15 aprile 2014

F. GIFUNI TRA CAMUS E PASOLINI





Pubblichiamo un’anticipazione dal numero dei Quaderni del Teatro di Roma in uscita in questi giorni. 

 CONVERSAZIONE CON FABRIZIO GIFUNI
di  Graziano Graziani

Gadda, Pasolini, Camus, Dante, Pavese. Nel corso di un decennio Fabrizio Gifuni ha dato vita a una feconda opera di dialogo tra letteratura e scena, senza però tralasciare un forte accento autorale che ha conferito al suo teatro un tratto identitario molto forte, in grado di parlare al presente senza però distorcere le parole del passato. Lo abbiamo incontrato, dopo il recente successo del film di Paolo Virzì, «Il capitale umano», che lo vede tra i protagonisti, per farci raccontare questo suo personale intreccio tra teatro e letteratura.
Dieci anni fa iniziavi con Pasolini. Cosa stavi cercando?
Lo spettacolo su Pasolini è stato uno spartiacque che ha segnato l’inizio di questo mio modo attuale di lavorare in teatro. Sentivo l’esigenza di una maggiore assunzione di responsabilità, perché il teatro mi sembrava un luogo troppo importante per continuare a lavorare da interprete puro (cosa che, invece, mi diverte moltissimo al cinema). La prima spinta è stata pensare – in quegli anni – a cosa volevo raccontare, cosa volevo portare in teatro. Così è nato il progetto “Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione” di cui “Na specie de cadavere lunghissimo” è la prima parte.
In prima battuta ho cercato dei testi teatrali, ma non ho trovato nulla che potesse uguagliare per precisione, capacità di analisi e lucidità opere come gli “Scritti corsari” e le “Lettere luterane”. Ho cominciato a lavorare a una drammaturgia a partire da quei libri, con l’idea di vedere se questi testi potevano produrre una reazione interessante messi a contrasto con il poemetto di Giorgio Somalvico sulla morte di Pasolini.
Per un paio d’anni ho lavorato in solitudine. Ne è uscito fuori un testo voluminoso, che ho fatto leggere a Giuseppe Bertolucci per un parere. Di fronte al suo entusiasmo gli ho chiesto di proseguire il lavoro con me. Così è nata quella collaborazione che per me è stata decisiva da molti punti di vista.
L’idea di partenza non era portare la letteratura in teatro. Volevo mettere in campo quello che mi interessava.
Parli di “precisione” e “lucidità”. Era ciò che ti premeva portare in scena?
Sì. La precisione del pensiero, una lingua cristallina e comprensibile a chiunque. Nel caso di Pasolini, dove i testi di partenza non sono nemmeno letteratura in senso stretto, ma articoli di giornale, c’era la sfida di capire come avrebbero funzionato in scena. Tuttavia non mi sarebbe mai venuto in mente di usarli se non avessi potuto metterli a confronto con il testo di Somalvico. È un testo nato per la scena, doveva anzi essere un melologo.
La cosa che avevo chiara è che non volevo che fosse qualcosa di simile al teatro di narrazione. Non ho nulla contro la narrazione a teatro, che anzi ha prodotto cose importantissime. Ma c’è qualcosa in quella forma che non riguarda me. Sento il rischio di un sottile ricatto, perché non si può non essere d’accordo. Il teatro per me è invece la messa in discussione di qualunque principio e ordine attraverso una forma rituale.
Qual è stato invece il lavoro su Gadda?
Sono partito dal “Giornale di guerra e di prigionia”. Credo che lì si annidi gran parte del segreto della scrittura di Gadda. Quella è la ferita originaria per reagire alla quale Gadda scatena questa lingua fantasmagorica che è come una corazza con cui è grado di proteggersi dal consorzio sociale e d restare al mondo.
Feci un primo studio sui diari di guerra e su poche pagine di “Eros e Priapo” al Museo della fanteria di Roma. Lì venne Pietro Citati, che non conoscevo, e si entusiasmò pregandomi di lavorare su “La cognizione del dolore”. Ci ho lavorato per parecchio tempo senza trovare una soluzione, mentre al contempo mi accorgevo che i diari erano per me irrinunciabili e che “Eros e Priapo” stava innescando un cortocircuito con il presente pazzesco (proprio per questo da dosare sapientemente). Ho capito allora che non dovevo portare in scena “La cognizione”, ma piuttosto trasformarlo nel testo fantasma sottostante lo spettacolo. Anche perché leggendo e rileggendo il romanzo la pista che avevo fiutato era la reinvenzione del paradigma di Amleto, che a me sembrava evidente ma che non ritrovavo in nessuno dei grandi studi critici su Gadda. Ne ebbi conferma proprio grazie a Citati, che mi fornì un’edizione della “Cognizione” che non si trova più, corredata degli appunti preparatori. Solo in quelle note si può scoprire quanto Gadda pensasse continuamente ad Amleto, sul tema della nevrosi e di una comune follia.
