“Lavoro
come un giardiniere o un vignaiolo. Ogni cosa ha bisogno di tempo. A
un certo momento devi sfoltire”. Parlava così di sé Joan Mirò. A
noi ha ricordato Leonardo Sciascia e la sua scrittura così simile
al modo in cui i nostri contadini potano gli ulivi. Una
ricerca di essenzialità che diventa poesia.
Lea Mattarella
Miró L’uomo che
sognava dipingendo mondi
«Mi è difficile parlare della mia pittura – dichiarava Joan Miró – perché essa è sempre nata in uno stato di allucinazione, provocato da uno choc di qualche tipo, oggettivo o soggettivo, del quale non sono affatto responsabile». Se questa è una dichiarazione di poetica ecco che diventa chiara la ragione per cui la mostra aperta a Mantova alle Fruttiere di Palazzo Te fino al 6 aprile curata da Elvira Cámara López, si chiami Miró, l’impulso creativo. Già nel titolo è chiarito proprio l’aspetto irrazionale dell’immaginario dell’artista catalano. Sono i surrealisti con cui entra in contatto molto presto a farlo innamorare del caso, del sogno, dell’assurdo. Così il suo mondo, che inizialmente era dominato da un realismo maniacale seppur bizzarro, si declina sempre più in maniera astratta e semplificata. La sua astrazione, però, ha sempre origine nel mondo che lo circonda.
«L’immobilità mi colpisce – ha affermato – questa bottiglia, questo bicchiere, una grossa pietra su una spiaggia deserta, queste sono cose immobili, ma scatenano un movimento tremendo nel mio animo». E poi ci sono il cielo, le costellazioni, la musica, la poesia, l’architettura, persino i rumori («i cavalli nelle campagne, le ruote di legno di carri che cigolano, il suono di passi, grida nella notte, grilli») che favoriscono la «tensione mentale», così la chiama lui, che lo porta alla creazione. Da tutto questo nasce uno dei racconti per immagini più amati del Novecento, fatto di segni leggeri, forme biomorfe, tracce, elementi fantastici e fiabeschi che alludono anche a un eros incantato e sognante. Un universo danzante in uno spazio che non ha paura del vuoto.
Questa esposizione vuole
rivelare alcuni aspetti fondamentali della sua pittura, esplorando la
produzione successiva al suo trasferimento a Palma di Maiorca nel
1956 (è qui che morirà nel 1983, era nato a Barcellona novant’anni
prima). Non è una retrospettiva, ma un viaggio in cui le soste sono
decise dalla vocazione di Miró verso alcuni aspetti del mondo che lo
incantano e da cui prendono vita immagini in divenire, forme
generative che sembrano esplodere oppure fiorire. Il nero è uno
degli aspetti della sua pittura di cui qui si indaga la forza, ma
anche la variazione delle sfumature. C’è quello che Miró chiama
il “nero avorio”, ma anche “il nero marrone”. Con questo
non-colore disegna arabeschi oppure immagina stesure che occupano
quasi interamente la tela, da cui si affacciano le sue forme
curvilinee, abitate da piccoli cerchi galleggianti.
Nello stesso tempo, l’esposizione indaga la potenza del suo gesto che si impone sulla superficie come una sciabolata ( Senza Titolo, 1968-1972) o come un ghirigoro, un segno che si arrotola ( Senza Titolo, 1967). Oppure sgocciola in piccoli rivoli che sembrano sgorgare da un elemento materico come ad esempio uno spago ( Senza titolo, 1973). Miró comincia molto presto a inserire materie alternative a quelle pittoriche tradizionali all’interno delle sue opere. Chiodi, peli, frammenti di linoleum, oggetti, cartacce, fili, spaghi, piume fanno la loro apparizione fin dalla fine degli anni Venti. Una sezione della mostra è dedicata proprio alla “Sperimentazione con i materiali”: ecco ancora legni, carta vetrata, giornali.
Ogni tipo di supporto
viene utilizzato per la sua espressività. E Miró sperimenta anche
l’arazzo. Bellissimi i due esempi intitolati La lucertola dalle
piume d’oro , colorati e vitali. Lo sgocciolamento libero e audace
sulla tela arriva da un’altra sua fascinazione che si declina in
senso personale. Si tratta dell’incontro con l’informale
americano e con Jackson Pollock. Anche se al movente sempre denso di
pathos e carico di energia dell’artista statunitense, contrappone
il gioco, l’ironia, un flusso di armonie, di sogni e non di incubi.
Il primo contatto con l’Espressionismo astratto americano è del 1947, anno di un viaggio negli Stati Uniti. L’amore per Pollock lo si vede nella sezione della mostra che esplora il suo modo di trattare i fondi che spesso Miró colora con liquidi di ogni tipo: l’acqua con cui ha pulito i pennelli, il tè, il caffè, succhi di fiore e di foglie. Tutto scola sulla tela dando vita a un mondo vibrante in cui ogni cosa succede davanti a te: scarabocchi, piccole deflagrazioni, l’andamento del colore che sfida le leggi di gravità. Ma non si potrebbe capire Miró senza aver chiara la sua necessità, che nel corso del tempo si fa sempre più prepotente, di semplificare. A indicargli questo cammino è l’arte giapponese.
Viaggia in Oriente nel
1966 e nel 1969, è amico del poeta Shuzo Takiguchi, predilige il
gesto, la calligrafia, la sintesi di un tratto che, quasi
inconsapevolmente, assume «la forma di una donna o di un uccello».
La figura femminile, i frammenti del suo corpo, i volatili, le teste,
il cielo stellato sono temi continuamente evocati in ciò che nasce
nel suo atelier. La mostra, tra l’altro, ricostruisce i suoi due
studi a Palma di Maiorca, lo Studio Sert e il Son Boter, ricoperto di
graffiti.
E non bisogna dimenticare
che per lui lo spazio in cui creava era assimilabile a un orto: «Qui
ci sono i carciofi. Laggiù le patate. Le foglie devono essere
tagliate in modo che le verdure possano crescere. A un certo momento
devi sfoltire. Lavoro come un giardiniere o un vignaiolo. Ogni cosa
ha bisogno di tempo». E ciò che conta in un quadro non è la sua
durata «ma se ha piantato semi che daranno vita ad altre cose». Il
mondo Miró ne contiene molti altri.
La Repubblica - 26 novembre 2014
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