«Torneranno i prati»
di Ermanno Olmi nelle sale da giovedì: omaggio ai soldati caduti
nella grande guerra e feroce atto di accusa. Un film intenso che
stride con le celebrazioni del centenario e che guarda invece nella
vita e nella morte delle persone.
Cristina Piccino
Le ombre in trincea
dei traditi della Storia
Un giorno tornerà
l’erba, torneranno i prati e tutto quelloche
abbiamo patito non sembrerà nemmeno vero …. Lo dice
parlando con gli occhi fissi all’obiettivo, come in una
vecchia fotografia un po’ sbiadita. È stanco
quell’uomo, e non ha più storie da raccontare,
poco prima altri come lui, sempre guardandoci diritto
in faccia, ci hanno detto di vite passate nelle miniere
d’Europa, tra Francia e Belgio, e di famiglie
lasciate troppo presto tanto da avere perduto i contorni
dei loro visi. Di rancori amari, rabbiosi come l’istante
di chi tornando a casa si scopre tradito
dall’amata. Di desideri semplici, vedere crescere
i propri figli e rimanere al mondo. Vengono
da lontano quegli uomini stracciati, febbricitanti,
con gli animi feriti, e aspettano, sospesi nel silenzio
di una neve bianchissima, quasi irreale, che li avvolge
sopra e sotto al cielo.
Torneranno
i prati è il nuovo film di Ermanno Olmi — da
giovedì in sala, oggi in anteprima in cento paesi — che
il regista ha girato sull’Altopiano di Asiago, dove vive,
sfidando un inverno ghiacciato insieme agli attori e alla
troupe perché di quello che raccontava voleva che si
sentisse anche la fisicità dei luoghi e della
fatica. E però non è questo, non solo almeno, che da
al film la sua verità.
Si parla della Prima
guerra mondiale, nel centenario dell’inizio, ma
Olmi (sua la sceneggiatura mentre alla regia ha
collaborato Maurizio Zaccaro), che ha
lavorato ispirandosi al libro di Federico De
Roberto, agli archivi, alle lettere dei soldati, da quella
trincea scavata in mezzo ai boschi, e in mezzo al
nulla, allarga lo sguardo alla condizione umana, al nostro
contemporaneo fragile di violenza,
all’assurdità di ogni conflitto perché se si muore si
muore davvero e all’improvviso tutto quello per cui
accade appare privo di senso, svuotato di logica, negato come il
futuro di quel tempo fermo, che si declina soltanto al
presente: qui e ora.
Dopo non c’è più
nulla, non ci sono più i sogni, non ci sono più gli ideali,
non serve a niente la giustizia come commenta il
capitano prima di strapparsi i gradi, ribellandosi
a «ordini criminali» per salvare i suoi uomini,
e sparire così dal quadro. E non c’è nemmeno
dio, che non si è «scomodato» manco per il figlio morto
in croce, la morte si sconfigge restituendo alle vite
perdute una voce, una storia, una memoria.
Siamo in trincea, la neve ha permesso una tregua, e nonostante i malanni — è un’influenza balcanica dirà il maggiore ben vestito e nutrito arrivato lassù per portare nuovi ordini — gli uomini al fronte sono quasi contenti del freddo che rende tutto impossibile, anche la guerra. Finché non ritorna il soldato col rancio, le lettere da casa e insieme a lui il rombo dei cannoni …
Al comando vogliono
aprire un nuovo avamposto per le comunicazioni,
quello che c’è è stato intercettato dagli
austriaci che stanno preparando una grossa offensiva
lì a nordest. Il comando chiede al capitano di
mandare su, verso la cima, i suoi soldati, ma quei
pochi passi nella neve sarebbero letali, i cecchini
non lasciano scampo e la notte, perché vogliono che sia
fatto entro mezz’ora, è limpida di luna. Il primo muore,
il secondo anche, il terzo chiede di pisciare perché anche alle
bestie al macello si concede di farlo prima di morire.
Chi ha dato gli ordini
stava seduto in ufficio comodamente, a prendersi
le pallottole sono altri, poveracci che non hanno
scelta … È questa qui la guerra? E quando il
giovane tenentino prende il comando, i suoi studi e le
sue speranze in poco più di un’ora sembrano svanire
sotto le bombe come la sua giovinezza e quella di
tanti altri, chi muore e chi sopravviverà e quella
morte se la porterà dentro per sempre.
Sui bordi delle immagini
gelate (nella fotografia densa di Fabio Olmi), Olmi
illumina dunque quella Storia che stride con
l’«ufficiale» di celebrazioni e atti eroici,
e guarda invece nella vita (e nella morte) delle persone,
negli istanti della loro paura e nei desideri di felicità,
in quell’esercizio di sopravvivenza che per qualcuno
è riuscire ancora a stupirsi di fronte a un
albero di licheno immaginando le sue foglie dorate
nell’autunno.
Lui la guerra l’ha
conosciuta dai racconti del padre, c’era nei personaggi
dei Recuperanti, il suo film del 1970 di cui
ritroviamo il rimando al pastore Toni Lunardo con la sua
saggezza antica che «la guerra è una brutta bestia che
gira il mondo e non si ferma mai». Dentro all’avamposto
che di quel mondo sembra essere l’essenza, concentrata
nel silenzio assordante dell’attesa, Olmi ci parla anche
dell’Italia di cent’anni fa, contadina, e analfabeta,
di una guerra di classe che a morire mandava chi era
povero, di un Paese fatto da tante lingue che si mischiano in
uno spazio stretto dove l’unità diventa reciproca
compassione.
I suoi soldati
sembrano fantasmi, ombre che scivolano nel
biancore di una memoria che li ha offuscati, e che
all’improvviso invece trovano di nuovo vita dicendoci che
non è la «guerra di trincea» come si è definita
la Prima guerra mondiale, ma un massacro feroce in cui
il secolo appena nato perde anch’esso la spensieratezza
nel trauma che lo segnerà per sempre.
Il tempo si dilata, la
notte che è quando si svolgono i fatti diventa
infinita pur non essendoci nessun orizzonte, Olmi
non esce mai dalla trincea, come i soldati; il tempo
è un fruscio nel silenzio che permette di
intuire l’attacco, è una canzone napoletana
che da un momento di gioia, ma adesso anche quella tace perché
non si canta se il cuore non è contento. Cosa rimane
è dolore, corpi senza vita, la polvere che sembra
coprire già tutto prima che sia finito. Così che quel torneranno
i prati del titolo, più che un augurio appare come la
condanna, la consapevolezza dell’oblio.
Ma qui è anche la
sfida di Olmi, che con commuovente delicatezza ci
interroga, e interroga il mondo; nel corpo a corpo
diretto, modulato dal respiro del montaggio di Paolo
Cottignola e della musica di Paolo Fresu, con l’idea
di una Storia non ci sono risposte rassicuranti,
alle superfici piane lui predilige le pieghe,
i risvolti dei vissuti, di morti che hanno un volto, una
parola, e solo così ci possono dire cosa è una
guerra, col suo tempo immobile come la morte, a cui Olmi
lascia solo qualche piccolo punto di fuga di chi esce verso
l’ignoto dal quadro. Il tempo quegli uomini li ha
immobilizzati lì, il cinema ne riscrive la storia
viva in questa magnifica «lezione» di umanità.
Il Manifesto – 4
novembre 2014
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