04 giugno 2014

SUL FUTURO DEI LIBRI







Pubblichiamo un estratto da Come finisce il libro. Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale di Alessandro Gazoia (jumpinshark)


Ognuno di noi lettori ha la sua personale storia di iniziazione alla lettura: la mia sta dentro una robusta scatola di cartone e un pomeriggio d’estate. Non è illustre e non è memorabile, ma può esser utile per riconsiderare alcune idee intorno al libro, alla promozione della lettura e al digitale conciliato con il cartaceo nella diffusione e fruizione del nostro patrimonio culturale.
Ecco il mio raccontino: alle elementari ero un alunno diligente, desideroso di «fare il mio dovere» – per usare l’espressione cara ai genitori – anche con le prime letture consigliate: quando un libro non mi piace molto (Gian Burrasca) lo finisco ugualmente e quando è bellissimo (Huckleberry Finn) penso che sono stato fortunato e chissà come sarà il prossimo. Quello che m’infastidisce è il dover leggere per piacere: dicono che leggere è bellissimo, un divertimento, una scoperta, quasi una magia, e tolgono ogni scoperta e rovinano buona parte del divertimento assegnandomi, come per magia, i libri. Rispetto l’autorità ma mi sento ingannato: se sono cose che devo fare (e farmele piacere) si dica onestamente che sono «compiti». Finito di studiare, nei lunghi pomeriggi divoro fumetti, cartoni animati e film; sapevo già allora che erano spesso basati su libri (come nel caso del cartone Remi, tratto dal romanzo Senza famiglia) ma erano un’esperienza diversa: nessuno mi spingeva a forza verso di loro, indirizzando ogni mio passo. Questa era la differenza fondamentale e da essa ne derivavano altre; soprattutto, se non mi appassionavano li lasciavo senza rimorsi: il terzo diritto del lettore di Pennac, non finire il libro, che non avevo esercitato con Gian Burrasca, lo potevo esercitare con Tex, da me pochissimo amato, per passare agli albi di Ken Parker.
Ero quindi d’accordo con la maestra: «leggere i fumetti» – per ore, tutti i giorni – non era davvero leggere. L’insegnante lo diceva perché ancora impermeabile alla rivalutazione culturale di quella forma espressiva, io perché ormai convinto che «leggere libri per piacere» fosse un ingannevole sinonimo di «studiare». Da grande mi sarei riconosciuto in queste parole di Giovanni Solimine:
molti insegnanti si impegnano volenterosamente per promuovere la lettura [...] ma forse commettono l’errore di cercare di imporre il libro, proponendolo come strumento di edificazione e di formazione, senza però riuscire a collegare le pratiche della lettura agli interessi e ai valori cui i ragazzi sono sensibili e spesso senza lasciarli neppure liberi di scegliere i libri da leggere.[1]
Ma veniamo alla seconda e ultima parte del raccontino: trascorro le vacanze estive, tra la quarta e la quinta elementare, dalla nonna e la sua vicina, vedendomi sempre in giardino coi fumetti, un giorno mi chiede se voglio una grande scatola di cartone. Dentro ci sono un centinaio di volumi della collezione originale della bur, la collana economica Biblioteca Universale Rizzoli inaugurata nel 1949. Accetto molto volentieri, è un dono, non un’imposizione e neppure un «consiglio». Trascino la scatola sul pianerottolo e quindi nella mia cameretta, poi iniziano la scoperta e il divertimento, comincio a prendere libri dalla scatola, e lo farò per anni: lì ho letto per la prima volta «Alessandro Dumas», «Nicola Gogol» e «Leone Tolstoi», Lucrezio e Shakespeare, Hoffmann e Mazzini, lì ho lasciato a metà libri che non capivo ancora per riprenderli e non posarli più anni dopo. Tra me e i libri per la prima volta non c’erano manifesti filtri di autorità, come a scuola o in biblioteca (dove i libri li cerchi su di uno schedario e li richiedi a un addetto: non li puoi vedere da solo, almeno così avevo imparato). Da quella scatola pescavo un libro, se mi piaceva continuavo, se non mi piaceva lo mettevo da parte, e lì è nata la passione per tutti gli altri libri: di Dumas c’erano I tre moschettieri ma mancava Vent’anni dopo, e io volevo leggerlo.
Come ricorda Gino Roncaglia nella Quarta rivoluzione, E.T.A. Hoffmann pubblica nel 1819 una novella, La scelta della sposa, che contiene una straordinaria prefigurazione dell’e-reader, o meglio dell’«ecosistema di lettura digitale», in forma di libro magico capace di visualizzare immediatamente i testi desiderati.
