06 aprile 2014

DALLAS BUYERS CLUB



Ho dimenticato di segnalare finora uno dei films più belli che abbia visto negli ultimi mesi. Lo faccio oggi con una bella recensione apparsa sul Manifesto. 
Due attori straordinari per un film straordinariamente semplice e complesso, proprio come la vita. Perchè Dallas Buyers Club non è un film sulla malattia e la morte (come tanti altri sull'AIDS), ma sulla vita. Da vedere.

Giulia D'Agnolo Vallan

La crociata anti Aids del cowboy omofobo


«Rock Hud­son era un suc­chia­cazzi? Che spreco con tutta quella figa hol­ly­woo­diana!». Le ossa che sem­brano sul punto di bucar­gli la pelle, la car­na­gione gial­la­stra, gli occhi iniet­tati di san­gue, i movi­menti per­vasi da una costante scossa elet­trica, la bot­ti­glia di tequila e una sca­rica di bestem­mie sem­pre a por­tata di lab­bra, Ron Woo­droof è il più implau­si­bile cro­ciato della guerra con­tro l’Aids che si possa imma­gi­nare.

E, por­tando sullo schermo la fan­ta­stica sto­ria di que­sto elet­tri­ci­sta di Dal­las diven­tato impren­di­tore del traf­fico di medi­cine ille­gali con­tro l’Aids per sal­varsi la pelle, Mat­thew McCo­nau­ghey non ha inten­zione di dar­gli delle scu­santi: il suo Ron è un red­neck orrendo — liti­gioso, miso­gino, omo­fobo e con una fal­cata così aggres­siva da esclu­dere a priori per­sino la pos­si­bi­lità di notare l’esistenza del pros­simo. Nem­meno par­lare, poi, di averne bisogno.

Già nella stalla, prima di sal­tare sulla groppa di un cavallo da rodeo, fa sesso con due donne allo stesso tempo e tira una stri­scia di coca. La sua è la vora­cità cieca di un buco nero. Quello che McCo­nau­ghey gli dà invece, in un’interpretazione asciutta, di gran­dis­sima intel­li­genza, che non ha nulla a che vedere con quanti chili ha perso per il ruolo, è un’inequivocabilità totale. Che ci piac­cia o no, Woo­droof, per pre­ser­vare quell’essere, è dispo­sto a qual­siasi cosa.

Come l’interpretazione di McCo­nau­ghey, Dal­las Buyers Club (che gli è valsa una delle 6 can­di­da­ture all’Oscar gua­da­gnate dal film), ha il suo fascino nella fron­ta­lità, nell’immediatezza del rac­conto, che il regi­sta fran­co­ca­na­dese Jean­-Marc Val­lée rende con orec­chio sen­si­bile alle cadenze dolci e cru­deli del Texas, un occhio paziente e una mise-en-scene gene­ro­sa­mente disadorna.

Il film è ispi­rato a una sto­ria vera, apparsa nel 1992 sul Dal­las Mor­ning News a firma Bill Minu­ta­glio. L’anno è il 1986. Finito in ospe­dale per un inci­dente sul lavoro, Ron Woo­droof si sente dire che ha l’Aids, e che gli restano trenta giorni di vita. La sua prima rea­zione è furia: in que­gli anni, il picco dell’epidemia, Aids era sino­nimo di omo­ses­sua­lità, «la malat­tia dei finoc­chi» urla il cow­boy. Subito dopo decide che non ha nes­suna inten­zione di morire.

La prima idea è quella di cor­rom­pere un infer­miere dell’ospedale per­ché gli passi dosi extra di Azt, il medi­ci­nale in via di spe­ri­men­ta­zione. Quando le scorte fini­scono e lui sta ancora peg­gio, Woo­droof si arena in una cli­nica mes­si­cana dove un medico hip­pie (Grif­fin Dunne) gli pre­scrive una cura alter­na­tiva, a base di pro­teine e inte­gra­tori ali­men­tari, che raf­forzi il suo sistema immu­ni­ta­rio, invece di depri­merlo. Anche a un passo dalla tomba, Ron capi­sce il poten­ziale busi­ness della sua sco­perta e, non appena si rimette un po’ in forze, ini­zia a impor­tare ille­gal­mente milioni di pil­lole.

Nell’affascinante arti­colo di Minu­ta­glio, basato su un’intervista con Woo­droof poco prima che morisse, nell’ottobre del 1992 (sette anni quindi, e non trenta giorni come i medici gli ave­vano dia­gno­sti­cato), si parla di circa 300 viaggi solo in Mes­sico. Alcune volte, rac­conta l’articolo, per pas­sare la fron­tiera Ron si vestiva da prete, altre da medico. Un giorno, le sospen­sioni spe­ciali che aveva instal­lato nell’auto per soste­nere il peso delle pil­lole hanno ceduto pro­prio durante il con­trollo del passaporto. …

Non potendo ven­dere i far­maci, per­ché non auto­riz­zati dalla Fda ovvero l’ente gover­na­tivo sta­tu­ni­tense che si occupa della rego­la­men­ta­zione dei pro­dotti ali­men­tari e far­ma­ceu­tici (anche se poteva impor­tarne una pic­cola quan­tità per uso per­so­nale), Woo­droof fonda un club dove, pagando un’iscrizione men­sile, si può avere accesso alle cure spe­ri­men­tali e a ogni tipo di infor­ma­zione dispo­ni­bile sulla malat­tia. In breve, con orrore delle auto­rità medi­che e gover­na­tive, migliaia, di per­sone, decise come lui a vivere qual­che giorno di più, diser­tano l’ospedale a favore dalla sua far­ma­cia sui gene­ris. In anni domi­nati da panico, dif­fi­denza e man­canza di infor­ma­zione sull’Aids, il Dal­las Buyers Club non era l’unico di que­sti cen­tri di medi­cina alter­na­tiva, ma era uno dei più grossi.

Nel film, il socio d’affari di Woodroof/ McCo­nau­ghey è un inef­fa­bile tran­ses­suale tos­sico che ha cono­sciuto durante il rico­vero, Rayon, genial­mente incar­nato da Jared Letho. Il loro rap­porto una screw­ball tra la ver­sione esa­ge­rata di una donna e quella di un cow­boy –due abnor­mità anche nell’universo emar­gi­nato della malat­tia. Tutti e due con­dan­nati a morte.

La seconda parte di Dal­las Buyers Club è più densa di trama, di acca­di­menti, pas­saggi obbli­gati e di cli­ché –la per­se­cu­zione di Woo­droof da parte del governo e delle case far­ma­ceu­ti­che che vogliono con­trol­lare il mer­cato delle cure della malat­tia è trat­tata in modo sche­ma­tico, troppo rapido (per quello meglio guar­dare il docu­men­ta­rio di David France How To Sur­vive a Pla­gue).

Arri­vano pur­troppo anche i momenti strap­pa­la­crime d’obbligo. Ma, in gene­rale, Val­lée ( C.R.A.Z.Y. e The Young Vic­to­ria ), aiu­tato da due attori fan­ta­stici, si tiene ad ammi­re­vole distanza dal sen­ti­men­ta­li­smo e dalla san­ti­mo­nia. La sua è la lezione del cinema di con­tro­cul­tura anni set­tanta, non quella del poli­ti­cally cor­rect con­tem­po­ra­neo. Infatti, Dal­las Buyers Club è anche un film sor­pren­den­te­mente divertente.


Il Manifesto – 30 gennaio 2014

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