16 aprile 2014

R. SENNETT SUI SENZA PATRIA


Un’anticipazione dal nuovo libro dello studioso americano Richard Sennett (Lo straniero. Due saggi sull'esilio) da oggi in libreria per Feltrinelli. 
 Le ferite dei senza patria

La que­stione da cui sem­bra dipen­dere tutto il rac­conto del mito di Edipo di per sé appare di scarso inte­resse arti­stico, anzi non è che una rotel­lina nel mec­ca­ni­smo dell’intreccio. Sulle cavi­glie del re una ferita rice­vuta nell’infanzia ha lasciato un segno nella carne. In greco il nome «Edipo» signi­fica appunto «colui che ha le cavi­glie tra­fitte». Il re ha vaga­bon­dato, ha perso il con­tatto con le pro­prie ori­gini, ma quando nella sto­ria si arriva al punto in cui i per­so­naggi devono sapere quale sia la sua vera iden­tità, rie­scono a ritro­vare que­sta verità esa­mi­nando il suo corpo. Il pro­cesso di iden­ti­fi­ca­zione ha ini­zio quando un messo dichiara: «Pos­sono testi­mo­niarlo le giun­ture dei tuoi piedi».

Se le prove che il re Edipo sta cer­cando non fos­sero quelle rela­tive all’incesto, forse pre­ste­remmo più atten­zione a que­sta cica­trice. Nono­stante il lungo migrare del re nel corso della sua vita, il suo corpo con­serva ancora la prova inde­le­bile di chi egli sia «vera­mente». I viaggi che ha com­piuto invece non hanno lasciato sul suo corpo un ana­logo mar­chio distin­tivo: la sua espe­rienza di migrante conta poco, ovvero conta poco in rap­porto alla sua origine.

IL MAR­CHIO DELL’APPARTENENZA

Nella cul­tura occi­den­tale que­sta cica­trice di Edipo sem­bra rap­pre­sen­tare la fonte da cui discen­dono i segni inde­le­bili che il dician­no­ve­simo secolo avrebbe letto nel corpo col­let­tivo della nazione. L’origine diventa il destino. In verità, se si guarda indie­tro agli inizi della nostra civiltà, si ha l’impressione che l’esilio, lo spos­ses­sa­mento, l’emigrazione abbiano avuto un’importanza di gran lunga minore rispetto ai mar­chi dell’origine e dell’appartenenza. Viene da pen­sare al rifiuto dell’esilio da parte di Socrate come prova della cre­denza che per­fino la morte da cit­ta­dino fosse più ono­re­vole. O a quell’osservazione di Tuci­dide sul fatto che gli stra­nieri non hanno parola, con la quale non si vuol dire let­te­ral­mente che non sap­piano espri­mersi bene, ma che la loro parola nella polis conta ben poco: la loro è la chiac­chiera di quelli che non hanno la facoltà di votare.

Tut­ta­via i segni sulle cavi­glie di Edipo non sono gli unici a mar­chiare il suo corpo. Egli risponde cavan­dosi gli occhi alle ferite che all’inizio altri gli hanno inflitto. Se met­tiamo da parte la valenza ses­suale di que­sto mito e lo esa­mi­niamo sem­pli­ce­mente come un rac­conto, la seconda ferita com­pensa la prima: la prima è una ferita che indica le ori­gini, la seconda la sto­ria suc­ces­siva. Dop­pia­mente ferito, Edipo è diven­tato un uomo la cui esi­stenza si può let­te­ral­mente leg­gere sul corpo, ed è a par­tire da que­sta con­di­zione che egli erra di nuovo per il mondo come un vaga­bondo. Quando parte da Tebe, Edipo pensa che forse potrebbe ritor­nare alle pro­prie ori­gini, sulla mon­ta­gna, «sul mio Cite­rone, che mio padre e mia madre, quand’erano vivi, mi asse­gna­rono come tomba degnis­sima», ma que­sto ritorno non è desti­nato a rea­liz­zarsi. Infatti, quando si apre Edipo a Colono, anzi­ché nei luo­ghi delle sue ori­gini, Edipo è arri­vato al deme (sob­borgo) di Colono, a un chi­lo­me­tro e mezzo di distanza a nord-ovest di Atene, dove invece è desti­nato a morire secondo quanto gli ha pre­detto l’oracolo di Delfi, anche se la pro­fe­zia si avve­rerà in modo diverso da come aveva imma­gi­nato all’inizio della tragedia.

