Fotografia. La mostra
«Generazioni», al museo Trastevere di Roma, fino al primo giugno.
Un affresco sul plurale femminile
Mirella Bentivoglio
Biancheria pulita
per una saga della memoria
Fino al primo giugno,
il museo di Roma in Trastevere ospita la mostra Generazioni di Paola Binante. Come vuole il
sottotitolo, Pluralità del femminile,
questa esposizione (curata da Silvia Bonfili
ed Elena Paloscia) offre una lettura retroattiva di
un nucleo familiare, mediante le immagini
fotografiche di una serie di oggetti appartenuti
alla nonna, alla madre, alle zie dell'autrice (docente di
Fotografia presso l'Università Isia di Urbino).
Dunque, una saga domestica che esce totalmente
dagli schemi della ripresa fotografica di marca
concettuale, in genere fondati sugli inganni della
percezione visiva; e si propone invece di
«raccontare» la rituale vicenda del femminile
lungo un arco di tre generazioni.
Vi sfilano
immagini che hanno la precisa secchezza di parole,
affrancate come sono dalla consueta aura romantica
delle memorie private. Protagonisti
sono gli oggetti del quotidiano, presentati
uno per volta, con una concisione metafisica:
gli attrezzi di cucina, gli utensili della tessitura
e del cucito; e i capi di vestiario, le fascine della legna
per il fuoco, la fisarmonica dello svago, le pillole
medicinali, le lettere conservate, le
fotografie incorniciate dei propri cari.
A chiusura del percorso, il volto dell'autrice; quasi
una firma, un traguardo di conquistata
consapevolezza della propria genetica
«pluralità».
L'originalità di
questa esposizione non consiste solo
nell'affrontare la tematica del «genere» col mezzo
fotografico; ma è presente soprattutto nel
modo in cui la semiologia del femminile vi
viene proposta. Gli oggetti vi appaiono sempre
campiti su un lembo di lenzuolo, o di altro bianco capo
di biancheria con iniziali ricamate, che possa
fungere da sfondo. Questo per cancellare ogni
appartenenza degli oggetti a uno spazio fisico,
elevandoli così a livello di simboli; al di fuori
di ogni valenza di documento meramente antropologico.
E la ripresa di queste tele occupa tutto il riquadro del
supporto, come per suggerire la presenza
ancestrale della tessilità nella memoria
genetica della donna.
Notiamo inoltre
che predominano in questa rassegna
le forme ovali, rigonfie, per esempio quelle degli orci
in terracotta; e ciò porta a ricordare che nelle
scritture arcaiche la donna è sempre stata
equiparata al «contenitore»; sappiamo
per esempio che il geroglifico egizio a lei
riferito, è, sì, lo stesso segno che equivale
indistintamente a «essere umano», ma sormontato
da una piccola immagine, quasi un accento, che
rappresenta un vaso.
Non manca nella mostra
una vasta installazione. Nella forma, essa sembra
ricondurre alla struttura del dna, la spirale
genetica; ma, contemporaneamente,
anche all'avvolgimento del corpo dell'infante nelle fasce, sia
pure in maximisura. Quasi a rivelare che il gesto
rituale della donna esperimenta gli stessi interni
segreti del suo corpo. E queste fasce di neonato,
bianche ma ben riconoscibili, sono anch'esse
racconto, ritagliate come qui appaiono, in
rettangoli staccati che sembrano alludere
a una pluralità di pagine.
Insomma i
rispecchiamenti, le coincidenze dei segni,
creano in questa rassegna in modo spontaneo
e forse in parte inconscio, per virtù di introspezione,
qualcosa di equiparabile al gioco delle «rime»
di una poesia in versi.
il manifesto - 2 Aprile
2014
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