Rete dei gasodotti russi |
Ian Bremmer è il
capofila della nuova generazione dei politologi americani. Fondatore
dell'Eurasia Group si dedica in particolare alla valutazione dei
fattori di rischio della politica internazionale, in altre parole dà
valutazioni alle grandi società sulla opportunità o meno di
investire nelle singole situazioni. Un modo di fare analisi legato ad
una lettura globale dei fenomeni considerati da una molteplicità di
angolazioni e in prospettiva. Un metodo diversissimo dal semplicismo
dei media nostrani, come dimostra bene questa analisi del caso
ucraino.
Ian Bremmer
Nel braccio
di ferro sull’Ucraina a vincere è la Cina, non la Russia
Dopo
l’annessione russa della Crimea, l’imposizione di sanzioni
da parte di America ed Europa, e con la minaccia d’una nuova
escalation in Ucraina, irrompe sulla scena internazionale
geopolitica l’evento più drammatico dall’ 11 settembre.
Gli ultimi sviluppi in Ucraina rappresentano il punto di
svolta. I rapporti tra Washington e Mosca erano già tesissimi,
ma oggi che la Russia è stata sospesa dal G8 e con nuove
sanzioni in arrivo, le comunicazioni si sono completamente
interrotte.
Si profilano
all’orizzonte, inevitabilmente, varie forme di conflitto
Est-Ovest, con preoccupanti ripercussioni sia per la sicurezza
in Europa, la stabilità in Russia, il futuro dell’Unione
Europea e della Nato, sia per i mercati energetici globali. Ma
sebbene, con ogni probabilità, le tensioni siano destinate ad
aggravarsi, non esistono analogie che possano far pensare a una
nuova Guerra fredda, né la situazione attuale rischia di
riproporre l’antico scenario. E i motivi sono molteplici.
Innanzitutto,
la Russia non ha amici potenti, né la capacità di
assicurarsene di nuovi. Quando l’assemblea generale delle
Nazioni Unite ha votato sulla legittimità dell’annessione
russa della Crimea, solo dieci Paesi si sono schierati con la
Russia. Il sostegno è arrivato dai Paesi confinanti, soggetti
alle pressioni russe (Armenia e Bielorussia) e da vari
Stati-canaglia che non godono d’alcun prestigio
internazionale (Cuba, Corea del Nord, Sudan, Siria, Zimbabwe).
Aggiungete una manciata di Paesi simpatizzanti — per antica
tradizione — in America latina (Venezuela, Bolivia e
Nicaragua) e appare chiaro che alla Russia manca ormai la
capacità d’attrazione ideologica della vecchia Unione
Sovietica. I suoi sostenitori sono accomunati soprattutto nel
condividere il malcontento verso l’ordine globale
prestabilito, piuttosto che il miraggio d’eventuali soluzioni
alternative proposte dalla Russia.
Inoltre, il
Pil russo è salito appena dell’ 1,3 per cento lo scorso anno
e la crescente dipendenza del Paese dalle esportazioni di
risorse naturali assicura che l’economia non migliorerà, se
non in vista d’un futuro aumento dei prezzi globali. Nel
2007, alla Russia bastava il prezzo del Brent di 34 dollari al
barile per pareggiare il bilancio federale; cinque anni dopo,
quella cifra era arrivata a 117 dollari. L’anno scorso,
petrolio e gas costituivano circa la metà delle entrate del
governo russo. Ad aggravare la situazione, l’economia è
controllata da un piccola élite la cui esistenza è legata
alle simpatie di Putin. Più d’un terzo della ricchezza
totale del Paese è in mano a soli 110 multimiliardari.
Malgrado il
suo arsenale nucleare, soggetto alla vecchia regola di
distruzione reciproca assicurata, che costituiva l’ago della
bilancia tra gli armamenti americani e sovietici, alla Russia
manca tuttavia la capacità militare dell’Unione Sovietica.
Oggi gli Stati Uniti spendono circa otto volte quello che la
Russia può elargire alle sue forze armate. La Russia può
permettersi di flettere i muscoli per intimorire i suoi vicini,
ma non è più in grado di sfidare il mondo come faceva un
tempo l’Unione Sovietica.
La limitazione
fondamentale della Russia è la mancata disponibilità della
Cina a trasformarsi in un alleato affidabile contro
l’Occidente. Pechino ha ben poco da guadagnare, schierandosi
in questo conflitto. Pure sperando d’accaparrarsi una fetta
maggiore delle esportazioni energetiche russe, la Cina non ha
alcun interesse a inimicarsi i suoi principali partner
commerciali, come l’Europa e l’America, a favore di Mosca.
Anzi, la Cina
potrebbe rivelarsi il principale (se non l’unico) vincitore
nell’attuale crisi ucraina. Mentre l’Europa s’affretta a
cercare alternative per ridurre la sua dipendenza dal gas
russo, i cinesi sanno di poter spuntare prezzi più favorevoli,
mantenendo al contempo relazioni pragmatiche con entrambe le
parti. La Cina inoltre è ben contenta che l’attenzione
americana in questo frangente sia puntata sull’Europa (e non
sull’Asia) orientale.
La Cina si muoverà
con molta cautela quando la Russia proverà a scatenare una
crisi secessionista in Ucraina, poiché s’oppone strenuamente
a qualsiasi precedente che possa suscitare simili
rivendicazioni d’autonomia nelle sue province più
turbolente, quali il Tibet e lo Xinjiang.
In mancanza di
una nuova Guerra fredda, la Russia proverà a sabotare i piani
di politica estera occidentali. La Russia potrebbe incoraggiare
il governo di Bashar Assad in Siria a ignorare le richieste
occidentali di distruggere o consegnare i suoi arsenali chimici
e potrebbe elargire nuovi aiuti finanziari e militari al suo
regime.
Ma Assad ha già
guadagnato abbastanza terreno per sopravvivere alla guerra
civile in Siria e c’è ben poco che la Russia possa fare per
rimettere in piedi quel Paese disastrato. La Russia potrebbe
inoltre provare a far saltare i negoziati sul programma
nucleare iraniano. Ma non sarà facile per Mosca persuadere
Teheran a ritirarsi da un accordo che l’Iran va attivamente
cercando per poter ricostruire la sua economia interna, e la
Russia non vuole certo scatenare una corsa agli armamenti
nucleari in una zona, il Medio Oriente, assai più vicina ai
suoi confini che non agli Stati Uniti.
In breve, la Russia
resta una potenza regionale (raccomandiamo tuttavia al
presidente Obama di astenersi dal fare simili dichiarazioni in
pubblico!).
Il Corriere della
sera – 11 aprile 2014
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