Le due ferite sul corpo di Edipo sono dun­que la cica­trice delle ori­gini, che non si può nascon­dere, e la cica­trice dell’uomo errante, che non pare riu­scire a sanarsi. Que­sta seconda insa­na­bile cica­trice nella civiltà occi­den­tale ha un signi­fi­cato come lo ha la cica­trice dell’origine che marca il valore attri­buito all’appartenenza a un luogo spe­ci­fico. I greci coglie­vano nell’interminabile viag­gio di Edipo una riso­nanza con le leg­gende ome­ri­che, spe­cial­mente con quella di Ulisse.

L’ESSERE IN CAMMINO

Nella pro­ce­dura greca, che più tardi sarebbe stata codi­fi­cata nel diritto romano, in alcune cir­co­stanze l’esilio era con­si­de­rato di fatto ono­re­vole, più della scelta di Socrate: l’exsi­lium con­ce­deva alla per­sona con­dan­nata alla pena capi­tale il diritto di sce­gliere l’espulsione al posto della morte, una scelta che rispar­miava agli amici e alla fami­glia la ver­go­gna e il dolore di assi­stere all’esecuzione di uno di loro. Ma Sofo­cle nel suo Edipo a Colono inse­ri­sce una dimen­sione morale nell’atto di emi­grare, rap­pre­sen­tando Edipo come una figura nobi­li­tata dal suo stesso sra­di­ca­mento. La tra­ge­dia tra­sforma Edipo in meteco, in stra­niero, in un per­so­nag­gio di tra­gica gran­dezza più che in un estra­neo la cui leva­tura è minore di quella di un cittadino.

Diven­tare uno stra­niero signi­fica essere strap­pati dalle pro­prie radici. La con­di­zione di sra­di­ca­mento assume nella tra­di­zione giudaico-cristiana un valore morale posi­tivo, anzi potremmo dire che diventa di fon­da­men­tale impor­tanza. Gli uomini dell’Antico Testa­mento si con­si­de­ra­vano nomadi senza radici. Lo Jahvè dell’Antico Testa­mento, con la sua Arca dell’Alleanza tra­spor­ta­bile, era lui stesso un dio nomade come sot­to­li­nea il teo­logo Har­vey Cox: «Quando l’Arca, infine, fu cat­tu­rata dai fili­stei, gli ebrei comin­cia­rono a ren­dersi conto che Jahvè non si tro­vava nem­meno in essa (…). Egli viag­giava con il suo popolo e altrove».

