Parla lo storico che
sessant'anni fa fu nel gruppo che fondò la casa editrice. "Fra
noi una dialettica di cattolici, liberali e socialisti. La storia non
è andata proprio come speravamo, ma ci abbiamo provato. Con coraggio
e soprattutto con disinteresse".
Simonetta Fiori
Senza il forno della
nonna Stella, oggi non ci sarebbe il Mulino. O chissà cosa sarebbe
diventato. Perché se Luigi Pedrazzi si fosse tenuto per sé
l'eredità dello zio Emilio, quella del prestigioso marchio bolognese
che quest'anno compie sessant'anni sarebbe stata davvero un'altra
storia. "Non avevo bisogno di quei soldi", racconta
Pedrazzi, 86 anni, l'unico sopravvissuto dei fondatori e voce
autorevole del cattolicesimo democratico. "Facevo il professore
in un liceo e anche mia moglie insegnava: ce n'era abbastanza per
tirare su i figli. Li regalai alla società editrice, che così evitò
la chiusura. Ma il merito è di mia nonna Stella, che aveva fatto una
discreta fortuna vendendo i tortellini alla Real Casa inglese".
Ma fu lei professor Pedrazzi a inventarsi il marchio del Mulino?
"No, l'idea venne al
più ubriacone di noi, ma non escludo che il mio forno di famiglia in
via Santo Stefano l'avesse influenzato un po'. Non si dimentichi che
siamo in Emilia. L'idea era che ci potessero essere grani diversi, la
semola e la farina bianca, una pluralità di semi che restituiva
anche la dialettica del nostro gruppo tra cattolici, liberali e
socialisti. Provenivamo tutti dal liceo Galvani e volevamo costruire
una nuova cultura democratica. Soprattutto volevamo evitare nomi
ideologici, sul genere libertà e giustizia e altre nobilissime
cose".
Luigi Pedrazzi |
Ma perché?
"Noi con la
Resistenza non c'entravamo nulla: all'epoca avevamo i pantaloni corti
e sarebbe stato ingiusto attribuircene il merito. Il dopoguerra fu il
nostro Sessantotto: eravamo postfascisti e ci buttammo alla scoperta
del nuovo mondo, oltre Croce e oltre Gramsci. Nel 1951 fondammo la
rivista. E tre anni dopo nacque la casa editrice".
Nella città più rossa d'Italia.
"E difatti Togliatti
ci guardava con curiosità. Eravamo cattolici ma non democristiani,
laici ma non laicisti, aspramente critici dell'Unione Sovietica ma
non anticomunisti. Uno strano soggetto, che per giunta attingeva ai
finanziamenti americani. I comunisti malignavano, ma noi con quei
soldi traducevamo testi importanti della sociologia e della
politologia anglosassone, ancora debolissime nella nostra cultura. Il
catalogo includeva anche scelte europee: da Hirschman a Schlesinger,
da Aron a Morin. Così Togliatti strigliava i suoi: ma siete matti a
sputare nell'occhio dei mulinisti... ".
Le scienze sociali salivano anche in cattedra.
"Il merito era di
gente come Nicola Matteucci, storico delle dottrine sociali, o di
Ezio Raimondi e Pier Luigi Contessi, entrambi letterati, o di Antonio
Santucci, storico della filosofia. In quel gruppo non c'era nessun
sociologo, politologo o economista. Sarebbero arrivati più tardi,
svolgendo un ruolo importante. Si facevano scelte culturali e quindi
politiche senza badare ai propri interessi, privati o accademici".
Gruppo originario del Mulino
Il Mulino si distinse fin dagli inizi per un'apertura internazionale, ma il vertice editoriale in questi sessant'anni è sempre rimasto rigorosamente bolognese. Come lo spiega?
"E lei si sorprende?
La vocazione internazionale fa parte della storia di Bologna. Abbiamo
l'università più antica d'Europa e grazie a monsignor Lercaro e a
Dossetti il Concilio Vaticano II praticamente è nato qua. Poi,
certo, la convivialità e l'amicizia sono caratteristiche della casa
editrice".
Le grandi crisi sono state risolte sempre a tavola.
Le grandi crisi sono state risolte sempre a tavola.
