"La moderna società borghese non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti". Queste parole si trovano scritte nel famoso Manifesto del 1848 di K. Marx. Più tempo passa e più viene da pensare che avesse visto più lontano di tanti altri...
Giancarlo Bosetti
Zygmunt Bauman: "Così
la paura avvelena la società liquida"
Zygmunt Bauman,
sociologo polacco trapiantato a Leeds, Inghilterra, è, prima che
quel prolifico e amato scrittore che tutti conoscono, un grande
lettore, un vorace esploratore della cronaca e della letteratura
delle scienze sociali che descrive il nostro tempo, i cambiamenti
che attraversiamo e percepiamo e le tendenze di cui abbiamo una
cognizione ancora confusa. Se nei suoi saggi si è rivelato il più
efficace e originale inventore di linguaggio, quello della modernità
«liquida», quello che ha saputo meglio rappresentare la svolta
dalla solidità rocciosa dell’epoca industriale fordista alla
instabile fragilità dell’oggi, questo è avvenuto grazie alle
doti raffinate della sua scrittura e del suo eloquio, che riescono a
conquistare il pubblico come solo i grandi narratori.
Siamo sospesi tra orrori e rischi.
Siamo sospesi tra orrori e rischi.
Bauman rende omaggio in
modo esplicito alla molteplicità delle sue infinite fonti, ma nel
riferirne le scoperte e nel collegarle tra loro trova poi quasi
sempre spunti per una sintesi che regala ai suoi lettori immagini e
parole che marcano l’idea in modo permanente. Così avviene anche
in questo testo sulla «paura», che rielabora suoi lavori
precedenti e vi aggiunge una sintetica rassegna antologica. Il tema
hobbesiano della paura attraversa tutta la storia della teoria
politica da Machiavelli ai giorni nostri, è sia il nocciolo
fondativo del potere assoluto del Leviatano sia la virtù del
principe che ne sappia governare gli effetti. In queste pagine
troviamo quel genere di paura che alimenta e/o avvelena tanta parte
della politica contemporanea. Del resto l’autore di Modernità
liquida, di Homo consumens e di La società individualizzata
cominciava l’ultimo articolo apparso su Repubblica così: «Noi
europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato
pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi», paura di
cose certificate dalla storia nel nostro passato e paura di cose
incerte nel nostro futuro.
Per Bauman la madre e
il padre di tutte le paure che percorrono il nostro presente è il
declino, la scomposizione e la scomparsa dell’organizzazione
economica, sociale, e anche politica, che andava sotto il nome di
«fordismo», da intendersi come il sostrato industriale che
reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava sicurezze e
solidità nel corpo sociale. E ciò avveniva, sì, anche grazie
alla redistribuzione della ricchezza ad opera di uno Stato capace
di provvedere alla copertura di molti bisogni, ma il «nucleo
centrale» di quella forza irradiante era sopra ogni altra cosa la
«protezione» che esso forniva, in forma di assicurazione
collettiva contro le disgrazie individuali.
Fordismo e solidità.
Fordismo e solidità.
Lo Stato e la società
occidentale dell’epoca fordista, che si sono cominciati a
incrinare negli anni Settanta del secolo scorso e che hanno poi
subito i colpi della «fase uno» (anni Ottanta) e della «fase
due» (gli anni correnti) della deregulation-individualizzazione,
offrivano non solo una diretta manifestazione della loro forza
stabilizzante nei confronti degli individui, ma anche il contesto
di una solidarietà operaia, sindacale, professionale, che
scaturiva dall’organizzazione produttiva: la fabbrica fordista
era la «esemplificazione dello scenario di modernità solida in
cui si stagliava la maggior parte degli individui privi di altro
capitale». Quello era il luogo dei conflitti tra capitale e lavoro
in una relazione, ostile, ma di «lungo termine». E questa
caratteristica consentiva agli individui «di pensare e fare
progetti per il futuro».
Esposti ai colpi del destino.
Il conflitto era
insomma un investimento ragionevole e un sacrificio «che avrebbe
dato i suoi frutti», mentre la condizione attuale, la volatilità
globale dell’economia, fa apparire i tentativi di ripetere
analoghi conflitti con analoghi strumenti un gioco nostalgico molto
povero di senso. L’esaurirsi di quella fase, dovuta alla
pressione di forze globali, e indipendente dalle politiche dei
singoli Stati, ha trasformato la nostra vita, ci ha reso «società
aperta», ma non nel senso popperiano di società libera, ma
piuttosto nel senso di società «esposta ai colpi del destino».
Dal terrorismo al "diverso".
Nei suoi scritti Bauman
mette sempre generosamente in evidenza il debito nei confronti
degli autori dai quali trae ispirazione: i più frequentemente
citati sono Pierre Bourdieu (la precarietà dappertutto), Manuel
Castells (i flussi dell’economia globale che escludono
irreversibilmente le «classi pericolose»), Ulrich Beck, Anthony
Giddens («la modernità riflessiva», anche se la visione di
Bauman è molto più pessimistica della loro); e Robert Castel, il
francese cui si deve tra i primi, insieme a André Gorz, la
scoperta che la «società del lavoro» volgeva al termine. In
questa rassegna di paure, Castel è presente con qualche sua bella
pagina in cui il tema è declinato in modo consapevolmente europeo:
il paradosso è che l’insicurezza è molto diffusa nei Paesi
sviluppati, che sono in realtà i meglio rispetto al mondo intero.
E questo perché
insicurezza non è solo «vivere nella giungla», ma dipendere da
protezioni forti «che diventano fragili e dalla paura di
perderle». Tutta la fenomenologia della paura si riaffaccia così
nei diversi segmenti della vita sociale degli ultimi decenni: il
terrorismo, la criminalità della vita urbana, le tendenze a
recintare la comunità di apparati di sicurezza, i rischi
ambientali e della salute, e poi l’afflusso di Altri e Diversi,
bersaglio prediletto dalle politiche della paura che hanno negli
immigrati il più redditizio capro espiatorio.
Europa sociale unica speranza.
Anche il capitale
politico è «liquido» e pronto a qualsiasi investimento e coglie
con prontezza le possibilità di profitti che la paura offre in
misura crescente. Grandi investimenti si profilano di fronte allo
scricchiolare della sovranità di quel Leviatano che aveva
costruito la sua forza e legittimazione proprio sulla paura (ma
restituendo protezione e sicurezza). Sorprendente e discutibile la
proposta dell’ungherese Frank Furedi che critica la sinistra per
la diffusione della paura del riscaldamento globale e che sembra in
realtà suggerirle proprio un investimento analogo a quello che la
destra fa su sicurezza e incolumità personale contro gli
immigrati. Più ragionevole la risposta di Bauman e Castel: la
vittoria sulle insidie della paura è da cercare sopra i confini
nazionali, in una Europa sociale e, a livello mondiale, nella
creazione e nel rafforzamento di istituzioni internazionali capaci
di controllare i rischi. Lungo cammino, ma senza alternative.
La Repubblica – 4
aprile 2014
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