21 aprile 2014

GRAND HOTEL BUDAPEST: un film da vedere



Se il cinema è sogno. Un vecchio albergo per l’aristocrazia tra i monti del centro Europa, uno scrittore e un viaggio nel tempo. Grand Budapest Hotel un film da vedere.

Giulia D'Agnolo Vallan

Villeggiatura per sognatori firmata  
       Wes Anderson

Una ragaz­zina con le calze bian­che entra in un vec­chio cimi­tero dell’Europa dell’Est e aggiunge una chiave a una tomba già deco­rata con nume­rose chiavi di hotel. Così comin­cia la sto­ria di Grand Buda­pest Hotel, l’ultimo, deli­cato, esu­be­rante, ela­bo­ra­tis­simo dio­rama di Wes Ander­son e — al di là del com­pli­cato labi­rinto di porte, cor­ri­doi, cor­nici, botole, fine­stre, gal­le­rie e infissi die­tro a cui, come sem­pre, il regi­sta di Il treno per Dar­jee­ling nasconde i sogni roman­tici che stanno al cuore dei suoi film — uno dei suoi lavori più appas­sio­nanti e pro­fon­da­mente tristi.

Una spu­meg­giante tra­gi­com­me­dia mit­te­leu­ro­pea (che cita a piene mani Lubi­tsch e i più raf­fi­nati austriaci hol­ly­woo­diani, ma anche Il sipa­rio strap­pato di Hit­ch­cock) e un grande omag­gio a un mondo — del cinema, della let­te­ra­tura, dei valori — in cui Ander­son si iden­ti­fica pro­fon­da­mente, felice di abi­tarlo, come Woody Allen la Parigi di Ger­trud Stein e Heming­way in Mid­night in Paris.
Ambien­tato nel paese imma­gi­na­rio di Zubro­wka, il nuovo film di Ander­son è, infatti, prima di tutto un viag­gio nel tempo. Uno scrit­tore (Jude Law) si ferma qual­che giorno in un vec­chio albergo nelle mon­ta­gne del cen­tro Europa. Meta sto­rica delle vil­leg­gia­ture dell’aristocrazia e dell’alta bor­ghe­sia austroun­ga­ri­che, con gli anni e le guerre, il Gran Buda­pest ha sosti­tuito il suo fastoso décor otto­cen­te­sco – tutto ori, curve, rosa, rossi e viola fiam­meg­gianti — con un austero, spi­go­loso resty­ling sovie­tico, domi­nato da aran­cioni e terre bruciate.

Il suo staff, un tempo impec­ca­bile, oggi lascia a desi­de­rare. Ma il vec­chio rudere con­serva, nono­stante tutto, un fascino fati­scente e i pochi, soli­tari ospiti, che lo fre­quen­tano, guar­dan­dosi a vicenda con cir­co­spetto, sem­brano far parte di un segreto. Un segreto a cui vale le pena di dedi­care un libro, pensa lo scrit­tore, spe­cial­mente quando sco­pre che, in visita all’hotel, c’è anche il suo mitico pro­prie­ta­rio, Zero Mou­stafa (F. Mur­ray Abra­ham). A cena, il vec­chio signore preme il rewind e porta il suo ospite all’età d’oro del Grand Buda­pest, quando Zero Mou­stafa era solo un gio­va­nis­simo lobby boy assunto in prova, e l’albergo fun­zio­nava come un magni­fico, stra­va­gante, oro­lo­gio sviz­zero sotto la bene­vola dit­ta­tura del leg­gen­da­rio por­tiere Gustave (Ralph Fien­nes, magni­fico e molto commovente).