Questo progetto sulla letteratura non è stato mosso da considerazioni “ideologiche”. È nato come esigenza di vita, perché non volevo più fare l’interprete. Pur non essendo stata una cosa premeditata, il lavoro fatto negli anni mi ha fatto scoprire il lavoro di drammaturgia è quello che mi dà il piacere più grande. Contiene il settanta per cento del lavoro interpretativo. Ho avuto bisogno di pochissimo tempo in sala prove, perché quando hai passato due e più anni a scegliere una a una le parole di cui ti vuoi fare carico, hai innescato già un processo interpretativo fortissimo che in prova devi solo liberare.
Da come lo descrivi, il tuo sembra un lavoro di stampo critico.
Per forza di cose, quando lavori tanto a dei testi diventi anche tu uno studioso. Ma quel profilo scientifico ha senso poi solo quando si trasforma in corpo. Altrimenti farei un altro mestiere. L’altra cosa essenziale è che tutti questi temi hanno a che fare profondamente con me, con la mia vita. C’è sempre un investimento personale molto grosso. Lavorando su Pasolini, ad esempio, mi sono ritrovato a lavorare sul tema del “doppio”, delle dualità padre-figlio, vittima-carnefice, Jekyll-Hyde, che in quel momento bussava alle porte della mia coscienza.
Non c’è solo piacere letterario. Se il tema non mi riguardasse profondamente non troverei lo stimolo. Se non riuscissi a portare in scena, oltre al lavoro più visibile, anche dei “formidabili esorcismi” personali, dopo un po’ mi annoierei.
Per la tua lettura radiofonica de «Lo Straniero» di Camus hai parlato della necessità di “trovare una voce” in grado di dare corpo a quelle parole. Cosa intendevi?
Quella performance andrebbe etichettata come reading, così come i lavori su Pasolini e Gadda sarebbero a rigor di logica del monologhi. Ecco, io tuttavia non sento mai di star recitando un monologo, mi sembra anzi di attraversare una polifonia. Non sento mai la natura dell’io monologante. E lo stesso vale per Camus. C’è un farsi carico di quelle parole che richiede una fatica fisica notevolissima. Quel “farsi carico” è uno dei punti nodali. Avverto un rapporto di intima fratellanza con chi fa il mestiere dello scrittore e del poeta, pur lavorando in direzione contraria: scrittori partono dal loro corpo e depositano sulla pagina il frutto del loro lavoro, io invece compio il percorso contrario, riportando le parole a una dimensione verticale, mettendomele addosso. Non bisogna mai scordare che, ad esempio, i Diari di Gadda sono stati scritti in quella lingua perché suo corpo è stato fisicamente in trincea.
Poi c’è la voce, che è a sua volta corpo. La voce mi ha sempre incuriosito, prima ancora di decidere di fare l’attore. Mi domandavo perché una persona parla in un certo modo. Le storture dell’articolazione, i difetti di pronuncia, tutto contribuisce a disegnare quello che è uno dei tratti identitari dell’essere umano: la voce. Seguire quel percorso che contribuisce a disegnare la voce mi mette in contatto molto più facilmente con il pensiero di un personaggio o di uno scrittore. Anche per Gadda, al di là della voce che ho ascoltato nei filmati, ho compiuto un percorso per immaginare che voce avesse avuto da giovane, da quali elementi vocali fuoriusciva la sua personale nevrosi. Lo stesso vale per Camus: la prima domanda che mi sono fatto è “che voce ha Meursault?”.
La voce che ricerco non deve avere necessariamente a che fare con un carattere naturalistico. Dev’essere qualcosa che si segnala come “voce possibile” di quel pensiero.
Come si arriva dalla pagina alla voce che forgi per la scena?
Il testo è il punto di partenza. Bisogna capire che suggestioni sonore ti rimanda, metterti in ascolto e decidere quali seguire e quali no. Poi occorre intrecciare quelle suggestioni con altre suggestioni che hanno a che fare con altri livelli, con il pensiero ad esempio, ma anche con una traccia psichica. Perché, nel corso del lavoro, nascono necessariamente altre linee di suggestione. Per come la vedo io il lavoro che si porta in scena è la risultate di un punto di incontro, tra tante cose: tra te e il personaggio, tra te e il testo, etc… Ci si trova sempre a metà strada.

Fonte: http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-fabrizio-gifuni/ 

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