La storia di Gaetano
Bresci ricostruita in un libro di Paolo Pasi in uscita per Eléuthera.
Ne anticipiamo un brano.
Paolo Pasi
L’anarchico
venuto dall’America: la fine del viaggio di Bresci
Milano, 24 luglio 1900. L’aria è calda, umida, malsana, e non è solo per via dell'afa appiccicosa calata sulla città come un mantello soffocante.
È come se recasse
traccia della polvere da sparo, come se Milano fosse ancora
avvelenata dai colpi del generale che solo due anni prima ha ordinato
il fuoco sulla folla affamata. È qui che è iniziato tutto, ed è
qui che sta per finire il viaggio. Gaetano Bresci è arrivato da
Piacenza dopo essere stato a Bologna, e ancora prima a Prato, la sua
città natale dove ha rivisto i familiari, i pochi amici, i
conoscenti, le persone attorno a cui ha costruito gli affetti
dell’infanzia e oltre. Mancava da tre anni.
È un viaggio a ritroso, quello che lo sta portando a destinazione. È arrivato in Italia ai primi di giugno, passando per la Francia e Parigi, dopo la traversata in terza classe a bordo della nave Gascogne partita da New York.
L’anarchico venuto
dall’America, come lo chiameranno alcuni intellettuali di rango e
storici, è un uomo di quasi 31 anni, distinto, piacente, dai baffi
curati e dall’abbigliamento raffinato per uno della sua condizione.
A Prato, per questo, lo avevano soprannominato fin da ragazzo il
«paino», ovvero il damerino, e lui si è sempre risentito per
questa etichetta, appiccicata come se ai poveri non dovesse essere
riconosciuto il diritto allo stile, all’eleganza, all’incedere
dignitoso nonostante sopraffazioni e angherie. Ha visto tanti luoghi
senza trovare pace in alcuno.
New York, Parigi, Genova,
Prato, Bologna, Piacenza... Il viaggio si riavvolge come un nastro
che torna a scorrere nella giusta direzione di marcia. Milano è
rovente, il centro della città un luogo di passaggio poco affollato
che reca testimonianza delle novità d’inizio secolo:
l’elettricità, i tram senza cavalli, i grandi magazzini lungo
corso Vittorio Emanuele. Ma non c’è applicazione moderna che possa
cancellare le tracce del più recente passato. Ci sono ancora
carrozze a cavallo, per esempio, e quell’aria sempre inquinata
dall’odore della polvere da sparo.
Bresci imbocca via San
Pietro all’Orto, una traversa di corso Vittorio Emanuele, e va
dritto all’obiettivo. Con sé ha una valigia marrone e una macchina
fotografica che cattura l’attenzione per le sue ridotte e
avveniristiche dimensioni. È il taccuino visivo del suo viaggio, la
testimonianza dei passaggi intermedi. Adesso è quasi arrivato. Ad
attenderlo c’è Carlo Colombo, custode di uno degli stabili, ma
soprattutto anarchico tra i più attivi e conosciuti a Milano. Uno
che avrà problemi con la polizia fino all’ultimo giorno di vita.
«Qui, due anni fa, c’era
l’esercito a presidiare le redazioni dei giornali e i sospetti covi
sovversivi. Avevano militarizzato tutta la città» spiega Colombo a
Bresci mentre lo accompagna dai coniugi Ramella, che gestiscono una
piccola pensione poco più in là, al numero civico 4. I due
anarchici s’intendono, anche se non possono dirsi intimi
conoscenti. Solo compagni che condividono la percezione olfattiva
della città e sanno ridurre al minimo certe parole e argomenti.
Sebbene l’aspetto sia cambiato dai moti del 1898 repressi da Bava
Beccaris, Milano è ancora sotto sorveglianza regale, e ogni minimo
commento che evochi semplicemente rabbia, può essere l’anticamera
della cella. Come avviene, peraltro, nel resto d’Italia.
I due arrivano dalla
signora Ramella, che squadra l’amico di Colombo e lo trova un tipo
distinto, rassicurante, come non se lo immaginava. Perfino un
bell’uomo, ancora giovane, dal tono affabile.
«Gaetano Bresci, piacere».
«Benvenuto. La sua
stanza è al primo piano».
l’Unità – 7 aprile
2014
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