La piazza come luogo
principe della storia e della politica in un inedito di Miriam Mafai. Un articolo che parla di un mondo ormai
scomparso, soppiantato dalla piazza elettronica del web.
Miriam Mafai
Le mille piazze dove costruimmo la nostra identità
Io sono figlia di un’epoca in cui la politica si faceva in piazza e nelle sezioni, quando non esisteva la TV e, naturalmente, non esisteva il web e i comizi si annunciavano in paese con il banditore, un giovanotto che percorreva la piazza e le strade del paese annunciando che una donna (allora era un avvenimento) avrebbe parlato in piazza, e invitava le donne a scendere in piazza per ascoltarla…Non sempre questo accadeva e le donne del paese spesso ascoltavano il comizio nascoste dietro le persiane di casa.
Secoli fa, ma da allora io amo la piazza. Vi dirò dunque subito che a me piace la piazza. Mi piacciono tutte le piazze. Non solo, naturalmente, quelle storiche, grandiose, ricche di fontane e monumenti come Piazza Navona a Roma o piazza di Siena da secoli aperta alle corse dei cavalli e agli scontri tra ragazzi. Queste piazze, dopotutto, piacciono a tutti, italiani e stranieri, che fanno kilometri in aereo per venirle a vedere. No, a me piacciono tutte le piazze degli ottomila comuni di cui è composta l’Italia, le piccole piazze senza nome, chiuse tra i gradini di una chiesa, una stele che ricorda i caduti e un balcone da dove pare che, una volta si sia affacciato Garibaldi.
E vi segnalo, per chi
non la conoscesse, la piccolissima piazza di Panicale, dove mi
sono fermata qualche giorno fa in ricordo del grande pittore, e
solo quando mi sono alzata per andarmene ho letto una vecchia
lapide sul muro che ricordava che lì, nel 1920, erano caduti
sotto il piombo fascista un gruppo di contadini e contadine del
contado venuti in paese per manifestare.
Qualcuno di voi forse ricorda la piazza siciliana raccontata da Tornatore nel suo Nuovo Cinema Paradiso con quel pazzo che gridava: «La piazza è mia». E qualcuno forse di voi ricorda la bella poesia di Patrizia Cavalli «L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?/Così è una piazza, spazio di città,/Pubblico spazio, ossia pubblica aria…».
Questo è la piazza,
insomma: è la piazza, luogo dei sentimenti, dei rancori, degli
entusiasmi, della rabbia, della protesta. A me piace la piazza. E
nella mia ormai lunga, lunghissima vita, di militante politica e
di giornalista ho organizzato, guidato, raccontato piazze di ogni
tipo. Ho fatto politica, ho fatto i mie primi comizi in un’epoca
nella quale non esisteva né TV, né telefonini, né Google, e in
molti paesi persino il telefono era una rarità. Ma esisteva in
cambio il cosiddetto “banditore” che annunciava il comizio
attraversando le strade del paese e annunciando chi avrebbe
parlato in piazza…
Le prime piazze che ricordo, con vera e propria commozione sono certe piazze dei miserabili paesi del Fucino, da Celano a Pescina a Ortucchio, che all’alba si riempivano di contadini e delle loro donne che, con i bambini in braccio, da lì si muoveranno per andare ad occupare le terre del principe Torlonia e imporre a un governo ancora incerto ed esitante la Riforma agraria, che poi, grazie alle loro battaglie abbiamo avuto sebbene al di sotto delle aspettative e delle necessità.
Così ricordo
nell’immediato dopoguerra, a Genova, come a Torino le
manifestazioni di piazza degli operai che, dopo aver salvato le
macchine, si trovavano disoccupati e chiedevano un lavoro. E
ricordo, naturalmente, come molti di voi, le piazze in
della fiammate del ’68, occupate da migliaia di ragazzi e
ragazze, studenti che manifestavano per cambiare l’Università,
e conquistare per tutti il diritto allo studio.