"Soprattutto con
Barbieri, l'editore del Carlino checifinanziava. Un acceso
anticomunista. Non si capacitava che uno come Matteucci si fosse
laureato con una tesi su Gramsci. Con Giovanni Evangelisti cercavamo
di fargli digerire le nostre virate a sinistra. Ma a un certo punto
si stufò. Accadde nel '64. Durante un incontro pubblico, Nino
Andreatta gli aveva dato "Ma chi è quel frocio?", chiese
l'editore. "È uno del Mulino". Tuoni e fulmini. Io ero a
New York con Fabio Luca Cavazza quando arrivò un telegramma:
"Barbieri chiude Mulino. Tornate subito"".
E lì intervenne l'eredità salvifica dello zio Emilio.
"Sì, ma Barbieri
non voleva cedermi un bel nulla: per lui ero l'amico di Dossetti e
dei comunisti. Così fu istituita una commissione che avrebbe dovuto
vigilare sull'indipendenza politica del Mulino. L'editore finalmente
cedette le sue azioni. Ma poco dopo i soldi finirono, e io dovetti
andare da Aldo Moro".
Perché Moro?
"Era venuto diverse
volte alle nostre riunioni del mercoledì. Intelligentissimo e
noiosissimo. Mi ricevette a Palazzo Chigi con grande cordialtà. "Il
Mulino non è cosa di cui io possa dire a Freato". Brivido sulla
schiena. "Ma cercherò di procurarvi i cento milioni". Un
mese dopo fui chiamato dal cardinal Pellegrino di Torino: i soldi
erano arrivati dalla Fiat. Molti anni più tardi ci avrebbe dato una
mano anche Mario Formenton. Ma quando la famiglia vendette parte
delle proprietà a Berlusconi fummo avvertiti per tempo: ricomprate
le nostre azioni anche a un prezzo stracciato, se no rischiate di
ritrovarvelo in casa. Comprammo immediatamente".
Berlusconi avrebbe conquistato presto Palazzo Chigi. E al Mulino alcuni professori vi accusarono di non tenere in giusto conto la nuova destra.
"Brave persone, ma
non avevano quelle facoltà di reazione che avevamo noi. Un'altra
generazione. Noi eravamo saliti sui tetti a vedere le bombe. Le
guerre in questo sono utilissime. Fanno capire tante cose. E danno
coraggio".
Per decenni il Mulino è stato fucina della classe politica di centro-sinistra. L'Ulivo è nato qui.
"Sì, da noi Giugni
e Mancini fecero lo Statuto dei Lavoratori. Prodi fu portato da
Andreatta e io fui felice di cedergli la presidenza della Società.
Se il Mulino è arrivato a sessant'anni è perché ha avuto buoni
compagni di viaggio, oltre che ottimi padri e zii. Altiero Spinelli
ci entusiasmò con il suo europeismo. E Dossetti è stato una
presenza fondamentale".
1954. Primo Convegno Amici del Mulino |
Eravate amici?
"Mi chiese un
consiglio una sola volta, quando Moro era nelle mani dei brigatisti.
Voleva mandare una lettera invocando la trattativa, ma io lo
trattenni. L'indomani fummo svegliati dal giornale radio con la
notizia dell'appello di Paolo VI. "Meno male che non ho spedito
nulla", mi disse don Giuseppe. Poi però lesse bene le parole di
Montini, che specificava: "senza nessuna concessione".
S'oscurò in viso: "Uhm, va bene che il Papa è proprio un
doroteo, ma questa frase è stata aggiunta da Andreotti"".
Non c'è il rischio che il Mulino perda quella che è stata la sua ragione sociale?
"Forse sì, quel che
poteva fare l'ha già fatto. Ma in parte continua a farlo, mettendo
in circolo nuove idee e bei libri di storia. Se gli italiani avessero
più soldi, sarebbe anche una casa editrice florida, ma purtroppo il
mercato va sempre peggio. Diciamo pure che quei trenta parassiti
potrebbero darsi da fare. A chi alludo? Ai professoroni del Mulino.
Potrebbero pure impegnarsi a comprare qualche libro: duecento copie a
titolo. Ci è riuscito un monaco mio amico e non ci riescono questi
altri?".
Il suo stato d'animo dopo sessant'anni?
"La storia non è
andata proprio come speravamo, ma ci abbiamo provato. Con coraggio e
soprattutto con disinteresse".
La Repubblica – 1 aprile 2014
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