Sicilia 1968
Sciascia racconta la grande sete
Il giornalista Giovanni Taglialavoro
ha rintracciato il testo di Leonardo Sciascia che accompagnava il
documentario "La grande sete" girato nel 1968 da Massimo Mida con la
sceneggiatura di Marcello Cimino. Il testo, praticamente inedito, è
stato pubblicato dallo stesso Taglialavoro sul sito www.suddovest.it: lo
riportiamo integralmente
LEONARDO SCIASCIA
LA GRANDE SETE
È ormai un luogo comune che la Sicilia è terra di contrasti, di contraddizioni, di incongruenze, di paradossi. Ma in queste immagini il termine della contraddizione, del paradosso, non è il mulo ma l´automobile, se considerati come simboli - rispettivamente - di una situazione effettuale e di una aspirazione finora vaga e vana. Un´economia agraria tra le più arretrate d´Europa, forse la più arretrata; e il sogno dell´industrializzazione: questa è oggi la Sicilia.
Di questi paesi dell´interno un tempo si diceva che vivevano di agricoltura. Oggi si può dire che di agricoltura muoiono, e sopravvivono soltanto per le rimesse degli emigranti e le pensioni di vecchiaia e inabilità che lo Stato ed altri enti avaramente elargiscono.
L´isola ha tanti problemi. Ma quasi tutti si collegano al problema dell´acqua. L´acqua contesa fino alla violenza e al delitto. L´acqua che si perde nei meandri della burocrazia e della mafia.
La gente di ciò ha coscienza: sa, come proverbialmente si dice, dove e come l´acqua si perde.
La disponibilità attuale dell´acqua in Sicilia è di 165 litri al giorno contro una media nazionale di 250 - media comprendente i depressi livelli del Sud. La disponibilità normale al Nord è di oltre 400 litri al giorno. Nella classifica delle regioni per numero di abitanti con insufficiente disponibilità idrica, la Sicilia è al primo posto seguita dalla Puglia.
Un tempo la Sicilia era celebrata anche nelle sue acque: i poeti greci, i poeti arabi, il poeta Antonio Veneziano che, nel Cinquecento, esaltò l´idrografia siciliana nella marmorea rappresentazione di quella fontana pretoria oggi asciutta nella piazza dove sorge il municipio di Palermo. La Sicilia ricca d´acque è ormai come un miraggio. Un miraggio la Fonte Aretusa nel cuore dell´antica Siracusa, così pure miraggi i fiumi mitici della stessa città, il Ciane e l´Anapo, cantati da Salvatore Quasimodo. In questi fiumi crescono i famosi papiri del tempo classico, piante che hanno bisogno di una grande quantità d´acqua. E ancora miraggio le bagnanti dei mosaici di Piazza Armerina.
Più reale è questa Sicilia arida, percorsa in questa valle dalle acque del fiume Salito, stente e brucianti. Il Salito: un fiume che inaridisce invece di suscitare rigoglio, un fiume che nasce tra i giacimenti di sale - salgemma e sale potassico - di questa zona della Sicilia in cui la tecnica è arrivata soltanto per strappare il minerale e non per desalinizzare le acque che darebbero vita alla terra. Un itinerario lungo, ossessivo, un viaggio quasi senza speranza. Più di diciotto chilometri sono lunghi i tralicci che permettono alla teleferica di convogliare il materiale allo stabilimento di Campofranco, dove un grande bacino artificiale raccoglie le acque del Platani. Una produzione di 250 tonnellate di solfato potassico. Ma cosa resta alla Sicilia?
Il sogno dell´industrializzazione, là dove si è realizzato, ha aggiunto aridità all´aridità: e il caso più evidente è quello della piana di Catania. Dalle dighe Pozzillo e Ancipa la piana doveva essere irrigata, mutata da granaio in giardino. Ma l´industria aveva bisogno di acqua, e subito l´acqua destinata all´agricoltura è stata sacrificata a questo sogno, a questo mito. L´acqua non scenderà mai più per questa rete di canali. Uno dei tanti sprechi, e forse il più imperdonabile che siano stati consumati in questi anni da una classe di potere impreparata e imprevidente.
La mancanza totale di acqua ha spopolato quasi del tutto di abitanti il villaggio Capparini, costruito nell´Eras - l´ente per la riforma agraria in Sicilia - non lontano da Roccamena. La famiglia che abbiamo avvicinato, una delle otto superstiti, è di San Cipirello.
Uno dei casi estremi della povertà e dell´incuria del governo nazionale e regionale è quello di Licata. Ma non è purtroppo il solo. Tutta la provincia di Agrigento soffre di una penuria di acqua addirittura inverosimile.
Licata è la città più assetata d´Italia: la sua dotazione massima arriva a 35 litri al secondo, ma in questo periodo non supera i 22, con punte frequenti fino a 14 litri al secondo. Talvolta l´acqua viene a mancare perfino trenta giorni di seguito.
