Marco Ferrari
E alla radio
risuonò una canzone
Il 25 aprile di
quarant’anni fa la Rivoluzione dei Garofani
Tutto ebbe inizio al
minuto 00.29 del 25 aprile del 1974 quando la principale radio
portoghese Radio Renascenca trasmise la canzone di José Afonso,
Grândola vila morena, vietata dal regime. Era il segnale definitivo
per l’inizio di quella che è passata alla storia come la
Rivoluzione dei Garofani (Revolução dos Cravos). Sono passati
quarant’anni e quella sollevazione pacifica, guidata dai militari,
è stata soppiantata nella memoria da altri eventi più importanti e
tragici. Forse resta un caposaldo indimenticabile di una generazione
che aveva visto in quella rivolta un alito di speranza, come racconta
il mio romanzo Alla rivoluzione sulla Due Cavalli edito da Sellerio.
Era il 1974, una tiepida notte di aprile e d’improvviso si
sbriciolò la distanza, oltre la barriera franchista, oltre
l’orizzonte di El Greco, dei tzigani e dei templari, oltre gli
speroni di arenaria della dormiente Spagna.
Dopo la dolorosa pagina del golpe in Cile, finalmente si alzava un canto libero nella più vetusta dittatura europea, 48 anni di isolamento, fascismo e brutalità. Il respiro si faceva largo sostituendo le grida dolorose della caduta di Allende, della guerra del Vietnam, tra le bombe fasciste e gli anni di piombo. Così, su due piedi, in tanti partirono con la voglia di rivoluzione, in treno, in macchina, in autostop con un sacco a pelo, i Ray-Ban, la sciarpa di Truffaut, i pantaloni a campana, il tascapane, le canzoni di Rino Gaetano e Gilbert O’Sallivan in testa. Erano attirati dalle immagini in bianco e nero dei carri armati portoghesi, colmi di garofani e di pugni alzati, che sfilavano pacifici nelle strade di Lisbona. Che cosa si poteva trovare in quella città quasi incredula di scoprire la libertà? Uomini che tornavano da trent’anni di esilio dall’allora Cecoslovacchia o dalla Francia e che aprivano la porta cigolante della neonata sede del Partito Comunista con un tremulo di paura stampato negli occhi oppure giovani portoghesi che rientravano da Roma o da Londra dove avevano evitato il servizio militare nelle guerre coloniali oppure ragazzi che si erano formati nel vasto impero senza aver mai visto la madrepatria.
Nella primavera del ’74 l’ora più bella di Lisbona era il tramonto al Rossio, la piazza centrale, quando le librerie si riempivano di gente che andava a scovare testi appena stampati, nei bar all’aperto si raccoglievano crocchi di persone per leggere i giornali della sera e nell’aria vibravano forti odori del caffè appena macinato e del lucido dei lustrascarpe. Il sabato, poi, nella Feira da Ladra (Mercato dei ladri), in Campo de Santa Clara, tra discussioni e bevute, si vendevano oggetti che uscivano fuori dalla cantine o dalle soffitte dove erano rimasti per anni, bandiere, riviste vietate, foto di scioperi e repressioni poliziesche.
Di quegli eroi dei
Garofani molti non ci sono più: Fernando José Salgueiro Maia,
l’uomo che fece arrendere il dittatore Marcelo Caetano nella
caserma do Carmo, è deceduto nel 1992; Josè Afonso, il cantante
censurato, è scomparso nel 1987; Alvaro Cunhal, l’integerrimo
segretario del Partito Comunista che non accettava compromessi, se
n’è andato per sempre nel 2005 lasciandoci significativi libri di
poesie; Antonio da Spinola, l’enigmatico fautore del golpe, è
morto nel 1996; Vasco Gonçalves, il generale che attuò nel 1974 i
principi socialisti della rivoluzione e che venne scalzato nel
settembre dell’anno successivo, ci ha lasciati nel 2005.