…per mezzo del libro trovato nella cassetta avete ora a disposizione la più ricca, la più completa biblioteca che nessuno abbia mai posseduto, e inoltre ve la potete portar dietro costantemente. Poiché recando in tasca questo curioso libretto esso si converte ogni volta che lo tirate fuori nell’opera che desiderate giusto di leggere.[2]
La scatola con i libri della bur era per me una buona approssimazione del libro magico di Hoffmann: i singoli volumi erano diversi per spessore (La Rivoluzione francese di Gaxotte grande tre volte i Canti di Leopardi) ma avevano tutti la stessa grafica umile e funzionale – copertina grigia, nessuna illustrazione, nome dell’autore su di una riga in corsivo, titolo del libro in grassetto, paratesti leggeri, pagine fitte fitte, carattere piccolo, interlinea stretta, stretti i margini – e le stesse dimensioni di lunghezza e altezza: 10,5 x 15,5 cm. Il primo direttore Paolo Lecaldano l’aveva voluta così: «una veste vecchia perché non invecchiasse e sporca perché non si sporcasse».
La mia prima idea di libro è quindi un oggetto umile con le pagine ingiallite, la copertina grigia e di piccole dimensioni (molto simili, di fatto, a quelle dello schermo da 6 pollici del Kindle). La materialità amatissima di quei libri ha inciso molto nella mia esperienza del libro, nella disponibilità a considerarlo anche un bene immateriale: quello che c’è dentro, il «corpo mistico», può assumere le vesti più comuni e distinguersi però da ogni altro simile. L’apprezzamento del libro come artefatto materiale e culturale dalla lunga storia e dalle forme più varie è stata una conquista successiva, e un interesse che cercherò sempre di tenere a distanza di sicurezza: il collezionismo di volumi pregiati è passione per animi più fini e soprattutto per tasche più profonde.
In occasione del centenario dell’uscita di Du côté de chez Swann Sotheby’s ha battuto all’asta una copia numerata, destinata a Lucien Daudet, della tiratura speciale su carta Japon impérial della prima edizione e la minuta autografa della lettera di scuse di Gide a Proust ricordata nel capitolo precedente: il primo lotto è stato venduto a 601.500 euro, il secondo a 145.500 euro. Sul sito della casa d’aste si possono vedere e scaricare gratuitamente le immagini delle due pagine iniziali della minuta di Gide e leggere la trascrizione del contenuto integrale, mentre per la copia Daudet troviamo solo un’immagine del libro intero con la sua copertina in marocchino rosso e due pagine di paratesto.[3] Su Gallica, la ricchissima biblioteca digitale avviata nel 1997 e sostenuta negli anni dal governo francese, possiamo però scaricare due diverse copie della prima edizione.[4]
La copia Daudet della tiratura speciale sarà per me e per te, caro Lettore non milionario, sempre inaccessibile, ma non è il caso di dolerci troppo, sia perché altre edizioni di pregio di Proust sono ben conservate e generalmente disponibili in pubbliche biblioteche, sia perché possediamo in digitale copie di quella prima edizione che non sostituiscono certo l’oggetto materiale e la sua esperienza, ma ci consentono comunque di «replicare» in maniera non rivale una parte non infima di quella. È una sciagura che l’Italia non abbia nulla di simile al progetto del governo francese, neppure una Gallica in trentaduesimo, ed è una sciagura che liber-liber.it, sostenuto solo dalla passione dei suoi fondatori e da piccole donazioni di privati, continui a essere la migliore risorsa digitale italiana dei nostri classici.
In Italia si è persino arrivati all’assurdo quando nel 2013 una campagna d’opinione ha dovuto difendere dalla minaccia di interruzione un servizio assolutamente indispensabile e dai bassi costi di gestione come l’opac sbn, il catalogo digitale collettivo delle biblioteche che partecipano al Servizio Bibliotecario Nazionale. Da noi insomma è a rischio la semplice informazione bibliografica, mentre in Francia quell’informazione è completata dalle copie digitali di oltre 250.000 libri fuori diritti.[5] E l’opera di digitalizzazione e conservazione digitale non può essere semplicemente delegata a privati come Google, in primo luogo perché quei soggetti non hanno l’interesse economico – e quindi neppure acquisiscono le competenze necessarie – a condurre un’opera scientifica sul patrimonio culturale, e proprio Google Books lo dimostra ampiamente, pur nella sua grande utilità.[6]
