Max Ernst, Les hommes n'esn sauront rien |
Quando i maestri vanno
in cerca della pietra filosofale. Al Museum Kunstpalast di
Dusseldorf 250 opere raccontano il rapporto tra creatività e misteri
della natura. Dalle incisioni di Dürer a Anish Kapoor.
Dario Pappalardo
Düsseldorf.
Arte e alchimia
DÜSSELDORF.
Rubens non riuscirà mai a trasformare i metalli grezzi in oro:
gli basterà prendere appunti e ritrarre il “venerato
maestro” Paracelso. Luca Giordano, invece, si raffigura fiero
con sguardo da noir che esce dall’ombra e un misterioso
recipiente in mano. I dipinti del suo contemporaneo di Anversa,
David Teniers il Giovane, sono tutto un succedersi di oscuri
laboratori, esperimenti, ampolle, bacili, pozioni e libri di
istruzioni: quasi un genere a sé.
Nel Cinquecento,
Pieter Bruegel aveva riprodotto quegli stessi interni in
quadretti copiati e incisi per anni da allievi e discendenti.
Almeno fino a Joseph Beuys, che nel 1982 a Kassel fonde in
piazza una copia della corona di Ivan il Terribile e “ottiene”
l’oro, dietro un artista si nasconde un alchimista. Su questo
rapporto mai sufficientemente indagato fa il punto il Museum
Kunstpalast di Düsseldorf dove, in contemporanea con la
Quadriennale, è aperta la mostra Arte e alchimia – Il
mistero della trasformazione (fino al 10 agosto, a cura di Dedo
von Kerssenbrock-Krosigk e Beat Wismer con Anita Hachmann in
collaborazione con Sven Dupré).
È un percorso
lungo 250 opere che prende il via dall’antichità, quando
l’alchimia era “la” scienza, ma anche una filosofia di
vita: l’istinto ad andare oltre la natura, trasformandola e
perfezionandola con le proprie mani. Per questo i primi
alchimisti sono considerati Adamo ed Eva, che colgono il frutto
proibito e inaugurano la conoscenza. Lo fanno anche in una
delle incisioni più note di Dürer – altro insospettabile
alchimista – che qui accoglie il visitatore.
Esposti a poca
distanza, ci sono i papiri egizi, su cui tutto è cominciato:
risalenti al III secolo e custoditi adesso a Leida e a
Stoccolma, contengono ricette sulla lavorazione dei metalli e
princìpi alchemici. Dal Nilo quella che sarà poi considerata
l’antenata della chimica si diffonde presto in Europa, lungo
tutto il Medioevo. E pazienza se Dante confinerà gli
apprendisti nell’ottavo cerchio dell’Inferno, assieme ai
falsari.
L’alchimia
vanta un vasto campionario iconografico, non sempre di facile
interpretazione. In mostra, i Rotoli Ripley (XVI secolo),
provenienti dalla British Library di Londra, raffigurano le
varie fasi dell’Opus Magnum, ovvero della costruzione della
pietra filosofale e, tra congiunzioni di sole e luna, draghi,
ermafroditi, maghi, viandanti, riassumono un immaginario che
avrebbe nutrito gli artisti per secoli.
A questa cultura
appartiene anche un dipinto di Lucas Cranach come Melancholia I
che, qui esposto, rappresenta un angelo dalle ali nere intento
a tagliare lo strato superficiale di un pezzo di legno; sullo
sfondo, tre putti (secondo la metafora alchemica, il processo
di trasformazione è un “ludus puerorum”, un gioco da
ragazzi, per chi possiede la chiave della natura) guardano
dalla finestra una nube scura con scene infernali, che rimanda
alla nigre-do, la fase I della costruzione della pietra
filosofale; un quarto putto, infine, si dondola, leggero e
incurante del caos.
Se nel Seicento
l’alchimia si confonde ancora con la scienza – come
dimostra una lettera (1692) da “iniziato” di Isaac Newton –
il secolo dei Lumi la metterà al bando, anche se poi a subirne
il fascino saranno presto Goethe e i romantici. Cento anni
dopo, la adotteranno Carl G. Jung e Rudolf Steiner. E, in campo
artistico, il Novecento si può definire davvero un secolo di
alchimisti. Lasciata la penombra, la ricostruzione di
antri e wunderkammer, la mostra riparte dai surrealisti come
Max Ernst, che desume una serie di figure (vedi Les Hommes n’en
sauront rien, 1923) dalle illustrazioni del trattato alchemico
di Herbert Silverer (1914).
Max Ernst, Les hommes n'esn sauront rien |
Il pittore Victor
Brauner dice: «Nel realizzare i miei dipinti con la cera,
sento di praticare la grande arte della spagiria». E guardando
i suoi personaggi “magici”, che piacerebbero a Jodorowsky,
si capisce perché. Con temi e immagini alchemiche Leonor Fini,
Leonora Carrington e Remedios Varo aprono una via tutta
femminile e al surrealismo.
Yves Klein, che
apprende l’alchimia diventando rosa-crociano, si avvale del
blu e dell’oro come di colori che si fanno materia, principio
e fine del tutto sulla tela: Relief éponge bleu (1960), con le
spugne impregnate di blu Klein, da sola, è un’opera che vale
la visita. Sigmar Polke si professa alchimista scegliendo per
la sua pittura colori igroscopici che, esposti all’aria,
assorbono umidità e si modificano. Ma anche l’iconografia
dei suoi grandi dipinti, tra Ermeti trismegisti e soli e lune
che si uniscono, tradisce riferimenti inequivocabili.
Yves Klein, Relief éponge bleu |
Nel 1967 è
Germano Celant a coniare il termine di “artista alchimista”,
indicando l’Arte Povera di Jannis Kounellis, Gilberto Zorio e
Pier Paolo Calzolari, interessati all’utilizzo, che si
può interpretare in chiave alchemica, del carbone (simbolo
della nigredo), dell’oro e del mercurio. Rimandano all’Opus
Magnum alchemica anche le macchine di Rebecca Horn: Zen of
Aracon piume blu e gialle su supporti d’oro si apre e si
chiude periodicamente, come a rievocare un rito misterioso.
Riporta all’origine
di tutta l’arte, White Sand, Red Millet, Many Flowers di
Anish Kapoor, in cui le montagne di sabbia colorata, il puro
pigmento, sono l’opera stessa. Perché l’artista è un vero
alchimista solo se da qui, da questa semplice polvere di
colore, è in grado di costruire infiniti mondi.
La Repubblica – 13
aprile 2014
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