22 aprile 2014

UN MODO DIVERSO DI LEGGERE MCLUHAN

   Achille Castiglioni, lampada da tavolo


McLuhan, mass age, massaggio, messaggio

Manifesto, Alias-domenica, 26 febbraio 2012, p. 4

McLuhan. Staccare la spina al presente, ma prima conoscerlo
Stefano Jossa
                   

The medium is the message, la frase di Marshall McLuhan che rivoluzionò la teoria della comunicazione (per quanto spesso sbandierata come slogan anziché veramente discussa e capita), fa di nuovo acendere le lampadine. Lampadine che creano atmosfera, come quella cui McLuhan affidava il compito di esemplificare l’iperrealtà: priva di contenuto specifico, la lampadina crea un ambiente grazie alla sua sola presenza. La notte diventa giorno, senza bisogno di alcun processo mentale o speculazione filosofica. Generazioni di fan, spesso terrorizzati da Hegel e pronti a usare il gioco delle contrapposizioni frontali per affiancarsi all’avversario anziché combatterlo, hanno esaltato in McLuhan l’inventore della Galassia Gutenberg, che consentiva di superare le idee con la tecnica, liquidando in un solo colpo, con l’immediatezza del trionfo delle tecnologie, tutta la tradizione platonico-cristiano-hegeliana dell’Occidente (dimenticando fra l’altro il personale e intimo cattolicesimo dello stesso McLuhan). Peccato, perché ridotto a icona o santino McLuhan è diventato per molti accademici lo scopritore dell’ovvio, cioè di una presenza e diffusione delle tecnologie nella modernità che non intaccava assolutamente il primato della mente e dei concetti. Proprio l’ovvio, invece, era il bersaglio polemico di Marshall: guidati da una secolare preferenza per il contenuto, che ci fornisce le informazioni e i valori, ci dimentichiamo spesso dei mezzi che di quel contenuto sono veicoli, modificandolo e manipolandolo. La nostra mente funziona come il cane da guardia che il ladro distrae con una bella bistecca.
Ritornare a McLuhan, per sondarne il pensiero, verificarne l’attualità, sperimentarne le potenzialità, interrogarlo e praticarlo, è l’obiettivo del neonato International Journal of McLuhan Studies, pubblicato dal Digital Culture Research Program presso la Universidad Oberta de Catalunya: il primo numero, datato november 2011, s’intitola Understanding Media, today /McLuhan in the Era of Convergence Culture e consta di 184 pagine. La rivista va recensita perché è di per sé un paradosso, visto che ci ricorda che ‘se il mezzo è il messaggio, l’utente è il contenuto’: citazione davvero spiazzante, perché mette il lettore di fronte alla responsabilità di chiedersi fino a che punto una rivista assolutamente istituzionale come questa lo stia ingannando e manipolando, ovvero sfidando e svegliando. Se di operazione accademica si tratta, infatti, come la maggior parte dei saggi sembra confermare, il primo problema si pone di fronte alla frase che gli editors, Emanuela Patti e Matteo Ciastellardi, italiani, assegnisti rispettivamente a Londra e a Barcellona, hanno posto in esergo al primo numero: ‘la risposta più bella è sempre quella che pone una domanda ancora più bella’. Nessuna risposta si dovrà cercare allora in queste pagine, ma solo domande, che nascono dalle domande poste dai vari contributi saggistici, coerentemente con l’altro monito che chiude il volume: ‘tomorrow is our permanent address’. Tra questi due poli, operativi piuttosto che assertivi, si dischiudono le questioni relative alla possibilità di leggere Platone più come poeta che come filosofo o alle mutazioni del sistema universitario dovute alla fine delle grandi mediazioni istituzionali: le certezze del sapere codificato non vengono abbattute, secondo il classico, e inutile, meccanismo avanguardistico della lotta al nemico di cui si vuole prendere il posto, ma presentate come problemi, guardando al presente attraverso lo specchietto retrovisore, in modo da andare a marcia indietro verso il futuro, secondo un movimento à rebours che fa sentire le sgommate anziché pattinare sul ghiaccio. Come rendere conto, allo stesso tempo, delle alghe di superficie e dei coralli sul fondo senza il mare? E come tenere insieme i cento metri e la maratona se non ricorrendo alle Olimpiadi? Strutture anziché concetti, da indagatare attraverso l’osservazione e l’esperienza.
