno. Ma la signora Consolina Mesturini era una piemontese silenziosa e dura, aspra e asciutta, priva di calore e tenerezza. Da questa madre autoritaria e talora tirannica (una donna molto provata dal dolore), Cesare non riceverà mai, per tutta la sua vita, una sola parola affettuosa o una carezza.
E così il ragazzo – che già di per sé era chiuso, introverso, timidissimo (ma testardo) – viene su con enormi difficoltà nei rapporti interpersonali e con una fantasia accesa, febbrile, in un cuore ultrasensibile e fragilissimo che cerca costantemente libertà e amore, un cuore che rimarrà sempre un “fanciullino” vagabondo sui sentieri delle Langhe, ad inseguire i suoi miti contadini, una sua religione panica tutta da ricomporre dentro di sé, un cuore che medita sul senso della vita e della morte, sulla incomunicabilità degli uomini e la sofferenza delle creature .
Il vizio assurdo
Cesare ha inoltre uno smisurato complesso della donna, tale da procurargli veri e propri malesseri negli innamoramenti dell’adolescenza. (Racconta lui stesso che ogni qual volta una ragazza che gli piaceva ricambiava uno sguardo, si sentiva quasi svenire, doveva fermarsi, appoggiarsi a qualcosa, per non cadere a terra). Era convinto di non poter piacere alle donne, di non essere adatto per loro, almeno per quel tipo di donna moderna come la straniera “dalla voce rauca”, Costance Dawling, di cui si era perdutamente innamorato. “Cesare non è per te, quella straniera, ti farà soffrire molto. Moglie e buoi dei paesi tuoi. Lasciala stare”, gli diceva continuamente il suo amico d’infanzia Pinolo, che troviamo in alcuni dei suoi libri. Ma lui non gli diede retta e per quella donna si suicidò, in una camera d’albergo di Torino. Era una sera del 27 agosto 1950, avrebbe compiuto 42 anni, come il padre, pochi giorni dopo, il 9 settembre, ed era al culmine del successo letterario. Aveva appena vinto il premio Strega, era un uomo ammirato e stimato, sembrava avesse tutto, invece non aveva nulla, tranne quel “vizio assurdo”, il suicidio, che lo tormentava da sempre. Ingerì più di dieci bustine di sonnifero, subito dopo aver scritto quei famosi versi, ultima sua eredità : ” Verrà la morte e avrà i tuoi occhi- /questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera , insonne / sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo […]. O cara speranza/ quel giorno sapremo anche noi/ che sei la vita e sei il nulla”.
Pavese e Leopardi
Si noti come l’ultimo verso sappia molto di Leopardi: in effetti, a ben vedere, le analogie tra il Cesare di Santo Stefano Belbo e il Giacomo di Recanati non mancano; anche Leopardi , prima di lui, aveva vagheggiato e corteggiato a lungo la morte, ma non fece mai, né avrebbe potuto, il gesto disperato. E spingendoci oltre potremmo dire che, – al contrario dei quello che sembrò e apparì per tanto tempo, ovvero l’equivoco del Pavese neo realista, alimentato dallo stesso scrittore piemontese – è proprio lui il Leopardi del novecento, reimpastato dalla psicanalisi freudiana e nutrito dagli echi del decadentismo gozzaniano e dannunziano. Cesare, peraltro, non esita ad ammettere di aver subito a lungo i richiami del poeta di Recanati. Anche lui era pessimista sulla “sorte delle umane genti”, e vide la fatica e il dolore di vivere di tutte le creature viventi al cospetto di una natura indifferente, crudele e ostile; anche lui ripercorre il mito dell’infanzia, vive tragicamente la propria solitudine e l’ossessione della morte, anche lui constata il nulla, registra i suoi amori infelici, e via dicendo.
Il garofano rosso nascosto nella tasca dei pantaloni
“Vivere è cominciare” . Personalmente quella frase che ci ha lasciato Pavese e che ho trovato in un libretto di Parole dei saggi insieme a Orazio, Epicuro, Cicerone, Seneca, Esiodo, Salomone e i Proverbi della Bibbia, la trovo formidabile, di un’incredibile attualità e palmare verità: vivere è “cominciare”; eppure non è sempre facile e semplice ri-cominciare (c’è anche una canzone, se non vado errato), quando le avversità della vita ti toccano in modo drammatico o tragico. Pavese si contraddisse, e non trovando più in sé la forza di ricominciare , si suicidò (il “vizio assurdo” di cui parla nelle ultime sue liriche e che è anche il titolo di una biografia del poeta scritta da un suo coetaneo, e compaesano, Davide Laiolo). Si suicidò davvero per l’ennesimo amore non corrisposto, che lo faceva indicibilmente soffrire e lo rendeva fallito, inutile, profondamente infelice. Il testardo delle Langhe (ma già abbiamo visto che era un mito: Cesare non fu mai contadino, né fu mai veramente un partigiano, come Fenoglio e Lajolo), non seguiva la massa. Era originale in tutto: mentre tutta l’Italia avrebbe voluto trasformarsi in un immenso garofano rosso e tutti facevano fiorire garofani sul petto, esibendoli orgogliosamente – anche gli ex fascisti – lui lo nascondeva nella tasca interna dei pantaloni. E poi aveva la rara capacità di innamorarsi sempre della donna sbagliata, anzi era alla disperata ricerca di donne che non l’avrebbero mai amato. Chissà, forse avrebbe voluto emulare gli eroi dei romanzi americani che andava traducendo, ma sapeva d’essere diverso. Loro erano belli e decisi, lui era pieno d’incertezze e tentennante, sommerso da problemi irrisolti, uno che non s’era mai piaciuto, sentendosi scisso, tormentato, infelice e fallito come uomo e perfino come autore, nonostante i successi. S’era sempre sentito fuori posto, disperatamente solo e “ diverso”, incapace di comunicare con il prossimo. Non trovò la felicità neanche quando sopraggiunsero i primi successi letterari. Voleva la pace, la serenità: essere felice, finalmente. Ma ormai non ci sperava; non credeva più nemmeno al comunismo. Si sentiva solo al mondo e disperato, nonostante “l’allodola americana “ (Costance Dawling) si fosse fermata presso il suo covone di grano, sentendosi anche lei sola e sperduta; “ma presto se ne sarebbe andata …”
Fitzgerald è pazzo?