Sor­riso intra­mon­ta­bile e la fal­cata di un uffi­ciale dell’esercito prus­siano, Gustave coc­co­lava i suoi clienti anche in minimi, costo­sis­simi det­ta­gli, con par­ti­co­lare atten­zione per le signore di una certa età, cui dispen­sava anche (con sin­cero entu­sia­smo) ser­vizi ses­suali e pre­ziosi con­si­gli sul colore dello smalto per le unghie. Indi­vi­duo miste­rioso (non si sa da dove viene e come è arri­vato lì, col­tiva le signore più ric­che ma dorme in una stan­zetta mona­stica e non pos­siede nulla), Gustave è tutto voca­zione, un per­so­nag­gio ander­so­niano per eccel­lenza, che ha tro­vato nello sfar­zoso parco a tema dell’hotel (acces­si­bile solo gra­zie a una ripi­dis­sima funi­co­lare) l’opportunità di dar corpo al (suo) sogno di un mondo di gra­zia e bel­lezza che, al di là dei muri del Grand Buda­pest, non c’è più.
Come il cinema cui fa rife­ri­mento Ander­son, l’Europa che ama Gustave è scom­parsa. La guerra entra in scena inqua­drata dal fine­strino di un treno – un gruppo di sol­dati in divisa gri­gia nella neve. Prima della fine del film, le divise saranno nere e appa­rirà anche un sim­bolo simile a quello delle SS.

L’anima di ogni film di Ander­son sta nell’essere sem­pre un po’ in guerra con se stesso – l’artificio estremo della mise en scene, la reci­ta­zione iper­sti­liz­zata degli attori, gli effetti spe­ciali visi­bi­lis­simi, con­tro il disor­dine delle osses­sioni e delle emo­zioni dei per­so­naggi. Era lo scon­tro tra mondo degli adulti e quello dei bam­bini in Moon­rise King­dom – Una fuga d’amore, la Rush­more Aca­demy, il tarlo che con­suma la fami­glia Tenen­baum, la cro­ciata fur­fan­tina del fan­ta­stico Mr. Fox.

Spesso accu­sati di essere solo ope­ra­zioni di super­fi­cie, deco­ra­tivi, in realtà i migliori lavori di Ander­son por­tano su di loro il tumulto e la con­vin­zione dell’utopia. Il suo è un mondo di fer­vidi drea­mers, che sol­cano oriz­zon­tal­mente il foto­gramma con la deter­mi­na­zione dell’Energizer Bunny – per­ché i suoi eroi pos­sono solo essere fedeli a loro stessi.



In Grand Buda­pest quella guerra tra con­trollo e abban­dono è resa ancora più accesa e fre­ne­tica da una trama di fughe e inse­gui­menti iper­bo­lici presi diret­ta­mente dai fra­telli Marx. Quando una delle clienti/amanti di Gustave (Tilda Swin­ton) muore improv­vi­sa­mente, lascia in ere­dità al por­tiere un qua­dro pre­zio­sis­simo su cui però vogliono met­tere le mani il figlio della scom­parsa, Dimi­tri (Adrien Brody), e il suo sgherro (Wilhem Dafoe), un Nosfe­ratu in moto­ci­cletta. Accom­pa­gnato dal fido Zero (Tony Revo­lori), un gio­vane pro­fugo di qual­che guerra ai con­fini dell’Impero, Gustave intra­prende una fuga rocam­bo­le­sca che lo porta dal Grand Buda­pest, in pri­gione, su mol­te­plici treni, una slitta e poi di nuovo al Grand Budapest.
Lo aiu­tano, o intral­ciano il suo cam­mino, Mathieu Alma­ric (il mag­gior­domo della signora), Edward Nor­ton (un uffi­ciale dell’esercito che fre­quen­tava l’albergo da pic­colo) , la dolce pastic­cera Aga­tha (Saoirse Ronan) di cui Zero è paz­za­mente inna­mo­rato, il galeotto Har­vey Kei­tel e una società segreta di por­tieri di grande albergo capi­ta­nati da Bill Murray.

Dichia­ra­zione d’amore a un’epoca e una cul­tura (Ander­son cita nei titoli l’influenza del libri di Stefan Zweig ma i rife­ri­menti sono mol­te­plici) lon­tane dall’immaginario del pub­blico con­tem­po­ra­neo, Grand Buda­pest Hotel è, in realtà, un film pieno di pre­sente.


Il Manifesto – 8 aprile 2014

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