Alla Neue Gallery di
New York una mostra ricorda la guerra dichiarata dal nazismo alle
avanguardie artistiche.
Anna Ottani
Cavina
Arte
degenerata. Dipinti, sculture, cornici vuote...
La
demonizzazione del Moderno nel Terzo Reich
“A NEW
YORK ABBIAMO avuto il futurismo, l’espressionismo, il
cubismo, perfino il dadaismo. Può la pazzia andare oltre?”.
In visita alla mostra sull’arte ‘degenerata’ apertasi a
Monaco alla Haus der Kunst il 9 dicembre 1937, il Führer
brutalmente dava voce alla filosofia culturale del Terzo Reich.
Sono passati tanti anni. La storia di quella prima esposizione
itinerante (idea non banale di Göbbels: Monaco, Berlino,
Lipsia, Vienna, Francoforte… dodici grandi città; 65
l’avevano richiesta!) è stata rivisitata molte volte, anche
nel successo paradossale e non voluto (2.600.000 presenze), che
impose all’attenzione dell’Europa il piatto forte tedesco
espressionista nel menù delle avanguardie, messo a punto quasi
esclusivamente nell’alta cucina di Parigi.
Oggi a New
York, alla Neue Galerie sulla quinta strada, Degenerate Art:
The Attack on Modern Art in Nazi Germany, 1937( fino al 30
giugno) ricostruisce quella demonizzazione del Moderno che
portò alla confisca in Germania di oltre 22.000 opere d’arte,
5000 i dipinti. Stipate, sbilenche, appese a delle corde
secondo una drammaturgia espositiva che tendeva a creare delle
“camere degli orrori” in sequenza, 600 di quelle opere
furono messe alla gogna alla Haus der Kunst nel 1937, in
contrasto programmatico con la pittura “ariana” e
accademica di Adolf Ziegler che, ugualmente a Monaco, veniva
celebrata nelle sale neoclassiche della Haus der Deutsche
Kunst, quella sì la vera Casa dell’Arte Germanica.
La
capitolazione culturale di quei giorni è impressa da sempre
nella memoria di noi europei, costretti a riavvolgere il nastro
della storia che ci ha coinvolto molto da vicino, quando la
separazione allora introdotta fra arte legittimata dallo Stato
e arte “degenerata” finì per aprire la strada a
distinzioni perverse in tema di religione, pensiero, libertà,
infine diritto alla vita. A New York, dove massima è la
concentrazione dei surviversalle stragi naziste, la mostra ha
un impatto ancor più emozionale.
Non è il riscatto
(ormai incontestato) dell’espressionismo tedesco a colpire le
fila dei visitatori, sono i cinque minuti di proiezione del
cortometraggio girato da un fotografo americano nel 1937.
Prestato dall’archivio ebraico di Steven Spielberg, questo
frammento è il solo rimasto a documentare l’arroganza dei
despoti in visita alla Entartete Kunst, quei gerarchi di piombo
e quella gente silenziosa e sgomenta che si fa strada fra le
sculture ammassate di Ludwig Gies e di Ernst Barlach. Prima che
sull’Europa scenda la notte.
Nell’accrochage
caotico e ostile del 1937, passano Klee, Kandinsky, Chagall,
Otto Dix, Nolde, Schwitters, Max Ernst, Kokoschka, Beckmann,
Grosz, Picasso… in nome di un’azione “educativa” e di
censura.
Censura di cosa
esattamente? La risposta è che le avanguardie non avevano
soltanto ridefinito in modo radicale le forme dell’arte.
Avevano anche introdotto un’idea soggettiva e assoluta di
libertà. E questo soggettivismo, che si era espresso con
linguaggi estremi e destabilizzanti, appariva inconciliabile e
sovversivo rispetto al progetto nazista di ordine e comunità
controllata. In questa chiave, decisamente politica e di
risarcimento alla tragedia ebraica, è stata realizzata questa
mostra nel tempio della civiltà austro-tedesca a New York,
quella Neue Galeriepiena di charme, diventata, con il suo molto
viennese Café Sabarsky, uno dei luoghi del cuore della città,
monito perenne nei confronti dell’ideologia hitleriana. Due
gigantografie si affrontano all’ingresso: la fila dei
visitatori a Berlino(1938) per la mostra “Entartete Kunst”
e la fila senza fine degli ebrei smarriti, scaricati come
bestie alla stazione di Auschwitz-Birkenau, anno 1944. Come
dire che esistono delle relazioni e quello che era accaduto
nell’ambito della cultura non poteva non essere presagio di
rovine devastanti.
Molte sono le
ragioni che accendono oggi la curiosità della gente attonita
davanti ai dipinti, alle sculture, alle fotografie, alle corni-
ci simbolicamente vuote che, nell’assenza, stanno ad evocare
le opere perdute. C’è naturalmente il film di George
Clooney, apologia in chiave western dei Monuments Men, ma c’è
soprattutto l’affare Cornelius Gurlitt, il misterioso recente
ritrovamento a Monaco di un bottino di 1406 opere trafugate dai
nazisti (Matisse, Picasso, Beckmann, Klee, Kokoschaka …).
Ancora più
inquietante perché Gurlitt è ebreo, figlio di un potente
mercante di Dresda, che in prima linea, nella cerchia di
Göbbels, aveva pilotato i sequestri dell’arte “degenerata”
spogliando le collezioni ebraiche in Germania. L’ombra lunga
del collaborazionismo tocca del resto anche la non resistenza
al potere del pittore Emil Nolde, anche se si deve ogni volta
ricordare che la linea di demarcazione, nell’inferno del
Reich, passava attraverso compromessi non negoziabili: per non
soccombere, Ernst Ludwig Kirchner nel 1938 decise di spararsi
una pallottola alla testa.
Questo cercava
di spiegare in anni recenti la scrittrice Christa Wolf, anche
lei coinvolta nella ragnatela di spie della Stasi, i servizi
segreti della DDR. Citando, a sua difesa, il verso di un grande
romantico tedesco, Friedrich Hölderlin:“Was bleibt …quello
che resta, alla fine, è quello che il poeta ha creato”. Una
scheggia di luce alle porte della notte.
La Repubblica – 6
aprile 2014
Nessun commento:
Posta un commento