Emilio Marrese
Felice che
acchiappò il vento e lo fece poi fischiare
Fu scritta su
un foglietto staccato da un ricettario medico. Quello del dottor
Felice Cascione, via Asclepio Gandolfo 5 a Imperia. Una prescrizione
per l’anima: “Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur
bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il
sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita in
calligrafia ordinata.
La spedì dai monti
liguri, dov’era salito partigiano dopo l’8 settembre del ’43,
alla mamma Maria, maestra elementare. Che gliela fece riavere
corretta e dattiloscritta: soffia era diventato fischia, agir era
ardir, e la primavera non aveva più punto interrogativo, non era più
nostra ma rossa . La prima volta venne intonata dalla brigata di
Cascione, ventisei anni, ex campione di pallanuoto e “medico dei
poveri”, davanti al portone della chiesa di San Michele a Curenna,
borghetto del savonese, la sera della vigilia di Natale dopo la
messa, davanti a un pentolone di castagne.
Curenna, il cascinale sede della brigata Cascione |
Pochi giorni più tardi
Cascione fu trucidato dai fascisti, mentre i suoi versi adottati dal
vento continuarono a volare di bosco in bosco fino a diventare l’inno
ufficiale della Resistenza. Prima ancora della più trasversale Bella
ciao. Ognuno si masticò la sua versione: ardir può essere anche
andar , e c’è chi aggiunge una strofa con falce e martello.
Perché quelle parole
sono già di tutti, sono fiorite per esserlo. Al punto di poter
perlopiù ignorare, oggi come allora, chi ne fosse veramente
l’autore. «È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa
impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato
l’ammazzerebbero col cannone», dice il partigiano Johnny nel
romanzo di Beppe Fenoglio.
La storia di Felice Cascione, u Megu, e del suo canto ribelle è stata ricostruita da Donatella Alfonso in Fischia il vento ( Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Bello e carismatico come dev’essere un eroe, Felice rimane orfano a cinque mesi di Giobatta, commerciante d’olio, ma la madre riesce a farlo studiare. Nelle poco limpide acque marine davanti al porto diventa centrovasca e capitano del Guf Imperia, che scala tra il ‘37 e il ‘39 dalla serie C alla A del campionato di pallanuoto.
In quella stessa estate
arriva secondo ai Mondiali con la nazionale universitaria a Vienna,
tre giorni prima dell’invasione della Polonia. Lascia Genova per la
Sapienza a Roma (dove si ritrova in squadra il portiere Massimo
Girotti, non ancora divo del cinema), e infine si laurea in Medicina
a Bologna nel ’42, al termine della sua fuga dalla burocrazia
fascista che lo ostacolava negli esami e nelle graduatorie per un
posto alla Casa dello Studente.
Il giovane Felice era nel
mirino per le sue frequentazioni, in particolare quella di Giacomo
Castagneto detto Mumuccio che lo aveva introdotto nel partito
comunista clandestino, e presentato a Natta e Pajetta. Il dottorino
diventa subito popolare a Oneglia perché non fa pagare né medicine
né visite a chi non può. In agosto si fa venti giorni di prigione
per adunata sediziosa e, dopo l’armistizio, si rifugia sui monti
coi compagni a capo di un manipolo che arriverà presto a contare una
cinquantina di uomini.
Tra loro c’è Giacomo
Sibilla detto Ivan, operaio che ha fatto la campagna di Russia e
porta una chitarra a tracolla accanto al mitra. È lui che la sera,
nei casolari diroccati, strimpella questa Katiuscia , la celebre
melodia popolare russa. Il testo del poeta Isakovskij parlerebbe di
meli e peri in fiori, ma già i soldati italiani nella steppa
l’avevano storpiato con riferimenti al vento e alle loro scarpe di
cartone. Si tratta di metterla giù meglio, per quest’altra
battaglia. Ci pensa u Megu.
Le camicie nere stanano e giustiziano Felice il 27 gennaio 1944, lasciandone il corpo su un pendio. «Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è leggendario» scriverà, un anno dopo, su La voce della democrazia, un altro giovane partigiano noto come Santiago. La sua firma è Italo Calvino.
La Repubblica – 20
aprile 2014
Donatella Alfonso
Fischia il vento
Castelvecchi, 2014
16,50 euro
Nessun commento:
Posta un commento