Restano in vita due voci contrastanti tra loro: il padre putativo della democrazia, il socialista Mario Soares e l’artefice di quella notte rivoluzionaria, Otelo Saraiva de Carvalho. Il primo glorificato da una lunga carriera ai vertici dello stato, due volte Primo Ministro dal 1976 al 1978 e dal 1983 al 1985 e Presidente della Repubblica dal 1986 al 1996. Il secondo declassato e dimenticato: entrato nella Giunta di Salvezza Nazionale e nel Consiglio della Rivoluzione, creato nel marzo del 1975 per poi perdere le elezioni a presidente nel 1976 e nel 1980, essere accusato di contatti con formazioni terroristiche, finire in carcere nel 1984 ed essere amnistiato nel 1989. Qualche sbiadito ritratto di Otelo ancora resiste sui muri ocra di Lisbona.
Di certo questo 25 aprile li vedrà al centro dell’attenzione, se non altro per essere stati i paladini che hanno scalzato il regime, prima di Salazar e poi di Caetano, fatto di torture e esili, di sogni imperiali lusitani e di colonialismo ostinato.
António de Oliveira Salazar, cresciuto nel seminario di Viseu e diventato eminente professore universitario a Coimbra, aveva creato il più grande impero coloniale ed era caduto per colpa di una sedia. Era settembre del 1968, Salazar se ne stava come sempre al Forte di Santo Antonio all’Estoril, pensionando per generali e familiari. Lui adorava dimorare là anche fuori stagione come un pensionato normale con abitudini poco intime e per nulla formali, una passeggiata a piedi, una partita a carte, la lettura di un libro. Tanto lui l’impero ce lo aveva tutto in mente, nome per nome, indirizzo per indirizzo, scheda per scheda della polizia, pur non essendosi mai mosso dalla sua terra natia, se non per inoltrarsi due volte per una decina di chilometri in territorio spagnolo per incontrare Franco.
A Salazar accadde l’irreparabile in maniera quasi comica: come ogni mattina andava dal callista, in veranda, a farsi dare una guardatina alle unghie delle mani e dei piedi. Era l’unico momento in cui il catalogo delle donne e degli uomini uccisi, torturati o mandati a marcire negli angoli più remoti dell’Africa o di Timor Est non gli dava il mal di testa. Sbocciato nell’aprile 1928, nell’autunno del ’68 si spegneva il ciclo quarantennale di Salazar, non la dittatura più vecchia d’Europa. La sedia del callista si ruppe e il dittatore batté la testa a terra. Non morì, si trascinò in agonia per altri due anni. Marcelo Caetano mantenne in vita il salazarismo senza Salazar mostrandosi contraddittorio e ambiguo, incerto e titubante, schiavo della polizia politica Pide. Così la questione ultramarina gli scoppiò tra le mani come una bomba deflagrante: un impero troppo vasto per una nazione piccola non poteva reggersi a lungo senza democrazia, scambi commerciali, libertà di idee e economiche, imprenditoria e ricerca.
Da lì partì la rivolta
dei Capitani dei Garofani, (Movimento dos Capitães), figli della
borghesia lusitana che non volevano morire nell’umidore delle
colonie. Il 25 aprile sarà quindi un giorno decisivo per il ritorno
della democrazia in Portogallo, ma anche, in seguito al definitivo
abbandono di una secolare, sanguinosa ed aggressiva politica
coloniale, per l’acquisizione dell’indipendenza di importanti
paesi africani come l’Angola, il Mozambico, la Guinea Bissau.
Se sino a qualche anno fa i reduci del 25 Aprile erano nelle strade a inneggiare alla democrazia, oggi i membri superstiti delle forze armate rivoluzionarie del 1974 sfileranno, da pensionati, assieme agli «indignados» portoghesi, ai collettivi e alle organizzazioni sociali che si mobilitano contro i tagli alla spesa pubblica e per chiedere una soluzione ai gravi problemi del Paese, ai sindacati e alla sinistra parlamentare che rivendicano dal governo conservatore guidato da Pedro Passos Coelho politiche per stimolare la crescita e l’occupazione. Così quattro decenni dopo Grândola vila morena è diventata l’inno delle proteste sociali in Portogallo.
l’Unità 24.4.14
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