Jahvè era un dio del tempo più che dio di un luogo, era un dio che aveva pro­messo ai suoi seguaci un senso divino per le loro tri­sti pere­gri­na­zioni. Anche tra i cri­stiani dei primi secoli, come tra gli ebrei dell’Antico Testa­mento, il noma­di­smo e l’essere espo­sti erano pro­fon­da­mente per­ce­piti come con­se­guenze della fede. All’apice della glo­ria dell’Impero romano, l’autore della Let­tera a Dio­gneto affer­mava: «I cri­stiani non si distin­guono dal resto dell’umanità, né per sede, né per lin­gua, né per usanze. Essi infatti non abi­tano in città par­ti­co­lari, (…)non pra­ti­cano un modo di vivere straor­di­na­rio. (…)Essi dimo­rano nei loro paesi, ma solo come ospiti tem­po­ra­nei (…). Per loro ogni paese stra­niero è patria, e ogni patria è paese stra­niero». Quest’immagine di non stan­zia­lità sarebbe diven­tata uno dei modi in cui Sant’Agostino avrebbe defi­nito le due città nella Città di Dio: «Si legge nella Scrit­tura che Caino edi­ficò una città men­tre Abele, in quanto esule non la edi­ficò. La città degli eletti è in cielo, seb­bene si pro­curi nel mondo i cit­ta­dini con i quali è in cam­mino fin­ché giunge il tempo del suo regno». L’essere «in cam­mino, fin­ché giunge il tempo», piut­to­sto che la stan­zia­lità in un luogo, attinge la pro­pria auto­rità dal rifiuto di Gesù di con­sen­tire che i suoi disce­poli edi­fi­cas­sero monu­menti per lui, e dalla sua pro­messa di distrug­gere il Tem­pio di Gerusalemme.

Quella giudaico-cristiana è quindi una cul­tura che, pro­prio alle sue fonti, riguarda diret­ta­mente l’esperienza dello sra­di­ca­mento. La nostra è una cul­tura reli­giosa della seconda cica­trice. La ragione per cui viene con­fe­rito tutto que­sto valore allo sra­di­ca­mento deriva da un pro­fondo discre­dito dell’antropologia della vita quo­ti­diana: il nomos non è verità. Le cose quo­ti­diane sono di per sé illu­so­rie – illu­so­rie come lo erano per gli orfici e per Pla­tone e nella misura in cui lo sareb­bero state per sant’Agostino.

UNO STIGMA MORALE

Una sva­lu­ta­zione del com­por­ta­mento quo­ti­diano di que­sto tipo fa la sua appa­ri­zione in un momento indi­men­ti­ca­bile dell’Edipo a Colono, pro­prio nel discorso che Edipo rivolge al gio­vane Teseo: «Figlio di Egeo a me caris­simo, sol­tanto gli dei non cono­scono vec­chiaia e morte; tutto il resto viene tra­volto dal tempo onni­pos­sente. Illan­gui­di­sce la forza della terra, illan­gui­di­sce la forza del corpo; muore la lealtà, ger­mo­glia la per­fi­dia, né mai per­dura lo stesso sen­ti­mento fra gli amici o fra città e città. Agli uni subito, agli altri in seguito quel ch’è dolce si tra­muta in amaro e poi di nuovo in dolce. Così anche se ora Tebe è in pace per­fetta con te, il tempo infi­nito genera nel suo corso notti e giorni infi­niti, durante i quali essi, sotto lieve pre­te­sto, man­de­ranno al vento con la forza delle armi ogni patto d’amicizia».

Dun­que que­sta seconda cica­trice, che è il segno distin­tivo dello stra­niero, è uno stigma morale, pro­prio per­ché non si sana mai del tutto. Sia nel pen­siero clas­sico sia in quello giudaico-cristiano, coloro che si sono libe­rati dalle cir­co­stanze, coloro che con­du­cono vite da sra­di­cati, pos­sono diven­tare esseri umani di un certo rilievo. Girando per il mondo, si tra­sfor­ma­vano. Si libe­ra­vano dalla par­te­ci­pa­zione cieca e, di con­se­guenza, diven­ta­vano capaci di inda­gare le cose appro­fon­di­ta­mente in prima per­sona, pote­vano ope­rare scelte per se stessi o sen­tirsi infine, come il cieco re greco e il mar­tire cri­stiano, al cospetto di un potere più alto. Le due cica­trici sul corpo del re Edipo rap­pre­sen­tano un con­flitto fon­da­men­tale all’interno della nostra civiltà, in cui le pre­tese di verità del luogo e degli inizi si oppon­gono alle verità da sco­prire quando si diventa stranieri 


Il manifesto, 16 aprile 2014

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