Storia. La ristampa
per Il Mulino del libro di Eric J. Leed «Terra di nessuno.
Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale»
offre l'opportunità per riannodare alcuni fili smarriti del
Novecento.
Claudio Vercelli
Mentre ci
approssimiamo, con scarso interesse culturale
e con ancora minore convinzione intellettuale,
alle celebrazioni del centenario della
Grande guerra, l’evento che più di altri segnò tangibilmente
la coscienza della «modernità», dando ad essa quella forma
definitiva di luogo della mobilitazione
sociale e di tempo della mobilità collettiva,
che poi la fabbrica porterà a potenza ennesima,
ci si torna ad interrogare sulla sua natura periodizzante.
Tralasciando
i prevedibili profluvi di retorica
patriottica, parte stessa del dispositivo di
neutralizzazione delle coscienze nell’epoca in
cui alla nazionalizzazione delle masse si
accompagna il loro sacrificio tra campi di
battaglia e spazi di lavoro, ciò che riacquista
significato è l’impatto che un fenomeno
bellico di portata industriale, vera e propria
totalità, anticipatrice, non a caso, dei
successivi processi di radicale mutamento
delle società continentali, ha avuto sul lungo
periodo. Un periodo che di fatto è andato concludendosi
solo con 1989.
La Prima guerra
mondiale fa coincidere i processi di
cittadinanza con il ricorso alle armi; neutralizza
il conflitto sociale per poi esserne, a sua volta,
annientata (come avvenne con la Rivoluzione
d’Ottobre); segna il superamento della distinzione
tra civile e militare, due campi che si sovrappongono
quasi fino a coincidere; cancella la
separazione tra sfera pubblica e sfera privata,
così come invece era venuta determinandosi nelle
coscienze borghesi durante l’Ottocento; si manifesta
come proscenio, spettacolo e tragedia
senza fine, pretendendo un suo pubblico e una
partecipazione in prima persona da parte di
un grande numero di individui nel momento stesso in cui
nega alla radice il valore della soggettività; si dà
una natura industriale, vera radice totalitaria
dell’agire bellico, chiamando ad una mobilitazione
sistematica risorse, persone ma anche pensieri,
idee ed emozioni.
Il consumo
instabile
La Grande guerra
è quindi un complesso di fenomeni troppo
stratificati per essere ricondotti alla sola
dimensione militare e bellica, ovvero ai suoi
effetti geopolitici. Se spazza via la vecchia
configurazione dei poteri imperiali,
celebrando la centralità degli Stati-nazionali su
base etnica, tuttavia non sostituisce al quadro
precedente assetti certi e condivisi. È in
realtà l’avvio di un percorso di fluidificazione
politica che sarebbe poi stato sancito, in tempi a noi
molto più prossimi, dalla globalizzazione
socioeconomica, con la crisi dell’idea stessa di
sovranità nazionale. La società di massa, si sarebbe poi
rilevato, se si basa su un dato quantitativo (il
numero) richiede non di meno una permanente
trasformazione, una movimentazione
costante, una dialettica continua tra
costruzione e distruzione di cose e persone.
Alla fine dei
combattimenti (ma non certo delle
contrapposizioni, animose e rancorose),
nel 1918 non subentrano una pace come quella di Westfalia,
del 1648, o un equilibrio conservatore,
quale quello scaturito dal Congresso di Vienna del
1815, bensì un sistema precario, siglato a Versailles,
e destinato, da subito, a costituire il fertile
terreno per le successive rivalse. Non di meno, il
determinarsi di una condizione di instabilità
permanente, non solo avrebbe innescato le dittature
europee, ma avrebbe fornito le condizioni
migliori per l’espansione del ciclo produttivo
fordista, basato sul trinomio
produzione-consumo-distruzione sotto l’indice della saturazione
dei mercati. Al centro di questo coacervo di
elementi, e di altri ancora, c’è l’esperienza
materiale del combattimento di massa, della vita
in trincea, ma anche della mobilitazione
assidua nelle fabbriche-caserma, così come della presenza
costante della morte come dimensione collettiva.
Intorno a questi fatti, condivisi da milioni di
uomini e donne, si riarticolò un immaginario
comune destinato a durare a lungo e a offrire
esiti imprevedibili. Il fascismo, tra questi,
ma anche e soprattutto il senso dell’alienazione, della
reificazione, dell’estraneità, della dissonanza
cognitiva e percettiva che fuoriuscivano
definitivamente dai luoghi di lavoro per
diventare patrimonio di un’intera generazione,
formatasi a diretto, se non esclusivo, contatto
con le logiche della sopraffazione bellica.
La ristampa
dell’apprezzato e ormai conosciutissimo lavoro
di Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica
e identità personale nella prima guerra
mondiale (il Mulino, Bologna 2014, pp. 308, euro 14), la
cui versione originale data al 1979, offre quindi
l’opportunità di riannodare alcuni fili smarriti,
in previsione – e quindi in risposta — al
tripudio di luoghi comuni che, inesorabilmente,
saranno offerti da certa pubblicistica quando lo
stanco centenario toccherà, in ciò obbligato
dalle circostanze celebrative ed
encomiastiche, alcune date.
Il primo assunto del
testo è che la guerra moderna ha assai poco da condividere
con la logica della scarica pulsionale, ossia la
liberazione degli istinti belluini e vitalistici,
e ben di più con la dinamica che connette
l’istigazione (alla forza) alla repressione
(dell’individualità). Questo nesso era il vero centro
della vita del fante in trincea, costituendo il nucleo
della sua formazione non solo alle armi ma anche all’idea
di sé come di cittadino in quanto «servitore
della Patria». Buona parte degli eventi bellici, infatti, si
connotarono come insieme di tattiche
difensive, volte a contenere l’avversario più
che a distruggerlo.