Nel luglio del 1960 la popolazione esasperata per la mancanza di acqua bloccò la stazione ferroviaria. Intervennero reparti speciali di polizia che fecero fuoco sulla folla. Un giovane rimase gravemente ferito.
Anche Favara, grosso centro minerario, il cui nome arabo vuol dire sorgente, è fra i paesi più assetati della provincia di Agrigento.
Anche Agrigento, che non ha acqua nelle case, ma ne abbonda invece nel cimitero: paradosso che assurge a simbolo di soluzione metafisica di un problema che resta per i vivi insoluto.
A prova che il problema può anche essere sottratto alle soluzioni metafisiche e risolto con concreta buona volontà e competenza, abbiamo questa zona di Vittoria, in provincia di Ragusa, dove gli agricoltori, senza godere di quei contributi di solito generosamente elargiti a chi specula e inganna, si sono affaticati a trasformare un´agricoltura estensiva in colture intensive.
Tutta la costa meridionale della provincia di Ragusa è ricoperta di serre. L´iniziativa ha cambiato il volto socio-economico della zona. I prodotti pregiati delle coltivazioni comportano affari nell´ordine di miliardi. Il boom è recente: nel 1964 le serre coprivano un migliaio di ettari, oggi oltre 5000. Furono i braccianti di Vittoria che con il solo capitale delle proprie braccia impiantarono le prime serre sui terreni sabbiosi della costa. Il problema dell´acqua lo risolsero ugualmente con le proprie forze, scavando dei pozzi alle volte con mezzi rudimentali, senza aiuti di nessuno genere dallo Stato.
Una zona agrumaria fra le più importanti della Sicilia è quella intorno ai centri di Lentini e di Francofonte. Ma anche qui la mancanza d´acqua diviene di giorno in giorno più grave. La situazione invece di migliorare peggiora sensibilmente, e la produzione di agrumi rischia di essere seriamente compromessa.
Pare che il famoso biviere di Lentini, il biviere della malaria verghiana, debba essere di nuovo ripristinato in questa valle oggi coltivata da piccoli proprietari. Ma l´acqua sarà destinata all´industria e non all´agricoltura.
Lentini è diretta da un´amministrazione di sinistra. Il sindaco e gli amministratori si consultano sul problema dell´acqua. A tanta sete, della terra e degli uomini, rispondono delittuose incongruenze: questa diga del Disueri, a monte di Gela, è rimasta abbandonata e va in rovina.
La diga Disueri fu iniziata nel 1939 e portata a termine nel 1949, con una interruzione a causa della guerra. La capacità iniziale di invaso era di 14 milioni di metri cubi di acqua, ora ridotta a otto milioni per il progressivo interramento del bacino dovuto alla insufficienza e al ritardo del rimboschimento.
Finalmente si costruisce la diga sullo Jato, anche se si è arrivati ai lavori dopo tante lotte, tanti digiuni e tante marce per sensibilizzare l´opinione pubblica e per far tacere l´opposizione mafiosa. L´ultimo digiuno fu fatto a Partinico e durò otto giorni.
Quando la diga sullo Jato sarà in funzione si potranno irrigare 8500 ettari con un aumento della produzione per il valore di un miliardo e 700 milioni rispetto all´attuale, con un incremento di circa 850 mila giornate lavorative all´anno.
La diga sul Carboi, al lago Arancio, irriga circa 6000 ettari delle pianure di Menfi e di Sciacca. Domenico Messina, organizzatore e dirigente dei contadini, Vincenzo Saladino della cooperativa "Madre terra" di Sciacca, e il dottor Michele Mandiello, agronomo, ci parlano di questa diga.
E siamo a Palermo, città in anni non lontani sufficientemente rifornita dell´acquedotto di Scillato e oggi paurosamente povera di acqua, specialmente nei quartieri popolari. Sembra incredibile che questa sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque.
E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell´acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni.
Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle. Quelle acque che loro raccoglievano e che noi abbiamo lasciato perdere e disperdere. E siamo nell´era della tecnica, dei più immaginabili prodigi della scienza.
Non si direbbe, a vedere questa disperata aria di arrangiarsi, cui sono costretti gli abitanti della più grande città siciliana per procurarsi quel minimo di acqua per bere, per lavarsi, per lavare. E la devono ai "gattopardi", a quegli antichi signori e amministratori della città che hanno ceduto ora il passo agli "sciacalli".
Quella poca acqua che c´è ha di questa ipoteche: speculazione, violenza, il profittevole giuoco della rivendita. Un bene pubblico tra i più indispensabili, è dominio del sopruso, dell´affarismo, del capriccio, della mafia.
Ma la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ha offerto in questi ultimi tempi un documento della lungimiranza governativa su cui gli italiani e i siciliani possono fondare le più ampie speranze. Si prevedono opere per un importo di 1844 miliardi di lire: sicché nell´anno 2015 il problema dell´acqua sarà completamente e definitivamente risolto.
La Sicilia del 2015 sarà ricca di acque quanto oggi il cimitero di Agrigento. Naturalmente si aspetterà il 2014 per cominciare i lavori.
Leonardo Sciascia
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