E ricordo, con vera e
propria angoscia, le piazze tragiche e minacciose
attraversate da migliaia di ragazzi che alzavano la mano nel
segno della P.38, e quelle, dolenti, nelle quali si piangevano e
ricordavano le vittime del terrorismo e delle stragi, i
morti della strage di Bologna, di Piazza La Loggia, Aldo Moro, e
Guido Rossa.
Ricordo infine con
riconoscenza le piazze occupate dalle ragazze e dalle donne del
movimento femminista che alzavano il cartello, per noi più
anziane quasi scandaloso “il corpo è mio e lo gestisco io”.
Ed altre piazze ancora ricordo, in segno di lutto di protesta di
richiesta di ribellione. La storia Prima Repubblica, a ben
vedere, è in gran parte segnata dalla presenza, dall’intervento
della piazza, che talvolta, non di rado, riesce non solo a
incidere sulla vicenda politica, ma anche a modificarne gli
esiti. Valga per tutti l’esempio della piazza di Reggio Emilia,
simbolo di una rivolta popolare che, nel luglio del 1960,
sconfisse il rozzo tentativo reazionario di Tambroni, salito a
Palazzo Chigi con il voto della destra fascista, e impose ad una
esitante DC un radicale cambiamento di linea e l’avvio
dell’esperimento di centro sinistra. (...)
Ma la prima piazza
che ricordo con emozione – avevo appena 14 anni – è una
piazza, anche quella straordinariamente affollata, che esplode in
un urlo di fiducia e di entusiasmo quando Mussolini annuncia che
l’Italia, finalmente, entra in guerra. Era il 10 giugno del
1940. La ricordo, quella piazza perché l’ho vissuta, umiliata
e preoccupata, da adolescente che era stata cacciata da tutte le
scuole del Regno (così si diceva allora) perché nata da una
madre ebrea.
Ma tutti ricordiamo,
anche senza averle vissute, altre piazze che in Europa in quegli
anni si raccoglievano in un delirio di ammirazione per il padrone
di turno. La piazza può essere infatti ed è stata sempre il
sostegno, il luogo privilegiato delle dittature. Tutti i
dittatori del XX secolo, Mussolini Hitler Stalin, hanno stabilito
con la piazza un rapporto che all’osservatore lontano, nel
tempo o nello spazio, può apparire irrazionale, quasi mistico.
Ma la piazza è
mutevole. La stessa piazza e tutte le piazze d’Italia che
avevano applaudito alla dichiarazione di guerra, solo tre anni
dopo, nel luglio del 1943, rovesceranno, con rabbia dovunque, i
simboli del regime.
La piazza non è oggi
nei nostri paesi l’agorà dell’antica Grecia, dove pare (ma
un grande storico come Luciano Canfora ne dubita…) si
discutesse dei problemi della città e si prendevano a
maggioranza le relative decisioni. Non è e non può esserlo. La
piazza non si identifica con la democrazia, ma non c’è
democrazia senza il sostegno della piazza, un sostegno che va e
viene, che si concede e si rifiuta, a seconda delle scelte e
delle decisioni di chi governa. La democrazia, è oggi nel nostro
paese una “religione stanca”. Ma il disincanto democratico
può essere rivitalizzato dall’intervento della piazza.
Siamo oggi, forse, esattamente in questa fase. La piazza è un luogo nel quale ognuno smarrisce qualcosa di sé e partecipa di una identità, di un sentimento collettivo. “La natura dell’identità” cito questa volta da un testo di Bodei “non è quella di un unico filo, quanto piuttosto di una corda lentamente e pazientemente intrecciata, è composta dall’avvolgimento di più fili…”
Non credo di tradire
il pensiero di Bodei se penso alla piazza come al luogo, uno dei
luoghi, nel quale le nostre identità si intrecciano, possono
intrecciarsi a formare la corda dei una identità collettiva.
La piazza, insomma, come il luogo nel quale si forma e di definisce, nel rapporto con gli altri la nostra identità che è in continuo divenire, non è mai una volta definita per tutte. Tutti noi siamo, per dirla con Zygmunt Bauman, uomini (e donne) modulari, sottoposti e disponibili a continui cambiamenti, a seconda delle persone o degli ambienti con i quali entriamo in contatto.
La Repubblica – 8
aprile 2014
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