Grande costruttore di metafore, quasi sempre prese dalla vita quotidiana, McLuhan metteva a contatto i saperi e gli oggetti in una rete di rimandi e rinvii che puntava sulle connessioni anziché sulle sistematizzazioni; nemico della teoria, è stato preso e iconizzato come teorico. La fertilità della contraddizione, contraddizione persino del suo destino, gli stava a cuore, perché la contraddizione è sempre una sfida all’intelligenza, che costringe a classificare e gerarchizzare per capire perché classificazioni e gerarchie non funzionano: quando veniva accusato di essere a favore del presente solo perché ne parlava, McLuhan rispondeva che non era vero, era contrario a ciò di cui parlava, ma l’unico modo di opporsi, secondo lui, era capirlo, parlarne per capirlo, perché solo così si può stabilire quando staccare la spina. Assurdo, dunque, considerarlo un apologeta della rivoluzione tecnologica, anche se alcune similitudini lasciano sconcertati per la loro banalità: ‘attualmente il cinema è ancora nella fase manoscritta, per così dire; presto si troverà, sotto la pressione della televisione, nella sua fase del libro a stampa, di facile fruizione e accesso’. Salvo scoprire che questo paragone fa il paio con quello tra la tecnologia e l’evoluzionismo, rivelando l’interesse di chi parla per le potenzialità anziché per le descrizioni. Né apologetico né apocalittico, né tecnofilo né luddista, McLuhan può ancora sembrare un constatatore dell’ovvio ovvero un rivoluzionario radicale; ma proprio qui risiede la necessità di studiarlo: perché le sue riflessioni ci aiutino a pensare l’alternativa anziché ritenere che ci sia una sola soluzione possibile, spacciando per biologiche le leggi della tecnica o dell’economia.
Se il medium è il messaggio, siamo obbligati a cambiare il punto di vista, spostando lo sguardo dal contenuto al contenitore, fino a doverci chiedere dove siamo noi: message è infatti anche mass age, mess age, e massage, età delle masse, età della confusione o lavaggio dei cervelli, con un gioco di parole che McLuhan spesso riproponeva, fino a intitolare The Medium is the Massage uno dei suoi libri più famosi, fingendo un ‘typo’, un errore di stampa. Il sottotitolo An Inventory of the Effects, un inventario degli effetti, denuncia la riduzione a cliché della sua citazione più famosa, giocando sul fatto che il messaggio è in fondo un massaggio, cioè una percezione prima sensoriale che intellettiva, come avviene infatti nelle strategie pubblicitarie: massaggiare i sensi prima che colpire la mente (a meno che la mente non funzioni appunto come i sensi, per massaggi piuttosto che per idee).
A questo libro dedicano ora una straordinaria esplorazione a tutto campo Jeffrey Schnapp e Adam Michaels con il loro The Electric Information Age Book: McLuhan/Agel/Fiore and the Experimental (introduzione di Steven Heller, postfazione di Andrew Blauvelt, Princeton Architectural Press, pp. 216, 50 illustrazioni a colori, $ 19.95), che ha per oggetto l’eccezionale produzione di libri stravaganti da parte di attori, designers, grafici e pubblicitari tra gli anni sessanta e settanta. Il libro creato da McLuhan insieme al grafico Quentin Fiore e coordinato da Jerome Agel presentava un collage di testo e immagini, con pagine stampate alla rovescia o allo specchio, altre bianche, altre piene di composizioni fotografiche, caratteri a colori, in rilievo o in font e corpo diversi. Seguiti da R. Buckminster Fuller, Herman Kahn, e Carl Sagan, promossero l’idea che i libri composti come se fossero per bambini costituissero il modo migliore per veicolare il pensiero filosofico contemporaneo. Tanti avanguardisti, da William Blake a William Morris, da Kurt Schwitters a D.A. Levy, dal giornale The East Village Other alla fanzine Touch & Go, avevano già sperimentato questa forma-libro, ma la novità dell’esperimento di McLuhan & C., a giudizio di Schnapp, italianista a Harvard, e Michaels, editore della collana «Inventory Books», sta nella capacità di rivendicare il fatto che ‘chiunque distingua tra educazione e intrattenimento non sa nulla né dell’una né dell’altro’. Il libro, qualsiasi libro, diventa allora, a dispetto delle tante litanie sulla sua morte, un’occasione di sintesi e sorpresa, di materializzazione dell’immateriale e di distribuzione delle idee al di là delle restrizioni operate dalla digitalizzazione: grazie ai nuovi strumenti, anzi, il lavoro metodico, manuale, dell’antico scriba potrà tornare di moda sulle pagine di libri che non sono solo da leggere, ma anche da scarabocchiare, stropicciare, oppure semplicemente guardare


Manifesto alias domenica 26 febbraio 2012, p.4 . Ripreso da http://georgiamada.wordpress.com

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