Luigi Di Ruscio
Emigrato dall'Italia
nel 1957, in cerca di lavoro e di libertà, lavorò per
anni in una fabbrica norvegese. La riscoperta di un grande scrittore
rifiutato nel 1969 da Calvino che aveva avuto paura della forza
anarchica della sua scrittura.
Giorgio Falco
L’operaio Di Ruscio
va in paradiso
La mattina del primo
aprile 1969, Italo Calvino era negli uffici Einaudi. Nei giorni
precedenti aveva letto un romanzo inedito, intitolato Il
verbalizzatore. L'autore trentanovenne aveva alle spalle alcune
pubblicazioni di poesia; la prima in particolare, risalente al 1953,
intitolata Non possiamo abituarci a morire, era stata benaccolta da
Fortini.Il romanzo inedito era la storia del verbale di una riunione,
redatto da un verbalizzatore così ossessivo da far entrare
all'interno del testo qualsiasi cosa, «dando fondo se non
all'universo», aveva scritto Calvino, «a una visione del mondo».
Calvino aveva apprezzato il libro e tuttavia ne era rimasto quasi
spaventato dalla «cupa aggressività» che gli ricordava Céline.
E così, pur ammirando
l'opera, aveva rifiutato di pubblicarla, motivando la sua scelta in
modo coerente non solo con la propria idea di letteratura, ma anche
con se stesso e le proprie fissazioni personali. «La verità è che
io sono un maniaco dell'ordine e della geometria, e nel Suo eroico
disordine mi raccapezzo poco». Il giudizio finale ancora oggi
suscita una doppia reazione, equamente divisa tra delusione e
tenerezza verso Calvino, che aveva svelato una parte di se stesso
all'autore.
2150 chilometri a nord di
Torino, l'autore del romanzo inedito finiva il turno alla fabbrica di
chiodi Christiania Spigerverk, ubicata nella periferia di Oslo. Si
chiamava Luigi Di Ruscio, era nato a Fermo nel 1930, e come alcuni
italiani - inconciliati con la nazione ancora fascista del Dopoguerra
- aveva deciso di lasciare l'Italia nel 1957, ufficialmente per
cercare lavoro e fuggire dalla fame.
Ma oltre alla questione
economica, Di Ruscio aveva vissuto l'impossibilità di adattamento al
mondo democristiano e a quello del Pci. «Se i democristiani mi
avessero dato anche un posto da scopino sarei rimasto in Italia», ha
detto una volta. Aggiungendo però, poco dopo: «Senza la settimana
corta, senza la paga oraria che mi fa comperare libri, non avrei
potuto scrivere (...) Se fossi rimasto in Italia avrei potuto
scrivere solo in galera (...) La settimana lavorativa era troppo
lunga e spossante, ritornavo a casa solo per dormire».
Luigi Di Ruscio, nel suo
esilio scandinavo - perché di questo si è trattato - si è sposato
con una norvegese, ha fatto quattro figli e lavorato nella stessa
fabbrica di chiodi fino alla pensione, prima di morire a 81 anni, nel
2011. Ma soprattutto in questi decenni ha continuato a scrivere
romanzi e poesie, e nonostante il disinteresse dei grandi editori si
è creato una comunità di affezionati lettori.
Le sue ultime opere sono
state pubblicate negli anni scorsi da Ediesse e Le Lettere. Ora, a
tre anni dalla morte, Feltrinelli ha deciso di raccogliere alcuni
suoi romanzi in un unico volume: Palmiro, Cristi polverizzati, Neve
nera, Apprendistato, (prefazione di Angelo Ferracuti, postfazione di
Andrea Cortellessa).
I romanzi di Luigi Di
Ruscio si possono leggere come un'unica opera, e ci parlano sempre
dell'Italia, la nazione perduta fisicamente ma riconquistata
attraverso la lingua. Sono i romanzi dei manovali, dei contadini, dei
giocatori di carte, dei barbieri politicizzati, del sogno impossibile
di una rivoluzione vagheggiata nella luce accecante della piazza di
un paese marchigiano, i suoi immediati dintorni di cui, grazie alla
scrittura, riusciamo a percepire gli odori.
I romanzi sono la storia
dell'infanzia, di chi ha visto il primo semaforo a ventidue anni e di
chi ha tenuta accesa la fiammella della sua vita d'artista durante le
ore in fabbrica. Di Ruscio tornava a casa in bicicletta e si
rinchiudeva nella stanza per scrivere della luce italiana, dei
personaggi epici e picareschi ritratti attorno alla sezione del
partito, con uno stile scoppiettante e percussivo, furente e comico,
mentre moglie e figli parlavano nel resto della casa in norvegese.
La lingua è stata una
forma di conoscenza e resistenza, anche in quei lapsus che sono
diventati negli anni la peculiarità della prosa di Di Ruscio, forme
alienate di un processo sorgivo. 'Iscrivere', come sottolinea
Cortellessa, è 'un insistere', ma è anche un'iscrizione,
'iscrivere' è la promessa di ogni inizio. Così come 'profondando' è
andare in profondità senza sprofondare: profondare è salvarsi con
l'insistenza dell'iscrivere.
E tuttavia questa ricerca
di salvezza non è mai individuale, altrimenti Di Ruscio avrebbe
avuto un altro tipo di vita, adattata ai compromessi. I propri
accadimenti personali sono sempre agganciati all'esistenza del noi,
tanto da sentire un debito lontano, ringraziando le lotte operaie
norvegesi degli anni '30, che avevano migliorato le condizioni di
lavoro a Oslo, dandogli così la possibilità di scrivere nei decenni
seguenti. Eppure non c'è mai una nostalgia edulcorata dell'Italia
che fu, anzi, la prosa di Di Ruscio «è il presente del momento
stesso in cui si racconta », aveva sottolineato Antonio Porta.
Certo, spiace che questa
importante antologia di Feltrinelli non sia arrivata con lo scrittore
in vita. Ricordo quindi con affetto la sua felicità nell'apprendere
che Cristi polverizzati era stato recensito in queste pagine, quattro
anni fa: il tragitto in bicicletta alla ricerca di Repubblica,
nell'edicola della stazione di Oslo.
Ferracuti sottolinea che
Di Ruscio, quando ha preparato la valigia per andare in ospedale,
conscio della morte vicina e di quanto aveva fatto in vita, ha
scritto: «Ritorno tranquillamente nel niente da dove sono venuto.
Nei miei versi è la mia resurrezione».
La repubblica – 31 marzo 2014
Luigi Di Ruscio
Romanzi
Feltrinelli, 2014
euro 39
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