26 aprile 2014

LA FOLLA NELL'ARTE MODERNA

Caillebotte, Strada di Parigi in una giornata di pioggia (1876)

Dalle tele di Camille Pissarro ai racconti di Edgar Allan Poe. Il fascino sottile e inquietante della moltitudine moderna

Roberta Scorranese
Dentro la pazza folla

Quanto spaventava la Ringstrasse viennese negli anni a cavallo tra Otto e Novecento! Carrozze velate che tagliavano la via formicante di aristocratici, borghesi e pezzenti, uno sciame variegato unito dalla scoperta di un qualcosa che, lentamente, assumeva una vita a sé: la città. Si guardi l’acquerello del viennese Theo Tasche, Passaggio sulla Ringstrasse, del 1908: la metropoli con i suoi negozi, il respiro polveroso, i borbottii. Le dame-bene ai balconi dei palazzi che avevano ispirato Maupassant (nella novella Le signe , 1886) e che ispireranno a Freud L’architettura dell’isteria (1897) con la medesima immagine gravida di simboli: l’affacciarsi alla finestra. Quell’ansia sottile e misconosciuta di uscire di casa e farsi massa, tutt’uno con quel microcosmo dinamico, mosso da un ritmo invisibile e convulso. Nasceva la folla.

Folla. Il tema centrale di questa edizione di «Visioni» a Lugano è antico e moderno. Se la massa nasce con un gruppo di persone agglutinate da un desiderio, una protesta, una ribellione, la folla — all’alba delle moderne metropoli — somiglia più a uno stato di necessità, a un movimento frenetico e casuale come quello degli atomi. Inquietante. Un qualcosa del quale ci si ritrova improvvisamente a fare parte.

L’arte, come sempre, aveva intuito questa nuova cattedrale sociale: c’era Camille Pissarro, il quale, con tele come La Place du Théâtre Français (1898) guardava distante, dall’alto, la strada brulicante. Persone, carrozze e cose diventavano tanti punti neri indistinti. L’acuto Caillebotte, nel dipinto Boulevard des Italiens, del 1880, adotta la stessa prospettiva, però qui la folla si infittisce, si sgretola in mille macchioline scure, addossate le une alle altre.
Pissarro, Place du Theatre Français (1898)
Opere letterarie come Il ventre di Parigi o Germinal di Émile Zola, avevano raccontato forti vicende umane con voce plurima, corale. E negli stessi anni, a Parigi, c’era Guy de Maupassant che addirittura incarnava fisicamente questa curiosa religione: era agorafobico. Ma torniamo a Vienna, sulla Ringstrasse: non è un caso che proprio lì l’architetto Camillo Sitte descrisse la paura degli spazi aperti puntando il dito contro i grandi centri affollati, in una difesa (di retroguardia?) delle piazze tradizionali nei paesi più piccoli. Però, per capire la massa moderna bisogna fare un passo indietro: andiamo nella Londra del 1840. È di quell’anno infatti la prima edizione originale di un’opera-chiave: L’uomo della folla , di Edgar Allan Poe.

Nel cuore scuro e maleodorante della capitale britannica, un uomo siede al caffé e comincia a osservare le persone che gli girano intorno come mosche. Lentamente si perde in esse, si immedesima nei loro paltò, guarda con i loro occhi. È questa la folla moderna: una solitudine condivisa, monadi antistanti che dialogano senza parlare, l’uno nei molti . Non è la «massa» novecentesca descritta da opere mirabili come La ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1939). E nemmeno quell’attrazione segreta che provò il giovane Elias Canetti nel 1922, quando, a Francoforte, si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau: quella folla indistinta, quel corpo unico e plurimo gli sembrò simile a una forza centripeta e da questa sensazione nacque (nel 1927) un’opera straordinaria, Massa e potere.
Tasche, Passeggio sulla Ringstrasse (1908)
No, no, la folla di Poe rispecchia piuttosto quella consapevolezza che, più o meno due secoli prima, aveva fatto dire all’aforista francese Jean de La Bruyère «Ah, ce grand malheur de ne pouvoir être seul!». La consapevolezza che non possiamo, non riusciamo più a stare più da soli. Chissà se è la stessa che, in quegli stessi anni o poco prima, folgorò Henry David Thoreau quando si ritirò in una capanna del Massachussets e scrisse Walden, ovvero Vita nei boschi . Un «via dalla pazza folla» che voleva essere anche un riappropriarsi del mondo.

Ma torniamo a Poe e al suo osservatore seduto al caffè di Londra. Questa immagine colpì un poeta inquieto, che cercava segrete corrispondenze tra le cose. Si chiamava Charles Baudelaire e venne catturato da Poe a tal punto che (Bufalino ha parlato di «vampirismo intellettuale») non solo si mise a tradurne e commentarne le opere, ma addirittura andò da un grande fotografo dell’epoca, Felix Tournachon, detto Nadar, e si fece ritrarre nella stessa posa dello scrittore americano. L’attenzione quasi entomologica con cui il protagonista del racconto di Poe osservava la folla, si insinuò in Baudelaire e fu in quella nicchia che lentamente prese forma la figura del flâneur , colui che vaga senza meta nella metropoli, guarda, si lascia assorbire dalla città e diventa un «botanico da marciapiede». Nasceva dunque la flânerie , ripresa da Walter Benjamin nei suoi celebri Passages . Un vagabondare tra la gente, dunque, in seguito tema di un raffinatissimo racconto di Robert Walser, La passeggiata (1919).

Poi, la folla cambierà. Diventerà massa politica e sociale, fonte di rivendicazioni o — più di recente — di una spersonalizzazione tanto più affascinante quanto più «liquida», omologata. Ma il cinema ha fatto in tempo a regalarci due capolavori sullo sciame di persone che si condensa in una massa e accusa il singolo: Il corvo, di Henri-Georges Clouzot (1943), dove la provincia piano piano si schiera accusando un uomo e Furia, di Fritz Lang (1936), dove da un chiacchiericcio monta un’aggressione da tutti contro uno. È quella Ringstrasse, insomma, che tutti ci portiamo dentro. E di cui facciamo parte.

Il Corriere della sera – 9 aprile 2014


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