Ero giovane e ingenuo e ci lasciai una gamba a
lottare per la patria, ma sono deluso. Così ho chiesto che mi restituiscano la
gamba e che si tengano pure la patria
Ma loro si rifiutano di farlo e mi chiamano
traditore
Il mio fraterno amico, Nicolò Messina, ieri sera mi ha inviato la deliziosa vignetta pubblicata su EL PAIS lo scorso 15 aprile insieme al suo commento e a quello di Rosa Montero che di seguito ripropongo nella traduzione fatta dallo stesso Nicolò:
Patrie, patrioti, patriottardi!
Morire per la patria! Dall’antica Grecia (Tirteo) alla Roma (Orazio) dei ricordi
liceali, ai nostri giorni. Bello, dolce, persino onorevole! Ma quanto nefasti i
riflessi della retorica guerrafondaia e degli individualismi nazionalistici. I
Balcani e tutte le guerre “periferiche”, ma anche le scaramucce non meno
sanguinose insegnano.
D’altronde, le glorie e la grandeur dei microstati cittadini della
Grecia classica – l’un contro l’altro armati – non possono far dimenticare i
disastri e le miserie presenti. Quelle dei comuni, delle signorie e delle corti
rinascimentali dell’Italia d’un tempo, nemmeno. Ed è una prospettiva realistica
per venir fuori dall’attuale crisi di sistema, purtroppo non puntuale, ma di
sistema, uscire da ogni consorzio, da ogni possibile euro, rinchiudersi in
piccole patrie, abbandonarsi alle tentazioni xenofobe più o meno mascherate o
impudicamente esibite?
Divide et impera. Lo sapevano bene i più provetti imperialisti
dell’antichità. Ed è un dato di fatto che le tensioni centrifughe fanno il
gioco dei centralismi più biechi e interessati. [nm]
Matita e penna a dialogo sulle patrie
Patrie
Rosa Montero
El
País, 15
aprile 2014
In Ucraina si stanno già sparando con i separatisti filorussi. Si presagiva
da quando, un mese fa, Putin proclamò: «Crimea ritorna alla patria». Che paura
mi fa questa patria in pompa magna. Persino quando la scrivo con la minuscola,
mi prende un’angoscia straripante. Detesto la parola patria. Detesto tutte le
patrie, madri sanguinarie che hanno ricolmato la Terra di stragi. Non
impariamo; abbiamo già dimenticato le guerre della Jugoslavia, quel fervore di
patrie atroce in modo esemplare, in cui famiglie che da anni erano vicine di
casa finirono con lo sgozzare i bambini dei dirimpettai. La patria acceca. La
patria svilisce. Il destino ci liberi dalle patrie e dai patrioti.
Serpeggia per il mondo un impulso di modernità verso la costruzione di
organismi sovranazionali che minimizzino il furore guerriero delle bandiere. Ma
ogni volta che si fa un salto in avanti, spunta un contrappeso retrogrado:
donde il rinverdire dei nazionalismi. E quello catalano, certo, è infinitamente
più civilizzato. Ma gioca con lo stesso giocattolo: il sentimento patriottico,
che è un atto di fede puramente irrazionale. E quanto più emozionante e bello
ci sembra, quanto più ci stringe di pianto la gola, tanto più ci annebbierà il
raziocinio. Un lucido lettore, David Nieto Prats, rilevava tale irrazionalità
in una lettera: «Rispetterebbe la Generalitat [governo autonomo speciale della
Catalogna] il diritto di decisione delle regioni in cui avrebbe vinto il no [in
un eventuale referendum di secessione] e che pertanto avrebbero deciso di continuare
a stare insieme alla Spagna?». Le patrie per definizione escludono i diversi.
Le patrie si creano creando nemici. Per questo mi addolora e mi preoccupa la
questione catalana. Mi addolora, perché voglio bene ai catalani e non desidero
che vadano via. E mi preoccupa perché stanno svegliando il can che dorme
(attenzione anche allo spagnolismo!). Per questo dovremo far qualcosa, loro e
noi. Dovremo arrivare a un qualche accordo, prima che le patrie ci divorino.
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