Ma la pura e accurata digitalizzazione non basta. Ritorno un’ultima volta alla bur, che negli anni Settanta dello scorso secolo mutò parzialmente natura: la veste continuava a essere piuttosto spartana e il costo si manteneva basso, mentre il contenuto di alcune sottocollane mirava a un pubblico universitario. Un classico italiano nella nuova bur offriva ottime introduzioni e apparati critici, un’edizione affidabile curata da studiosi esperti. Oggi tutti i testi della nostra tradizione sino circa al primo Novecento sono nel pubblico dominio[7] ed è possibile farne legalmente edizioni digitali, ma quelle opere lontane senza una qualche guida critica rimangono per il largo pubblico non leggibili, non scopribili. Per apprezzare Cavalcanti, Beccaria, Leopardi, D’Annunzio e pure Pirandello e Giaime Pintor abbiamo bisogno di una mediazione culturale che ci aiuti a comprendere linguaggio, storia e contesti, che ci soccorra nell’incontro col testo.
Il primo passo per una biblioteca elettronica è quindi digitalizzare quante più edizioni antiche di quante più opere possibili; il secondo è sfruttare i vantaggi economici del digitale per facilitare un largo accesso alla nostra tradizione culturale. Edoardo Sanguineti scriveva oltre trent’anni fa:
Dico dunque che conviene allo Stato italiano assumere sopra di sé, con un felice balzo in avanti oltre tutte le edizioni nazionali e le sovvenzioni da cnr, la cura di una edizione esaustiva e integrale, per i tipi medesimi dello Stato, tempestivamente pianificata, dei classici italiani, maggiori, mediani, minori e minimi, letterari e scientifici, storici e tecnici, dalle origini ai giorni nostri, da stamparsi in modestissimo ma resistentissimo materiale cartaceo, e con le più serie ma soccorrevoli annotazioni necessarie a un non qualificato utente, una cosa lì in mezzo tra la bur e gli Oscar, tanto per dare una pallidissima ma agevolissima idea dell’impresa che tengo in mente, e da rivendersi a puro prezzo di costo, non indicizzabile, e magari a politico sottocosto, e persino, fuori commercio, a minima richiesta da parte degli studenti della scuola dell’obbligo, convertendo, a questo nobile fine, in papiro impresso, a tutela di ogni e qualunque tetto di bilancio, una coppia vestita e, se proprio occorre, anche un poker d’assi di missili da teatro.[8]
Un compito fondamentale stabilito dalla Costituzione per la nostra Repubblica è la promozione della cultura e la tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione (art.9). Per i testi della nostra tradizione, per quel catalogo plurisecolare che non è proprietà di un editore ma orgoglio e bene comune, questo significa, prima di tutto, la conservazione dei libri in biblioteca; oggi potremmo però avviare anche un’opera di edizione e commento digitali che renda fruibile agli italiani e agli appassionati e studiosi di tutto il mondo tale ricchezza. I costi dell’opera di educazione, democratizzazione e diffusione proposta da Sanguineti si sono abbassati ancora, grazie alle edizioni elettroniche: non si dovrebbe nemmeno, aggiornando gli armamenti, rinunciare a un poker di f-35 da parata, basterebbe giusto mettere da parte il corrispettivo di qualche pieno di carburante. E a chi nell’editoria di mercato fosse preoccupato della «concorrenza sleale» ricorderemo che la massima parte dei classici mediani, minori e minimi, letterari e scientifici, storici e tecnici della nostra lingua non compare o ha un peso minimo nei cataloghi dei libri in commercio (inoltre le specializzate edizioni critiche non verrebbero sostituite da questa iniziativa).
È purtroppo ingenuo pensare che l’Italia in un breve giro d’anni possa dotarsi di qualcosa di simile a Gallica, ed è quasi folle immaginare che l’idea di una biblioteca digitale di classici italiani annotati venga presa sul serio. Rimane infine giusto un pio desiderio il progetto di impiegarvi, con contratti onorevoli, proprio qualcuno dei nostri bravissimi giovani studiosi, oggi quasi forzati all’emigrazione o umiliati con iniziative come il bando pubblico per 500 addetti alla digitalizzazione dei beni culturali, dove le condizioni iniziali erano tanto indecenti – «416 euro lordi al mese per un lavoro di 35 ore settimanali travestito da corso di formazione» – da meritare il nome di 500 schiavi.[9] Ma mi riesce difficile immaginare imprese che meglio dimostrino, nelle cose stesse e a fronte di investimenti molto contenuti, la possibile felice sinergia tra libro cartaceo e digitale e meglio promuovano la nostra cultura. 



