Un’anticipazione dal nuovo libro dello studioso americano Richard Sennett (Lo straniero. Due saggi sull'esilio) da oggi in libreria per Feltrinelli.
Le ferite dei senza patria
La questione da cui sembra dipendere tutto il racconto del mito di Edipo di per sé appare di scarso interesse artistico, anzi non è che una rotellina nel meccanismo dell’intreccio. Sulle caviglie del re una ferita ricevuta nell’infanzia ha lasciato un segno nella carne. In greco il nome «Edipo» significa appunto «colui che ha le caviglie trafitte». Il re ha vagabondato, ha perso il contatto con le proprie origini, ma quando nella storia si arriva al punto in cui i personaggi devono sapere quale sia la sua vera identità, riescono a ritrovare questa verità esaminando il suo corpo. Il processo di identificazione ha inizio quando un messo dichiara: «Possono testimoniarlo le giunture dei tuoi piedi».
Se le prove che il re Edipo sta cercando non fossero quelle relative all’incesto, forse presteremmo più attenzione a questa cicatrice. Nonostante il lungo migrare del re nel corso della sua vita, il suo corpo conserva ancora la prova indelebile di chi egli sia «veramente». I viaggi che ha compiuto invece non hanno lasciato sul suo corpo un analogo marchio distintivo: la sua esperienza di migrante conta poco, ovvero conta poco in rapporto alla sua origine.
IL MARCHIO DELL’APPARTENENZA
Nella cultura occidentale questa cicatrice di Edipo sembra rappresentare la fonte da cui discendono i segni indelebili che il diciannovesimo secolo avrebbe letto nel corpo collettivo della nazione. L’origine diventa il destino. In verità, se si guarda indietro agli inizi della nostra civiltà, si ha l’impressione che l’esilio, lo spossessamento, l’emigrazione abbiano avuto un’importanza di gran lunga minore rispetto ai marchi dell’origine e dell’appartenenza. Viene da pensare al rifiuto dell’esilio da parte di Socrate come prova della credenza che perfino la morte da cittadino fosse più onorevole. O a quell’osservazione di Tucidide sul fatto che gli stranieri non hanno parola, con la quale non si vuol dire letteralmente che non sappiano esprimersi bene, ma che la loro parola nella polis conta ben poco: la loro è la chiacchiera di quelli che non hanno la facoltà di votare.
Tuttavia i segni sulle caviglie di Edipo non sono gli unici a marchiare il suo corpo. Egli risponde cavandosi gli occhi alle ferite che all’inizio altri gli hanno inflitto. Se mettiamo da parte la valenza sessuale di questo mito e lo esaminiamo semplicemente come un racconto, la seconda ferita compensa la prima: la prima è una ferita che indica le origini, la seconda la storia successiva. Doppiamente ferito, Edipo è diventato un uomo la cui esistenza si può letteralmente leggere sul corpo, ed è a partire da questa condizione che egli erra di nuovo per il mondo come un vagabondo. Quando parte da Tebe, Edipo pensa che forse potrebbe ritornare alle proprie origini, sulla montagna, «sul mio Citerone, che mio padre e mia madre, quand’erano vivi, mi assegnarono come tomba degnissima», ma questo ritorno non è destinato a realizzarsi. Infatti, quando si apre Edipo a Colono, anziché nei luoghi delle sue origini, Edipo è arrivato al deme (sobborgo) di Colono, a un chilometro e mezzo di distanza a nord-ovest di Atene, dove invece è destinato a morire secondo quanto gli ha predetto l’oracolo di Delfi, anche se la profezia si avvererà in modo diverso da come aveva immaginato all’inizio della tragedia.
Le due ferite sul corpo di Edipo sono dunque la cicatrice delle origini, che non si può nascondere, e la cicatrice dell’uomo errante, che non pare riuscire a sanarsi. Questa seconda insanabile cicatrice nella civiltà occidentale ha un significato come lo ha la cicatrice dell’origine che marca il valore attribuito all’appartenenza a un luogo specifico. I greci coglievano nell’interminabile viaggio di Edipo una risonanza con le leggende omeriche, specialmente con quella di Ulisse.
L’ESSERE IN CAMMINO
Nella procedura greca, che più tardi sarebbe stata codificata nel diritto romano, in alcune circostanze l’esilio era considerato di fatto onorevole, più della scelta di Socrate: l’exsilium concedeva alla persona condannata alla pena capitale il diritto di scegliere l’espulsione al posto della morte, una scelta che risparmiava agli amici e alla famiglia la vergogna e il dolore di assistere all’esecuzione di uno di loro. Ma Sofocle nel suo Edipo a Colono inserisce una dimensione morale nell’atto di emigrare, rappresentando Edipo come una figura nobilitata dal suo stesso sradicamento. La tragedia trasforma Edipo in meteco, in straniero, in un personaggio di tragica grandezza più che in un estraneo la cui levatura è minore di quella di un cittadino.