Tra realtà e mitologia
La lunga durata del
conflitto, così come la sua soluzione politica,
avvenuta nel novembre del 1918, prodotto più dello
sfiancamento tedesco che non dello sfondamento
alleato, rivela peraltro le dinamiche di fondo, che
avevano accompagnato la formazione e il
consolidamento di una generazione
cresciuta al fronte non solo in virtù dei combattimenti
bensì delle corvée alle quali erano sottoposti
tra uno scontro e l’altro. L’esperienza della trincea
rimanda essenzialmente a questa alienante
ripetitività, alla quale si alternava il
momento dello scontro armato come punta di un iceberg
fatto di violenza istituzionale ma anche
e soprattutto di servitù quotidiana.
L’orizzonte dell’esperienza è perennemente
sospeso tra due estremi, la paura e la noia, l’angoscia e la
quiete, lo scatto e lo stallo.
All’interno di questo
contenitore germinano — quindi — sia il
senso del disincanto che la ricerca di una dimensione
vitalistica, entrambi destinati a pesare
politicamente nel dopoguerra e ad
orientarne pesantemente gli indirizzi di fondo.
La Grande guerra segna, da questo punto di vista, un trapasso
collettivo, tanto più potente in quanto legato agli
effetti amplificatori dei sistemi di comunicazione
di massa che nel conflitto trovano un’occasione di
affinamento tecnico e di espansione della
sfera di influenza. La linea di separazione tra realtà
e mitografia viene qui varcata
definitivamente, attraverso la
propaganda, che diventa lo strumento per
condizionare non solo le scelte di circostanza
ma il modo di percepire se stessi.
La vera ombra che
accompagna l’esperienza del giovane fante è però
quella della morte, che pervade di sé ogni anfratto della sua
esistenza, divenendone una sorta di reciproco
inverso quotidiano. La sua presenza, e pervicacia,
derivano dal fatto che l’orizzonte della guerra
tecnologica cancella definitivamente
qualsiasi residuo romantico, legato all’idea del
duello a viso aperto, consegnando i combattenti,
prima ancora di farli morire, alla percezione
dell’invisibilità del nemico (che essi vivono come propria
irrilevanza), poiché celato allo sguardo dalle
trincee; alla condizione di formiche,
obbligate a strisciare sulla terra, a condividerne
il fango e ad adattarsi alla sua mutevole
morfologia, seguendo i tracciati
interminabili delle trincee; alla supremazia
delle macchine e delle tecnologie che
sembrano estendere e proiettare più
aspetti delle officine sui campi di battaglia.
Se per una parte dei
combattenti il conflitto avrebbe dovuto segnare il
superamento delle convenzioni sociali e il
congedo dai vincoli del lavoro subordinato
e della società alienante esso, in realtà, enfatizzò
in tutti i suoi aspetti la dimensione industrialista
del confronto, rivelando quanto non fossero gli
uomini a crearlo e rigenerarlo con la propria
volontà, essendo semmai loro per primi sopraffatti dalla
sua cornice rigorosamente tecnologica.
La violenza devastante dell’artiglieria ne è l’ossessivo
riscontro.
Il tempo quotidiano
Presentata
come una catarsi, una rigenerazione radicale
degli spiriti, la Prima guerra mondiale quasi da subito si
smaschera, costringendo una quantità gigantesca
di coscritti, di tutte le nazioni, dentro gli obblighi di
un’azione collettiva dove sono le economie
a muovere le persone come delle pedine. La tecnica
perde la sua ingenua idealizzazione di musa del
progresso sociale e civile, diventando l’elemento
autonomo che detta le condizioni di sopravvivenza
ad esseri umani sempre più spesso rassegnati ad un
destino di sopraffazione. Anche da questa
condizione, che contrassegna l’insieme
dei combattimenti, lievita e si consolida
la percezione, condivisa dai più, di essere le
vittime di un atto di espropriazione.
Quella che deriva dal
non potere incidere in alcun modo non solo sulle grandi scelte
ma anche e soprattutto sulla propria quotidianità.
Il tempo della guerra, quindi, sembra sempre più
contraddistinto da una sorta di fatale inerzialità,
trattandosi di un evento autonomo, che si impone, per
poi precipitarvi, sulla testa di tutti. Queste,
e molte alte, sono le riflessioni che Eric J. Leed
consegna al lettore italiano.
Significativo
è senz’altro lo sforzo di immedesimazione
che le pagine del suo libro offrono a chi intenda calarsi nella
realtà percettiva e cognitiva dell’esperienza
della guerra, nonché della sua rielaborazione
tra i veterani e i reduci. Non di meno,
nell’equilibrio dei diversi giudizi che formula,
costituisce un valido deterrente rispetto a quella
storia politica, giocata sui grandi numeri, che
ritiene che i fatti possano essere intesi, raccontati
e rielaborati solo partendo dall’alto,
ossia da chi li ha causati e gestiti, lasciando che poi
a pagarne pegno fossero masse indistinte di
individui calcolati come mere statistiche.
Il Manifesto – 8 aprile 2014
Eric J. Leed
Terra di nessuno. Esperienza
bellica e identità personale nella prima
guerra mondiale
il Mulino, 2014
euro 14
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