Se il cinema è sogno.
Un vecchio albergo per l’aristocrazia tra i monti del centro
Europa, uno scrittore e un viaggio nel tempo. Grand Budapest Hotel
un film da vedere.
Giulia D'Agnolo Vallan
Wes Anderson
Una ragazzina con le
calze bianche entra in un vecchio cimitero dell’Europa
dell’Est e aggiunge una chiave a una tomba già decorata
con numerose chiavi di hotel. Così comincia la storia
di Grand Budapest Hotel, l’ultimo, delicato,
esuberante, elaboratissimo diorama
di Wes Anderson e — al di là del complicato
labirinto di porte, corridoi, cornici, botole,
finestre, gallerie e infissi dietro a cui,
come sempre, il regista di Il treno per Darjeeling
nasconde i sogni romantici che stanno al cuore dei suoi
film — uno dei suoi lavori più appassionanti
e profondamente tristi.
Una spumeggiante
tragicommedia mitteleuropea
(che cita a piene mani Lubitsch e i più raffinati
austriaci hollywoodiani, ma anche Il sipario
strappato di Hitchcock) e un grande omaggio
a un mondo — del cinema, della letteratura,
dei valori — in cui Anderson si identifica
profondamente, felice di abitarlo, come Woody
Allen la Parigi di Gertrud Stein e Hemingway in
Midnight in Paris.
Ambientato nel
paese immaginario di Zubrowka, il nuovo film di
Anderson è, infatti, prima di tutto un viaggio nel tempo.
Uno scrittore (Jude Law) si ferma qualche giorno in un
vecchio albergo nelle montagne del centro
Europa. Meta storica delle villeggiature
dell’aristocrazia e dell’alta borghesia
austroungariche, con gli anni e le guerre, il
Gran Budapest ha sostituito il suo fastoso décor
ottocentesco – tutto ori, curve, rosa, rossi
e viola fiammeggianti — con un austero, spigoloso
restyling sovietico, dominato da arancioni
e terre bruciate.
Il suo staff, un tempo
impeccabile, oggi lascia a desiderare. Ma
il vecchio rudere conserva, nonostante tutto, un
fascino fatiscente e i pochi, solitari ospiti, che lo
frequentano, guardandosi a vicenda con
circospetto, sembrano far parte di un segreto. Un
segreto a cui vale le pena di dedicare un libro, pensa lo
scrittore, specialmente quando scopre che, in
visita all’hotel, c’è anche il suo mitico proprietario,
Zero Moustafa (F. Murray Abraham). A cena, il
vecchio signore preme il rewind e porta il suo ospite
all’età d’oro del Grand Budapest, quando Zero Moustafa
era solo un giovanissimo lobby boy assunto in prova,
e l’albergo funzionava come un magnifico,
stravagante, orologio svizzero sotto la
benevola dittatura del leggendario
portiere Gustave (Ralph Fiennes, magnifico e molto
commovente).
Sorriso
intramontabile e la falcata di un
ufficiale dell’esercito prussiano, Gustave coccolava
i suoi clienti anche in minimi, costosissimi
dettagli, con particolare attenzione
per le signore di una certa età, cui dispensava anche (con
sincero entusiasmo) servizi sessuali
e preziosi consigli sul colore dello smalto per
le unghie. Individuo misterioso (non si sa da dove
viene e come è arrivato lì, coltiva le signore
più ricche ma dorme in una stanzetta monastica e non
possiede nulla), Gustave è tutto vocazione, un
personaggio andersoniano per eccellenza,
che ha trovato nello sfarzoso parco a tema dell’hotel
(accessibile solo grazie a una ripidissima
funicolare) l’opportunità di dar corpo al (suo) sogno
di un mondo di grazia e bellezza che, al di là dei
muri del Grand Budapest, non c’è più.
Come il cinema cui fa
riferimento Anderson, l’Europa che ama Gustave
è scomparsa. La guerra entra in scena inquadrata dal
finestrino di un treno – un gruppo di soldati in divisa
grigia nella neve. Prima della fine del film, le divise saranno
nere e apparirà anche un simbolo simile a quello
delle SS.
L’anima
di ogni film di Anderson sta nell’essere sempre un po’
in guerra con se stesso – l’artificio estremo della mise en
scene, la recitazione iperstilizzata degli
attori, gli effetti speciali visibilissimi,
contro il disordine delle ossessioni e delle
emozioni dei personaggi. Era lo scontro tra mondo
degli adulti e quello dei bambini in Moonrise Kingdom
– Una fuga d’amore, la Rushmore Academy, il tarlo che
consuma la famiglia Tenenbaum, la crociata
furfantina del fantastico Mr. Fox.
Spesso accusati di
essere solo operazioni di superficie,
decorativi, in realtà i migliori lavori di Anderson
portano su di loro il tumulto e la convinzione
dell’utopia. Il suo è un mondo di fervidi dreamers,
che solcano orizzontalmente il fotogramma
con la determinazione dell’Energizer Bunny –
perché i suoi eroi possono solo essere fedeli a loro
stessi.
In Grand Budapest
quella guerra tra controllo e abbandono è resa
ancora più accesa e frenetica da una trama di fughe
e inseguimenti iperbolici presi
direttamente dai fratelli Marx. Quando una delle
clienti/amanti di Gustave (Tilda Swinton) muore
improvvisamente, lascia in eredità al portiere
un quadro preziosissimo su cui però vogliono
mettere le mani il figlio della scomparsa, Dimitri
(Adrien Brody), e il suo sgherro (Wilhem Dafoe), un Nosferatu
in motocicletta. Accompagnato dal fido Zero
(Tony Revolori), un giovane profugo di qualche
guerra ai confini dell’Impero, Gustave intraprende una
fuga rocambolesca che lo porta dal Grand Budapest,
in prigione, su molteplici treni, una slitta e poi
di nuovo al Grand Budapest.
Lo aiutano,
o intralciano il suo cammino, Mathieu Almaric
(il maggiordomo della signora), Edward Norton (un
ufficiale dell’esercito che frequentava l’albergo
da piccolo) , la dolce pasticcera Agatha (Saoirse
Ronan) di cui Zero è pazzamente innamorato,
il galeotto Harvey Keitel e una società segreta di
portieri di grande albergo capitanati da Bill Murray.
Dichiarazione
d’amore a un’epoca e una cultura (Anderson
cita nei titoli l’influenza del libri di Stefan Zweig ma
i riferimenti sono molteplici) lontane
dall’immaginario del pubblico contemporaneo,
Grand Budapest Hotel è, in realtà, un film pieno di
presente.
Il Manifesto – 8 aprile
2014
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