Praticava il “sesso disperato” e mostrava una passione assurda per la politica, che in realtà non aveva mai compreso; era contro la sua natura, l’aveva soltanto sradicato e gettato in un mondo assurdo che stentava sempre più a capire. Pavese si sentiva più fratello di Musil, Kafka e Svevo che non dei Vittorini e degli americani, simbolo di libertà e rinnovamento. Negli ultimi tempi riprende a immergersi nello Zibaldone. Aveva ragione Giacomino Leopardi: le creature vengono gettate in un mondo che è noia e infelicità, un mondo da cui trovi scampo soltanto con la morte.
Negli ultimi mesi di vita gli viene proposto di tradurre Tenera è la notte, di Scott Fitzgerald, ma non accetta perché gli piace troppo. Scrive a Davide Lajolo: sai, mi dicono che Fitzgerald beveva molto ed è finito quasi pazzo. Chi ha dentro qualcosa da dire, finisce così. In un racconto recente aveva scritto : “Io capisco ammazzarsi, […]ci pensano tutti […]; ma farlo bene, farlo che sia un cosa vera. Farlo senza polemica“.
Esamina come in una carrellata la sua vita, che non è stata semplice. L’infanzia senza padre, la madre arida e dura, le ristrettezze economiche, le difficoltà nei rapporti personali; poi l’instabilità dei senza tessera in un’Italia fascista, l’arresto, il carcere, il confino, i lunghi anni di vigilanza speciale; infine la fazione e la guerra, la resistenza e la paura, la fuga e la viltà, il rimorso, la strage dei compagni e il ritorno al partito comunista, che non capiva e da cui non era stato mai capito. Infine, la delusione d’amore con l’americana, il rifugio nella solitudine e nel mito delle Langhe. Scriveva, ma nemmeno questo riusciva a dargli gioia. Ecco i lamenti della sua agonia annotati nel “Diario”: “Tu ti vai prosciugando… Qualcosa si chiude in me… Succede di notte quando comincio ad assopirmi… mi risucchia come un gorgo, un repentino e ondeggiante gorgo, in cui mi crolla il cervello, mi crolla il mondo… Mi riprendo a denti stretti, ma se un giorno non ce la faccio a riprendermi…”. E poi: “E’’cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera all’imbrunire, stretta al cuore, fino a notte… Adesso il dolore invade anche il mattino… Contemplo la mia impotenza, la sento nella ossa… Mi sono impegnato nella responsabilità politica che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio…”
Ormai mi sono bruciato dietro le navi
Vince il premio Strega con La bella estate; anche il suo ultimo libro, La luna e i falò , sta andando a ruba, è lui che trascina l’Einaudi. Lo cercano, lo invitano per festeggiare, ci sono tante ragazze che lo vogliono conoscere, vanno pazze di lui, perché è un grande scrittore, una celebrità, ma lui si muove tra ultimi spiragli di vanità e paura, tra pietà di se stesso e il tentativo vano di uscire dall’isolamento… Si sente inibito, inadatto alla vita. Cosa gli importa del successo letterario? Forse avrebbe voluto vivere in un altro secolo, fare il contadino come Nuto, o il falegname o il calzolaio.
Scrive l’ultima straziante lettera a Davide Lajolo: “Ormai mi sono bruciato dietro le navi… Non so se troverò il tesoro di Montezuma, ma so che nell’altopiano di Tenochtitlan si fanno sacrifici umani. Da molti anni non pensavo più a queste cose. Scrivevo . Ora non scriverò più e farò il mio viaggio nel regno dei morti…
Ciao per sempre. Cesare”.
Pavese è un simbolo contraddittorio dell’impegno politico e del disagio esistenziale, dirà Vittorini. E’ uno che non ha evitato i luoghi comuni e un certo vitalismo decadente. E tuttavia il suo Mestiere di vivere ha notevole importanza, registra la progressione della sua ricerca umana e letteraria, forgia una struttura ritmica e metrica tesa al racconto, a un’epica umile e quotidiana.
Cari lettori, non vi ho sollevato il morale con la triste storia di Cesare Pavese, rievocata grazie a un’originale e splendida omelia, come tutte quelle di Fabrizio, di una chiesa di periferia, ma sono queste anime tormentate e tragiche, straziate e disperate, che fanno meditare sulle nostre piccolezze, ci fanno apprezzare l’esistenza, che è un’attesa costante, come diceva Renard: “Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa “. Ma siccome tutto è relativo, anche in questo caso l’attesa è bella quando è foriera di speranze. Se aspetti un’esecuzione capitale, o una diagnosi letale, non so quanto quella possa essere gradevole. E allora torniamo alla speranza di Fabrizio: verrà la morte e avrà i tuoi occhi, occhi di padre e madre che da sempre ci accarezzano e ci attendono.
Augusto Benemeglio, Roma 10 aprile 2014
Fonte: http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/04/17/verra-la-morte-e-avra-i-tuoi-occhi-ricordo-di-cesare-pavese/
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