[1]. Giovanni Solimine, L’Italia che legge, cit, p. 23.
[2]. Ernst T.A. Hoffmann, Racconti, utet, Torino 1981, pp. 193-279, citato in Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, cit., pp. 26-29.
[3]. Qui e qui.
[4]. Qui e qui. Le copie cartacee di partenza sono diverse e diverse sono le procedure di digitalizzazione: una è in bianco e nero e consente la ricerca di parole all’interno del testo (vi è stato applicato l’ocr), l’altra è a colori ed è in modalità «pura immagine». La digitalizzazione non è un procedimento «eseguito una volta per tutte» e diverse digitalizzazioni forniscono diverse e parziali informazioni sull’oggetto materiale, oltre ad aggiungerne di nuove (abbiamo citato il riconoscimento dei caratteri). Chiaramente del libro, pure nella digitalizzazione a colori e in alta risoluzione, continuano a sfuggirci molte proprietà, come la consistenza della carta.
[5]. A inizio marzo 2014 i libri ad accesso gratuito diretto attraverso il sito Gallica.fr sono oltre 265.000, tra essi oltre 180.000 offrono testi digitali col riconoscimento dei caratteri.
[6]. Cfr Robert Darnton, The Case for Books, cit., e Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, cit., cap. 5.
[7]. In Italia i testi di un autore entrano di solito nel pubblico dominio settant’anni dopo la sua morte. Giaime Pintor, nato nel 1919 e morto nel 1943, è oggi nel pubblico dominio; Nuto Revelli, nato nello stesso anno e morto nel 2004, vi entrerà nel 2075 (nell’ipotesi che non vi siano modifiche alle leggi attuali).
[8]. Edoardo Sanguineti, «Una immodesta proposta» (1981), in Gazzettini, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 223.
[9]. Claudio Giunta, «Mai più avrai quarant’anni», Il Sole 24 ore, 11 agosto 2013, e Massimo Mantellini, « Ragazzi era una [sic] scherzo, ci avevate creduto?».

 Alessandro Gazoia

DAL SITO  http://www.minimaetmoralia.it/

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