Ho dimenticato di segnalare finora uno dei films più belli che abbia visto negli ultimi mesi. Lo faccio oggi con una bella recensione apparsa sul Manifesto.
Due attori
straordinari per un film straordinariamente semplice e complesso,
proprio come la vita. Perchè Dallas Buyers Club non è un film sulla
malattia e la morte (come tanti altri sull'AIDS), ma sulla vita. Da
vedere.
Giulia D'Agnolo
Vallan
La crociata anti Aids
del cowboy omofobo
«Rock Hudson era
un succhiacazzi? Che spreco con tutta quella figa
hollywoodiana!». Le ossa che sembrano sul punto
di bucargli la pelle, la carnagione giallastra,
gli occhi iniettati di sangue, i movimenti
pervasi da una costante scossa elettrica, la bottiglia
di tequila e una scarica di bestemmie sempre
a portata di labbra, Ron Woodroof è il più
implausibile crociato della guerra contro l’Aids
che si possa immaginare.
E, portando sullo
schermo la fantastica storia di questo
elettricista di Dallas diventato
imprenditore del traffico di medicine illegali
contro l’Aids per salvarsi la pelle, Matthew
McConaughey non ha intenzione di dargli delle
scusanti: il suo Ron è un redneck orrendo —
litigioso, misogino, omofobo e con una falcata
così aggressiva da escludere a priori persino
la possibilità di notare l’esistenza del
prossimo. Nemmeno parlare, poi, di averne bisogno.
Già nella stalla, prima
di saltare sulla groppa di un cavallo da rodeo, fa sesso con
due donne allo stesso tempo e tira una striscia di coca.
La sua è la voracità cieca di un buco nero. Quello che
McConaughey gli dà invece, in un’interpretazione
asciutta, di grandissima intelligenza, che non
ha nulla a che vedere con quanti chili ha perso per il ruolo,
è un’inequivocabilità totale. Che ci piaccia o no,
Woodroof, per preservare quell’essere, è disposto
a qualsiasi cosa.
Come l’interpretazione
di McConaughey, Dallas Buyers Club (che gli è valsa
una delle 6 candidature all’Oscar guadagnate
dal film), ha il suo fascino nella frontalità,
nell’immediatezza del racconto, che il regista
francocanadese Jean-Marc Vallée rende
con orecchio sensibile alle cadenze dolci e crudeli
del Texas, un occhio paziente e una mise-en-scene
generosamente disadorna.
Il film è ispirato
a una storia vera, apparsa nel 1992 sul Dallas
Morning News a firma Bill Minutaglio. L’anno
è il 1986. Finito in ospedale per un incidente sul
lavoro, Ron Woodroof si sente dire che ha l’Aids, e che
gli restano trenta giorni di vita. La sua prima reazione
è furia: in quegli anni, il picco dell’epidemia, Aids
era sinonimo di omosessualità, «la malattia
dei finocchi» urla il cowboy. Subito dopo decide che non
ha nessuna intenzione di morire.
La prima idea è quella
di corrompere un infermiere dell’ospedale perché
gli passi dosi extra di Azt, il medicinale in via di
sperimentazione. Quando le scorte finiscono
e lui sta ancora peggio, Woodroof si arena in una
clinica messicana dove un medico hippie
(Griffin Dunne) gli prescrive una cura alternativa,
a base di proteine e integratori
alimentari, che rafforzi il suo sistema
immunitario, invece di deprimerlo. Anche a un
passo dalla tomba, Ron capisce il potenziale business
della sua scoperta e, non appena si rimette un po’ in forze,
inizia a importare illegalmente milioni di
pillole.
Nell’affascinante
articolo di Minutaglio, basato su un’intervista con
Woodroof poco prima che morisse, nell’ottobre del 1992 (sette
anni quindi, e non trenta giorni come i medici gli
avevano diagnosticato), si parla di circa 300
viaggi solo in Messico. Alcune volte, racconta l’articolo,
per passare la frontiera Ron si vestiva da prete, altre da
medico. Un giorno, le sospensioni speciali che aveva
installato nell’auto per sostenere il peso delle
pillole hanno ceduto proprio durante il controllo del
passaporto. …
Non potendo vendere
i farmaci, perché non autorizzati dalla
Fda ovvero l’ente governativo statunitense
che si occupa della regolamentazione dei
prodotti alimentari e farmaceutici
(anche se poteva importarne una piccola quantità per
uso personale), Woodroof fonda un club dove, pagando
un’iscrizione mensile, si può avere accesso alle cure
sperimentali e a ogni tipo di informazione
disponibile sulla malattia. In breve, con orrore
delle autorità mediche e governative,
migliaia, di persone, decise come lui a vivere qualche
giorno di più, disertano l’ospedale a favore dalla sua
farmacia sui generis. In anni dominati da
panico, diffidenza e mancanza di informazione
sull’Aids, il Dallas Buyers Club non era l’unico di questi
centri di medicina alternativa, ma era uno dei
più grossi.
Nel film, il socio
d’affari di Woodroof/ McConaughey è un
ineffabile transessuale tossico che ha
conosciuto durante il ricovero, Rayon, genialmente
incarnato da Jared Letho. Il loro rapporto una screwball
tra la versione esagerata di una donna e quella
di un cowboy –due abnormità anche nell’universo
emarginato della malattia. Tutti e due
condannati a morte.
La seconda parte di
Dallas Buyers Club è più densa di trama, di
accadimenti, passaggi obbligati e di
cliché –la persecuzione di Woodroof da
parte del governo e delle case farmaceutiche
che vogliono controllare il mercato delle cure della
malattia è trattata in modo schematico,
troppo rapido (per quello meglio guardare il documentario
di David France How To Survive a Plague).
Arrivano purtroppo
anche i momenti strappalacrime d’obbligo. Ma,
in generale, Vallée ( C.R.A.Z.Y. e The Young
Victoria ), aiutato da due attori fantastici,
si tiene ad ammirevole distanza dal sentimentalismo
e dalla santimonia. La sua è la lezione
del cinema di controcultura anni settanta, non
quella del politically correct contemporaneo.
Infatti, Dallas Buyers Club è anche un film
sorprendentemente divertente.
Il Manifesto – 30
gennaio 2014
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