Ricordo di Márquez
attraverso la scoperta dei luoghi autentici che lo hanno
ispirato. Macondo è dove si danza con Gabo .
Alessandro Baricco
Si muore tutti, ma
qualcuno muore di più. Ci ho messo poco a capire, giovedì sera, che
la scomparsa di García Márquez non era solo una notizia, ma un
piccolo slittamento dell’anima che in molti non dimenticheranno.
L’ho capito dai messaggi che arrivavano, dalle sue frasi che
iniziavano a piovere e rimbalzare ovunque. Era anche abbastanza
tardi, la sera, in quelle ore in cui inizia a non starci più niente,
nella tua giornata, e se si ottura il lavandino lasci perdere e
rimandi a domani. Eppure in così tanti ci siamo fermati, un attimo,
e abbiamo saltato un battito del cuore. Che poi, diciamocelo, avevamo
avuto anni per abituarci all’idea: Gabo se n’è scivolato
nell’ombra lentamente, con una certa timidezza, e in fondo nel modo
più gentile possibile.
Si muore tutti, ma
qualcuno muore di più. Ci ho messo poco a capire, giovedì sera, che
la scomparsa di García Márquez non era solo una notizia, ma un
piccolo slittamento dell’anima che in molti non dimenticheranno.
L’ho capito dai messaggi che arrivavano, dalle sue frasi che
iniziavano
a piovere e rimbalzare ovunque.
a piovere e rimbalzare ovunque.
Era anche abbastanza tardi, la sera, in quelle ore in cui inizia a non starci più niente, nella tua giornata, e se si ottura il lavandino lasci perdere e rimandi a domani. Eppure in così tanti ci siamo fermati, un attimo, e abbiamo saltato un battito del cuore.
Che poi, diciamocelo, avevamo avuto anni per abituarci all’idea: Gabo se n’è scivolato nell’ombra lentamente, con una certa timidezza, e in fondo nel modo più gentile possibile. Quasi assurdo, per uno che aveva scritto l’eterna e iperbolica morte della Mamà Grande. E’ come se Proust fosse morto facendo sci nautico. Ma, insomma, il tempo lui ce l’aveva dato, per un commiato indolore. Credo che molti ragazzini l’abbiano letto, in questi anni, e perfino amato, pensando che fosse uno già morto (al contrario, ragazzi: nonostante l’apparenza, non morirà mai). Eppure, al momento buono, quando si è staccato dalla vita, silenziosamente come una figurina calciatori da un album vecchissimo, ci ha fatto male, e ormai è andata così.
Agli altri non so, ma a me ha fatto male perché io, a Garcia Marquez, devo un sacco di cose. Tanto per cominciare, i venti secondi in cui ho letto per la prima volta le ultime righe di L’amore ai tempi del colera : avevo qualcosa come trent’anni e credo di aver smesso lì, in quel preciso istante, e per sempre, di avere dubbi sulla vita.
Devo a una sua frase, che
un editor gli avrebbe sicuramente tagliato, la certezza che se
dio ha creato il mondo, gli uomini hanno poi creato gli aggettivi e
gli avverbi, trasformando un’impresa tutto sommato noiosetta in una
meraviglia (no, la frase me la tengo per me).
Ho imparato da lui che
scrivere è una faccenda di generosità, un gesto senza vergogna, una
mossa imprudente e un riflesso sproporzionato: se non è così, quel
che stai facendo, tutt’al più, è letteratura.
Ho scoperto, leggendolo,
che i sentimenti possono essere repentini, passioni devastanti,
le donne infinite; che gli odori non sono dei nemici, le illusioni
non sono degli errori, e il tempo, se esiste, non è lineare: tutte
cose che non mi avevano dato in dotazione quando mi hanno spedito a
vivere.
Gli sono grato per la
risposta che, rigirandosi semiaddormentato nella sua amaca, il
colonnello Buendia diede un giorno quando lo avvertirono che era
arrivata una delegazione del partito per discutere con lui del bivio
a cui era arrivata la guerra: «Portateli a puttane».
E soprattutto: non
mi riuscirà di dimenticarlo perché non ho letto una sola sua pagina
senza ballare. Anche nelle pagine brutte (ce ne sono) non si smette
mai di ballare. Io non c’entravo, io non so ballare, ma lui sì, e
non c’era verso di farlo smettere. E quando se ne vanno quelli con
cui hai ballato, metaforicamente o no, c’è qualcosa della tua
bellezza che se ne va per sempre.
Devo anche dire che per anni ho amato i libri di Garcia Marquez da lontano, senza aver mai messo piede in Sudamerica. Poi una volta sono finito in Colombia. È stato un po’ come finire a letto con una donna con cui ti eri scritto lettere per anni.
Tanto per capirci, quando
ai colombiani tu citi l’espressione “realismo magico” quelli
vanno a terra dal ridere. Comunque non capiscono cosa significa.
Perché quello che noi cerchiamo di definire, loro lo posseggono come
normale andazzo delle cose, atavico paesaggio del vivere, ordinaria
catalogazione del creato. Ti fermi a chiacchierare dieci minuti con
un cameriere e sei già a Macondo.
È che siamo poveri e
abitiamo una terra complicata, mi ha spiegato una volta un poeta
di quelle parti. Quindi le notizie non viaggiano, il sapere si
sfarina, e tutto si tramanda nell’unica forma che non conosce
ostacolo e non costa niente: il racconto.
Poi, con una certa
coerenza, mi ha raccontato questa storia vera (ma vera, lo capite, da
quelle parti è una parola piuttosto evanescente). Un paese sulla
costa, per la festa grande, ingaggia un circo della capitale. Il
circo si imbarca su una nave e fa rotta verso il paese. Non lontano
dalla costa, però, fa naufragio: tutto il circo va a fondo, e le
correnti se lo portano via. Due giorni dopo, in un paese vicino (ma
vicino, da quelle parti,
significa poco, perché se non c’è una strada che spacca la foresta potresti essere anche a mille chilometri), i pescatori escono la sera a tirare le reti. Non sanno niente dell’altro paese, niente del circo, niente del naufragio. Tirano su le reti e dentro ci trovano un leone. Non fanno una piega. Tornano a casa. Com’è andata oggi?, avranno chiesto al pescatore, a casa, tutti intorno al tavolo, a cena. Ma niente, oggi abbiamo pescato leoni.
Noi questa cosa la chiamiamo “realismo magico”. Capite bene che quelli non capiscono. Insomma, sono finito in Colombia e allora tutto mi è parso finale e compiuto. Soprattutto se ci si spinge nella foreste caraibiche del nord, dove Garcia Marquez è nato e dove, invisibile e senza fine, dimora Macondo. I corpi, i colori, la natura vorace, gli odori, il caldo, i colori, l’indolenza febbrile, la bellezza esagerata, le notti, le solitudini, ogni pelle, qualunque parola.
Quando sono tornato,
ho dovuto rileggere tutto da capo, ed è stato come ascoltare da
un’orchestra una musica che avevo sentito alla chitarra. Lì ho
capito che c’è un solo modo di ballarla: sudando. Con la camicia
fradicia, dunque, continuerò a ballare e poco importa se la figurina
si è staccata dall’album: sono dettagli. Ho le tasche piene di
frasi di Gabo, e all’occorrenza, sarà un nulla trovare due luci e
un parquet su cui farmi portar via.
La Repubblica – 19
aprile 2014.
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