19 aprile 2014

ARTE E ALCHIMIA

Max Ernst, Les hommes n'esn sauront rien


Quando i maestri vanno in cerca della pietra filosofale. Al Museum Kunstpalast di Dusseldorf 250 opere raccontano il rapporto tra creatività e misteri della natura. Dalle incisioni di Dürer a Anish Kapoor.

Dario Pappalardo

Düsseldorf. Arte e alchimia 

DÜSSELDORF. Rubens non riuscirà mai a trasformare i metalli grezzi in oro: gli basterà prendere appunti e ritrarre il “venerato maestro” Paracelso. Luca Giordano, invece, si raffigura fiero con sguardo da noir che esce dall’ombra e un misterioso recipiente in mano. I dipinti del suo contemporaneo di Anversa, David Teniers il Giovane, sono tutto un succedersi di oscuri laboratori, esperimenti, ampolle, bacili, pozioni e libri di istruzioni: quasi un genere a sé.

Nel Cinquecento, Pieter Bruegel aveva riprodotto quegli stessi interni in quadretti copiati e incisi per anni da allievi e discendenti. Almeno fino a Joseph Beuys, che nel 1982 a Kassel fonde in piazza una copia della corona di Ivan il Terribile e “ottiene” l’oro, dietro un artista si nasconde un alchimista. Su questo rapporto mai sufficientemente indagato fa il punto il Museum Kunstpalast di Düsseldorf dove, in contemporanea con la Quadriennale, è aperta la mostra Arte e alchimia – Il mistero della trasformazione (fino al 10 agosto, a cura di Dedo von Kerssenbrock-Krosigk e Beat Wismer con Anita Hachmann in collaborazione con Sven Dupré).



È un percorso lungo 250 opere che prende il via dall’antichità, quando l’alchimia era “la” scienza, ma anche una filosofia di vita: l’istinto ad andare oltre la natura, trasformandola e perfezionandola con le proprie mani. Per questo i primi alchimisti sono considerati Adamo ed Eva, che colgono il frutto proibito e inaugurano la conoscenza. Lo fanno anche in una delle incisioni più note di Dürer – altro insospettabile alchimista – che qui accoglie il visitatore.

Esposti a poca distanza, ci sono i papiri egizi, su cui tutto è cominciato: risalenti al III secolo e custoditi adesso a Leida e a Stoccolma, contengono ricette sulla lavorazione dei metalli e princìpi alchemici. Dal Nilo quella che sarà poi considerata l’antenata della chimica si diffonde presto in Europa, lungo tutto il Medioevo. E pazienza se Dante confinerà gli apprendisti nell’ottavo cerchio dell’Inferno, assieme ai falsari.

L’alchimia vanta un vasto campionario iconografico, non sempre di facile interpretazione. In mostra, i Rotoli Ripley (XVI secolo), provenienti dalla British Library di Londra, raffigurano le varie fasi dell’Opus Magnum, ovvero della costruzione della pietra filosofale e, tra congiunzioni di sole e luna, draghi, ermafroditi, maghi, viandanti, riassumono un immaginario che avrebbe nutrito gli artisti per secoli.






A questa cultura appartiene anche un dipinto di Lucas Cranach come Melancholia I che, qui esposto, rappresenta un angelo dalle ali nere intento a tagliare lo strato superficiale di un pezzo di legno; sullo sfondo, tre putti (secondo la metafora alchemica, il processo di trasformazione è un “ludus puerorum”, un gioco da ragazzi, per chi possiede la chiave della natura) guardano dalla finestra una nube scura con scene infernali, che rimanda alla nigre-do, la fase I della costruzione della pietra filosofale; un quarto putto, infine, si dondola, leggero e incurante del caos.

Se nel Seicento l’alchimia si confonde ancora con la scienza – come dimostra una lettera (1692) da “iniziato” di Isaac Newton – il secolo dei Lumi la metterà al bando, anche se poi a subirne il fascino saranno presto Goethe e i romantici. Cento anni dopo, la adotteranno Carl G. Jung e Rudolf Steiner. E, in campo artistico, il Novecento si può definire davvero un secolo di alchimisti. Lasciata la penombra, la ricostruzione di antri e wunderkammer, la mostra riparte dai surrealisti come Max Ernst, che desume una serie di figure (vedi Les Hommes n’en sauront rien, 1923) dalle illustrazioni del trattato alchemico di Herbert Silverer (1914).


Max Ernst, Les hommes n'esn sauront rien





















Il pittore Victor Brauner dice: «Nel realizzare i miei dipinti con la cera, sento di praticare la grande arte della spagiria». E guardando i suoi personaggi “magici”, che piacerebbero a Jodorowsky, si capisce perché. Con temi e immagini alchemiche Leonor Fini, Leonora Carrington e Remedios Varo aprono una via tutta femminile e al surrealismo.

Yves Klein, che apprende l’alchimia diventando rosa-crociano, si avvale del blu e dell’oro come di colori che si fanno materia, principio e fine del tutto sulla tela: Relief éponge bleu (1960), con le spugne impregnate di blu Klein, da sola, è un’opera che vale la visita. Sigmar Polke si professa alchimista scegliendo per la sua pittura colori igroscopici che, esposti all’aria, assorbono umidità e si modificano. Ma anche l’iconografia dei suoi grandi dipinti, tra Ermeti trismegisti e soli e lune che si uniscono, tradisce riferimenti inequivocabili.


Yves Klein, Relief éponge bleu





















Nel 1967 è Germano Celant a coniare il termine di “artista alchimista”, indicando l’Arte Povera di Jannis Kounellis, Gilberto Zorio e Pier Paolo Calzolari, interessati all’utilizzo, che si può interpretare in chiave alchemica, del carbone (simbolo della nigredo), dell’oro e del mercurio. Rimandano all’Opus Magnum alchemica anche le macchine di Rebecca Horn: Zen of Aracon piume blu e gialle su supporti d’oro si apre e si chiude periodicamente, come a rievocare un rito misterioso.

Riporta all’origine di tutta l’arte, White Sand, Red Millet, Many Flowers di Anish Kapoor, in cui le montagne di sabbia colorata, il puro pigmento, sono l’opera stessa. Perché l’artista è un vero alchimista solo se da qui, da questa semplice polvere di colore, è in grado di costruire infiniti mondi.


La Repubblica – 13 aprile 2014

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