No a un 25 aprile istituzionale,
ipocrita e politicamente corretto.
Enzo Collotti
25 aprile, venti anni
fa e oggi
Parlare oggi del 25
aprile sembra decisamente controcorrente,
se si prescinde dalle celebrazioni rituali
e burocratiche, e non solo perché per
ragioni fisiologiche la generazione della
Resistenza anno dopo anno si va assottigliando, ma
soprattutto perché il contesto che ci circonda
risulta sempre più indifferente ed estraneo allo
spirito che consentì la passione e l’esperienza
della Resistenza prima e successivamente
la ricostruzione delle componenti materiali
del paese distrutto e della vita democratica.
Fa una certa impressione
constatare con quanta disinvoltura gli alfieri
delle ultime stagioni politiche e di quella
presente hanno attraversato e stanno
attraversando passaggi essenziali della nostra
vita politica sulla base di un rozzo empirismo o del
tutto estraneo ad ogni sollecitazione ideale
ed a ogni riflessione sull’origine e sulla matrice
della nostra identità democratica.
Ma non meraviglia
neppure l’indifferenza se non l’idiosincrasia con le quali
anche in ambiti culturali il racconto della
Resistenza viene stemperato in un sempre più
pronunciato qualunquismo delle parole che
denuncia in realtà la lontananza dall’oggetto del
racconto. Ne deriva una sorta di caricatura della
Resistenza che non ha nulla a che fare con un naturale
e necessario processo di storicizzazione
a oltre settant’anni da quegli eventi, ma che riflette
piuttosto uno spirito di par
condicio profondamente introiettato
nell’opinione comune, quasi a non volere fare torto a nessuno
con il risultato di collocare tutte le parti in lotta
sullo stesso piano.
La presunta
equidistanza che traduce gli eventi terribili
del 1943–45 nel ripartire il terrore da una parte
e dall’altra è la negazione di quella disparità
di valori che fu nella copnvinzione di coloro che salirono
in montagna o affrontarono la guerriglia
in ambito urbano. Viceversa, fare la storia a tutto
campo facendosi carico anche delle ragioni dell’altra parte
non vuole dire appiattire i ruoli e mettere tutti
allo stesso livello, misconoscendo ancora una volta la
differenza tra chi ha combattuto per la libertà
e chi ha sostenuto sino alla fine la brutalità
della dittatura e dell’oppressione. L’anestesia
del linguaggio non è che l’espressione in
superficie dell’anestesia della memoria.
Il problema non
è solo italiano, anche in larga parte d’Europa —
è bene ricordarlo alla vigilia di un’importante
congiuntura elettorale — l’incombenza
e l’imponenza della crisi ha fagocitato la memoria.
Ma il problema rimane particolarmente acuto
per un paese come l’Italia uscito dall’esperienza del fascismo
le cui tracce riaffiorano ancora e non solo nel
costume. Trasmettere alle generazioni più
giovani la memoria della Resistenza non è più
e non soltanto un problema di carattere storico,
di trasmissione della conoscenza di un momento
spartiacque nello sviluppo di questo paese, ma un
problema di pedagogia civile, di educazione
civica nel senso più alto e meno dottrinario
possibile. Mi piace ricordare in questo senso il
manifesto che, con Luigi Pintor in prima fila,
promosse la grande manifestazione della
«Liberazione», il 25 aprile del 1994, venti anni fa
a Milano, mentre l’Italia entrava nel buio tunnel
berlusconiano.
Questo vorrebbe
dire riacquisire alla cultura politica delle
nuove generazioni un insieme di valori che la
frammentazione della politica e la
scomparsa di una cultura impegnata rischiano di
rendere obsoleti. Un’opera nella quale sarebbe
difficile sottovalutare il ruolo della
scuola e dei mezzi di comunicazione, non come
semplice supplenza di soggetti di educazione
politica come i partiti che non esistono più, ma
come promotori di primissimo piano della
formazione di una coscienza civile e critica di
cittadini consapevoli dei loro diritti
e della fonte di legittimazione della Carta
costituzionale che la garantisce.
Il Manifesto – 25 aprile 2014
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