Una recensione dell'ultimo libro di Marco Revelli
coglie bene il suo cuore: «L'obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse (sia) solo economica».
La lotta di classe dei ricchi
La curva di Laffer e la curva di Kuznets. Sono questi gli obiettivi centrali dell’analisi di Marco Revelli nel suo ultimo saggio breve sul tema della disuguaglianza, uscito tra gli Idòla di Laterza e che riprende e sviluppa un tema al centro dell’attenzione (Luciano Gallino, Mario Pianta, Joseph Stiglitz e ora anche Thomas Piketty) con un titolo ad effetto ma sempre replicato dalla realtà: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero! La curva di Laffer e quella di Kuznets: due favole economiche nate in epoche diverse (la prima, nel 1974 e – secondo una leggenda metropolitana probabilmente falsa ma capace di colpire l’immaginario collettivo - disegnata da Laffer su un tovagliolo di un noto ristorante di Washington; la seconda, risalente invece al 1955), ma usate come armi pesanti nella costruzione e nella propagazione dell’ideologia neoliberista. Ideologia.
Oppure e forse meglio (e oltre Revelli, ma con Foucault) come biopolitica/bioeconomia neoliberale (concetto che preferiamo), posto che l’obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse solo economica e a mobilitazione incessante e a flessibilità crescente (lavoratore, consumatore, poi imprenditore di se stesso, precario, nodo della rete), uccidendo il vecchio soggetto illuministico titolare di diritti e trasformandolo in oggetto economico, in merce di se stesso, in capitale umano, in nodo di un apparato. Una biopolitica neoliberista che ovviamente si è subito trasformata in tanatopolitica, perché doveva produrre, per raggiungere il proprio scopo la distruzione (appunto la morte) della società e della socialità, della democrazia politica ed economica, facendo della disuguaglianza il suo target da perseguire e dell’impoverimento la sua disciplina (ancora Foucault) capillare. Qualcosa di paradossale e di assolutamente irrazionale (oltre che di anti-moderno) – appunto: la produzione deliberata di disuguaglianza – ma che tuttavia ha conquistato il cuore di troppi economisti e l’opportunismo di troppi politici diventando spirito del tempo ottuso e ostinato ma capace di volare sull’intero globo.
Questa opzione disegualitaria, se non (scrive Revelli) “apertamente anti-egualitaria”, questa ideologia della disuguaglianza necessaria continua infatti ad essere parte integrante o base strutturante di quella “dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso”. Disuguaglianze crescenti e quindi e conseguentemente lotta di classe vinta dai ricchi contro il resto del mondo. Attraverso i piani diaggiustamento strutturale del Fondo monetario e della Banca mondiale, le politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro, la riduzione dei diritti sociali, oggi l’austerità europea e le riforme strutturali di Draghi, di Angela Merkel e di Matteo Renzi (strutturale: una parola magica per una pedagogia finalizzata alla strutturazione e alla costruzione - è una biopolitica e insieme una forma di costruttivismo - della società come mercato).
Quella uguaglianza che era “l’idea regolativa” o la meta da raggiungere nei trenta gloriosi o nell’età dell’oro del secolo breve secondo Hobsbawm, è stata così rovesciata nel perseguimento dell’obiettivo opposto e contrario, quello appunto della disuguaglianza. Una svolta copernicana, scrive Revelli, che ha avuto “come naturale complemento della supply-side economy – e sua copertura morale – la cosiddetta teoria del trickle-down (letteralmente, ‘gocciolamento)”, per cui se si favoriscono i soggetti che trainano lo sviluppo economico - i capitalisti, i grandi investitori, il potere finanziario – si genera spontaneamente un meccanismo virtuoso “il quale crea ricchezza aggiuntiva e in parte la ridistribuisce per una sorta di ‘forza di gravità’ naturale, senza che l’intervento dello Stato giunga a turbare o inceppare il meccanismo”.
Dunque, la curva di Laffer, favola di uno sconosciuto professore di una periferica business school e diventata poi icona della Reaganomics, sulla base di un ipotetico trade-off tra aliquote ed entrate fiscali. E la curva di Kuznets, secondo la quale un accelerato sviluppo economico produce sì, in una prima fase, disuguaglianze crescenti ma solo fino a un punto di svolta, superato il quale il sistema comincia invece a generare uguaglianza. Nata senza pretendere di avere un valore predittivo né prescrittivo, negli anni Settanta ne venne fatto invece un uso ideologico “al fine di neutralizzare le critiche nei confronti degli effetti disegualitari del modello di sviluppo patrocinato dai fautori della supply-side economy e di propagandare le spregiudicate politiche di imposizione del modello neoliberista ai paesi in via di sviluppo, nonostante gli effetti negativi sui loro equilibri sociali”. Una sua variante venne applicata anche ai temi ambientali, dove era l’inquinamento a scendere, dopo una iniziale fase di sua necessaria crescita.
Due curve-icona, due feticci neoliberisti che Revelli smonta – con una lunga sequenza di statistiche e di analisi empiriche e legando il tema dei redditi calanti ai debiti crescenti (soprattutto privati, come modo per disinnescare politicamente e socialmente l’impoverimento prodotto) – dimostrandone l’assoluta falsità. Le disuguaglianze sono cresciute. La crisi prodotta dal neoliberismo resta crisi e anche l’ambiente è messo sempre peggio, come dimostrato dall’ultimo Rapporto dell’Ipcc dell’Onu. Come falsa era la congettura del gocciolamento.
Citando Keynes e la sua metafora delle giraffe dal collo lungo, Revelli conclude che tale teoria ha semmai “giustificato e incentivato la tendenza bulimica dei colli lunghi”. Favorendo appunto l’avidità delle giraffe dai colli lungi, anzi lunghissimi: gli gnomi di Wall Street e i “velieri corsari dei mercati finanziari”, gli uomini di banca, gli hedge-fund, i conti off-shore (e ora potremmo aggiungere Juncker e il suo Lussemburgo-paradiso fiscale). Mentre le giraffe dal collo corto – che deve restare corto o farsi sempre più corto – continuano a generare una ricchezza “che viene sistematicamente risucchiata in alto, nel circuito da loro inattingibile di una finanza onnipervasiva, diventata principio di organizzazione principale dello stesso assetto produttivo globale e, insieme, proprietaria degli ambiti decisionali strategici, a cominciare da quello politico”.
Revelli, da par suo e con il suo stile, smonta dunque il paradigma (l’ideologia o la biopolitica/tanatopolitica) neoliberista. Ma questo paradigma resta saldamente al potere. Smontare il suo hardware è dunque necessario come necessario è non smettere mai di farlo, altrimenti la sua egemonia e il suo dominio resteranno tali per sempre. Senza dimenticare tuttavia di smontare anche il software (il pensiero unico, il senso comune dominante, l’accettazione del principio per cui non ci sarebbero alternative al capitalismo, la falsa individualizzazione offerta dal consumo, la condivisione in rete, i social network) che incessantemente e contro ogni evidenza, lo giustifica e lo legittima.
Sbilanciamoci.info, 11 novembre 2014
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