09 aprile 2014

Guttuso inedito

Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, consiglieri comunali a Palermo nel 1975

SERGIO TROISI

IL GUTTUSO INEDITO RACCONTATO DALLE FOTO

Nel 1938 Renato Guttuso, ormai trasferitosi a Roma, dipinse un´opera, "Gente nello studio", che costituisce una delle prime tappe di quella autobiografia per immagini a cui avrebbe affidato una parte importante, per molti aspetti decisiva, della propria identità rappresentativa. Lo studio era quello di piazza Melozzo da Forlì, il primo di una nutrita serie di atelier romani.

In quell´anno in cui iniziava a maturare la disillusione di una intera generazione nei confronti del fascismo, quella piccola folla di amici seduta in pose tese, come nutrite di disagio, valeva come una dichiarazione di sodalizio intellettuale, pendant ideale di una foto in cui l´artista ventiseienne si circonda di fiori, teschi e bucrani e di una pubblicazione gualcita su Picasso.

In questo senso pittura e fotografia si ponevano congiuntamente come medium privilegiato di una indagine insieme figurativa e morale in cui si distillava il sentimento del tempo e della storia. Quello studio e quella coperta compaiono nei capitoli iniziali della nuova mostra allestita nel museo dedicato all´artista a Villa Cattolica riunendo circa duecento scatti fotografici, dall´infanzia a Bagheria sino agli ultimi mesi ("Renato Guttuso. Biografia per immagini", a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Dora Favatella Lo Cascio, si inaugura oggi alle 19) integrando idealmente il ciclo delle tre rassegne che negli ultimi vent´anni hanno ripercorso l´intero ciclo del pittore.

Non si tratta di una scelta casuale: a partire soprattutto dalla stagione del dopoguerra, quando le polemiche politiche e culturali alimentavano la formazione di schieramenti, e sul ruolo dell´intellettuale nella vita pubblica si consumavano lacerazioni feroci, Guttuso ha intrecciato testimonianze fotografiche e opera pittorica in una medesima allocuzione figurativa di segni e simboli retorici, mescolando consapevolmente sfera pubblica e sfera privata. Ed è una felice scelta curatoriale quella di imbastire la progressione cronologica degli scatti assumendo quali centri ordinatori della mostra e del catalogo proprio gli studi che Guttuso ha avuto, dal primo in corso Pisani a Palermo, condiviso con Giovanni Barbera e Nino Franchina all´epoca del Gruppo dei Quattro, sino a quello nei grandi saloni del seicentesco Palazzo del Grillo a Roma, teatro principale dei dipinti degli ultimi due decenni di attività. 


È nello spazio dell´atelier infatti che Guttuso elabora le strategie della propria azione pittorica: circondato dagli oggetti quotidiani a cui ostinatamente intende restituire il senso della verità non mediata delle cose, dialogante con gli amici di sempre (Antonello Trombadori, Mario Alicata, Stefano D´Arrigo tra gli altri), con i corpi delle modelle che si muovono tra tele e cavalletti, Guttuso allestisce infatti gli studi come un set di battaglie di idee, sulla scorta di un dipinto molto amato, "L´atelier" di Courbet, individuato come uno dei passaggi chiave della nuova fisionomia intellettuale dell´artista moderno in relazione alla realtà del suo tempo. Non a caso, tra le numerose immagini che lo ritraggono insieme ad altri artisti, fa capo a sé - per volontà dei curatori ma anche per implicita ammissione dello stesso Guttuso - quella insieme a Pablo Picasso, visitato nelle sue residenze nella Francia meridionale e riconosciuto come il riferimento prioritario - insieme politico e artistico - di tutto il Novecento.

Indipendentemente dal fatto che si tratti di opere di grandi fotografi (alcuni nomi: Anatole Sarderman, Eugene Haas, Sandford Roth, Ferdinando Scianna, Ugo Mulas oltre a Giuseppe Tornatore) o di immagini anonime scattate da amici, non poche delle foto esposte sono, in tal senso, esemplari: come quella che nello studio di via Pompeo Magno lo riprende all´opera sulla grande "Crocifissione", concepita come un massacro contemporaneo, che tra mille polemiche ottenne il secondo posto al Premio Bergamo del 1942; o quella che ritrae nello studio di Villa Massimo lo scrittore Stefano D´Arrigo nelle vesti di soldato borbonico e il pittore Saro Mirabella in quelle di garibaldino dinanzi alla prima versione della "Battaglia di Ponte Ammiraglio"; o ancora quella che, nello studio estivo di Velate, lo vede insieme a Elio Vittorini sullo sfondo di uno dei numerosi quadri a programma, "La discussione".


È il 1960, e le ferite seguite alla fuoriuscita dello scrittore dal Pci sono da tempo rimarginate. Si avvicinano, semmai, gli anni della sovraesposizione mondana che in parallelo ai grandi dipinti allegorici degli anni Settanta e Ottanta scandiscono l´ultima stagione pubblica di Guttuso: uno sguardo retrospettivo stazzonato di malinconia, di aria crepuscolare da incontri tra grandi vecchi istituzionalizzati. Quanto più vitali risultano, in confronto le immagini in compagnia di Mario Schifano (fotografato da Guttuso arrampicato su una scala, mentre a sua volta fotografa "L´edicola", la scultura life size del pittore di Bagheria) e di Franco Angeli (in posa rattrappita dinanzi al cavalletto; l´opera adesso è al Museo di Villa Cattolica), all´apice del loro successo, quando l´affermarsi della pop art sembrava avere riaperto anche retroattivamente i giochi della scena dell´arte contemporanea con la figurazione dopo il lungo decennio dell´astrazione informale.

E crepuscolari, in modo diverso, sono anche le foto dell´impossibile - vagheggiato, temuto - ritorno in Sicilia negli anni Settanta. Quando la breve esperienza di consigliere comunale a Palermo (1975, insieme a Leonardo Sciascia) doveva sancire il legame organico, propositivo con la città: durò poco; e quando il nuovo studio a Palazzo Galati, in via Ruggiero Settimo, avrebbe dovuto rappresentare qualcosa di più di un semplice luogo dove dipingere occasionalmente.

Chissà se Guttuso, in quegli ultimi anni, si sentiva disorientato dinanzi alla terra da cui era partito quattro decenni prima. Una foto che lo ritrae ai tavoli dello Shangai, con la scenografia dei ruderi della Vucciria alle spalle, sembra suggerire un sentimento vago di estraneità, di non appartenenza.
(La Repubblica, edizione Palermo 20 luglio 2009)

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