19 aprile 2014

UN VIAGGIO A MACONDO CON BARICCO





Ricordo di Márquez attraverso la scoperta dei luoghi autentici che lo hanno ispirato. Macondo  è dove si danza con Gabo .
Alessandro Baricco

Il mio viaggio a Macondo dove si balla con Gabo
Si muore tutti, ma qualcuno muore di più. Ci ho messo poco a capire, giovedì sera, che la scomparsa di García Márquez non era solo una notizia, ma un piccolo slittamento dell’anima che in molti non dimenticheranno. L’ho capito dai messaggi che arrivavano, dalle sue frasi che iniziavano a piovere e rimbalzare ovunque. Era anche abbastanza tardi, la sera, in quelle ore in cui inizia a non starci più niente, nella tua giornata, e se si ottura il lavandino lasci perdere e rimandi a domani. Eppure in così tanti ci siamo fermati, un attimo, e abbiamo saltato un battito del cuore. Che poi, diciamocelo, avevamo avuto anni per abituarci all’idea: Gabo se n’è scivolato nell’ombra lentamente, con una certa timidezza, e in fondo nel modo più gentile possibile.
Si muore tutti, ma qualcuno muore di più. Ci ho messo poco a capire, giovedì sera, che la scomparsa di García Márquez non era solo una notizia, ma un piccolo slittamento dell’anima che in molti non dimenticheranno. L’ho capito dai messaggi che arrivavano, dalle sue frasi che iniziavano
a piovere e rimbalzare ovunque.

Era anche abbastanza tardi, la sera, in quelle ore in cui inizia a non starci più niente, nella tua giornata, e se si ottura il lavandino lasci perdere e rimandi a domani. Eppure in così tanti ci siamo fermati, un attimo, e abbiamo saltato un battito del cuore.

Che poi, diciamocelo, avevamo avuto anni per abituarci all’idea: Gabo se n’è scivolato nell’ombra lentamente, con una certa timidezza, e in fondo nel modo più gentile possibile. Quasi assurdo, per uno che aveva scritto l’eterna e iperbolica morte della Mamà Grande. E’ come se Proust fosse morto facendo sci nautico. Ma, insomma, il tempo lui ce l’aveva dato, per un commiato indolore. Credo che molti ragazzini l’abbiano letto, in questi anni, e perfino amato, pensando che fosse uno già morto (al contrario, ragazzi: nonostante l’apparenza, non morirà mai). Eppure, al momento buono, quando si è staccato dalla vita, silenziosamente come una figurina calciatori da un album vecchissimo, ci ha fatto male, e ormai è andata così.

Agli altri non so, ma a me ha fatto male perché io, a Garcia Marquez, devo un sacco di cose. Tanto per cominciare, i venti secondi in cui ho letto per la prima volta le ultime righe di L’amore ai tempi del colera : avevo qualcosa come trent’anni e credo di aver smesso lì, in quel preciso istante, e per sempre, di avere dubbi sulla vita.
Devo a una sua frase, che un editor gli avrebbe sicuramente tagliato, la certezza che se dio ha creato il mondo, gli uomini hanno poi creato gli aggettivi e gli avverbi, trasformando un’impresa tutto sommato noiosetta in una meraviglia (no, la frase me la tengo per me).

Ho imparato da lui che scrivere è una faccenda di generosità, un gesto senza vergogna, una mossa imprudente e un riflesso sproporzionato: se non è così, quel che stai facendo, tutt’al più, è letteratura.
Ho scoperto, leggendolo, che i sentimenti possono essere repentini, passioni devastanti, le donne infinite; che gli odori non sono dei nemici, le illusioni non sono degli errori, e il tempo, se esiste, non è lineare: tutte cose che non mi avevano dato in dotazione quando mi hanno spedito a vivere.
Gli sono grato per la risposta che, rigirandosi semiaddormentato nella sua amaca, il colonnello Buendia diede un giorno quando lo avvertirono che era arrivata una delegazione del partito per discutere con lui del bivio a cui era arrivata la guerra: «Portateli a puttane».
E soprattutto: non mi riuscirà di dimenticarlo perché non ho letto una sola sua pagina senza ballare. Anche nelle pagine brutte (ce ne sono) non si smette mai di ballare. Io non c’entravo, io non so ballare, ma lui sì, e non c’era verso di farlo smettere. E quando se ne vanno quelli con cui hai ballato, metaforicamente o no, c’è qualcosa della tua bellezza che se ne va per sempre.

Devo anche dire che per anni ho amato i libri di Garcia Marquez da lontano, senza aver mai messo piede in Sudamerica. Poi una volta sono finito in Colombia. È stato un po’ come finire a letto con una donna con cui ti eri scritto lettere per anni.

Tanto per capirci, quando ai colombiani tu citi l’espressione “realismo magico” quelli vanno a terra dal ridere. Comunque non capiscono cosa significa. Perché quello che noi cerchiamo di definire, loro lo posseggono come normale andazzo delle cose, atavico paesaggio del vivere, ordinaria catalogazione del creato. Ti fermi a chiacchierare dieci minuti con un cameriere e sei già a Macondo.
È che siamo poveri e abitiamo una terra complicata, mi ha spiegato una volta un poeta di quelle parti. Quindi le notizie non viaggiano, il sapere si sfarina, e tutto si tramanda nell’unica forma che non conosce ostacolo e non costa niente: il racconto. 
Poi, con una certa coerenza, mi ha raccontato questa storia vera (ma vera, lo capite, da quelle parti è una parola piuttosto evanescente). Un paese sulla costa, per la festa grande, ingaggia un circo della capitale. Il circo si imbarca su una nave e fa rotta verso il paese. Non lontano dalla costa, però, fa naufragio: tutto il circo va a fondo, e le correnti se lo portano via. Due giorni dopo, in un paese vicino (ma vicino, da quelle parti,

significa poco, perché se non c’è una strada che spacca la foresta potresti essere anche a mille chilometri), i pescatori escono la sera a tirare le reti. Non sanno niente dell’altro paese, niente del circo, niente del naufragio. Tirano su le reti e dentro ci trovano un leone. Non fanno una piega. Tornano a casa. Com’è andata oggi?, avranno chiesto al pescatore, a casa, tutti intorno al tavolo, a cena. Ma niente, oggi abbiamo pescato leoni.

Noi questa cosa la chiamiamo “realismo magico”. Capite bene che quelli non capiscono. Insomma, sono finito in Colombia e allora tutto mi è parso finale e compiuto. Soprattutto se ci si spinge nella foreste caraibiche del nord, dove Garcia Marquez è nato e dove, invisibile e senza fine, dimora Macondo. I corpi, i colori, la natura vorace, gli odori, il caldo, i colori, l’indolenza febbrile, la bellezza esagerata, le notti, le solitudini, ogni pelle, qualunque parola.
Quando sono tornato, ho dovuto rileggere tutto da capo, ed è stato come ascoltare da un’orchestra una musica che avevo sentito alla chitarra. Lì ho capito che c’è un solo modo di ballarla: sudando. Con la camicia fradicia, dunque, continuerò a ballare e poco importa se la figurina si è staccata dall’album: sono dettagli. Ho le tasche piene di frasi di Gabo, e all’occorrenza, sarà un nulla trovare due luci e un parquet su cui farmi portar via.
La Repubblica – 19 aprile 2014.

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