Diventare uno straniero significa essere strappati dalle proprie radici. La condizione di sradicamento assume nella tradizione giudaico-cristiana un valore morale positivo, anzi potremmo dire che diventa di fondamentale importanza. Gli uomini dell’Antico Testamento si consideravano nomadi senza radici. Lo Jahvè dell’Antico Testamento, con la sua Arca dell’Alleanza trasportabile, era lui stesso un dio nomade come sottolinea il teologo Harvey Cox: «Quando l’Arca, infine, fu catturata dai filistei, gli ebrei cominciarono a rendersi conto che Jahvè non si trovava nemmeno in essa (…). Egli viaggiava con il suo popolo e altrove».
Jahvè era un dio del tempo più che dio di un luogo, era un dio che aveva promesso ai suoi seguaci un senso divino per le loro tristi peregrinazioni. Anche tra i cristiani dei primi secoli, come tra gli ebrei dell’Antico Testamento, il nomadismo e l’essere esposti erano profondamente percepiti come conseguenze della fede. All’apice della gloria dell’Impero romano, l’autore della Lettera a Diogneto affermava: «I cristiani non si distinguono dal resto dell’umanità, né per sede, né per lingua, né per usanze. Essi infatti non abitano in città particolari, (…)non praticano un modo di vivere straordinario. (…)Essi dimorano nei loro paesi, ma solo come ospiti temporanei (…). Per loro ogni paese straniero è patria, e ogni patria è paese straniero». Quest’immagine di non stanzialità sarebbe diventata uno dei modi in cui Sant’Agostino avrebbe definito le due città nella Città di Dio: «Si legge nella Scrittura che Caino edificò una città mentre Abele, in quanto esule non la edificò. La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunge il tempo del suo regno». L’essere «in cammino, finché giunge il tempo», piuttosto che la stanzialità in un luogo, attinge la propria autorità dal rifiuto di Gesù di consentire che i suoi discepoli edificassero monumenti per lui, e dalla sua promessa di distruggere il Tempio di Gerusalemme.
Quella giudaico-cristiana è quindi una cultura che, proprio alle sue fonti, riguarda direttamente l’esperienza dello sradicamento. La nostra è una cultura religiosa della seconda cicatrice. La ragione per cui viene conferito tutto questo valore allo sradicamento deriva da un profondo discredito dell’antropologia della vita quotidiana: il nomos non è verità. Le cose quotidiane sono di per sé illusorie – illusorie come lo erano per gli orfici e per Platone e nella misura in cui lo sarebbero state per sant’Agostino.
UNO STIGMA MORALE
Una svalutazione del comportamento quotidiano di questo tipo fa la sua apparizione in un momento indimenticabile dell’Edipo a Colono, proprio nel discorso che Edipo rivolge al giovane Teseo: «Figlio di Egeo a me carissimo, soltanto gli dei non conoscono vecchiaia e morte; tutto il resto viene travolto dal tempo onnipossente. Illanguidisce la forza della terra, illanguidisce la forza del corpo; muore la lealtà, germoglia la perfidia, né mai perdura lo stesso sentimento fra gli amici o fra città e città. Agli uni subito, agli altri in seguito quel ch’è dolce si tramuta in amaro e poi di nuovo in dolce. Così anche se ora Tebe è in pace perfetta con te, il tempo infinito genera nel suo corso notti e giorni infiniti, durante i quali essi, sotto lieve pretesto, manderanno al vento con la forza delle armi ogni patto d’amicizia».
Dunque questa seconda cicatrice, che è il segno distintivo dello straniero, è uno stigma morale, proprio perché non si sana mai del tutto. Sia nel pensiero classico sia in quello giudaico-cristiano, coloro che si sono liberati dalle circostanze, coloro che conducono vite da sradicati, possono diventare esseri umani di un certo rilievo. Girando per il mondo, si trasformavano. Si liberavano dalla partecipazione cieca e, di conseguenza, diventavano capaci di indagare le cose approfonditamente in prima persona, potevano operare scelte per se stessi o sentirsi infine, come il cieco re greco e il martire cristiano, al cospetto di un potere più alto. Le due cicatrici sul corpo del re Edipo rappresentano un conflitto fondamentale all’interno della nostra civiltà, in cui le pretese di verità del luogo e degli inizi si oppongono alle verità da scoprire quando si diventa stranieri
Il manifesto, 16 aprile 2014
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