25 novembre 2014

SADE E IL VIZIO DELLA SCRITTURA


Donatien Alphonse François de Sade testimone inflessibile  delle contraddizioni del suo tempo e dei vizi della modernità. Eccessivo anche per i giacobini, il suo lucido delirio non ha mai cessato di ispirare artisti, poeti e filosofi.

Daniela Gallingani
Sade, il vizio della scrittura

In occasione del bicentenario della morte di Sade, avvenuta il 2 dicembre 1814, pare giunto il momento di sgombrare il campo dai pregiudizi che hanno condizionato questi due secoli di interpretazione della sua opera. In particolare, quello relativo al suo ruolo di «rivelatore ideologico» di dinamiche culturali e di processi storici di matrici diverse e spesso contrastanti.

In una simile prospettiva, si stanno moltiplicando in tutta Europa mostre, convegni, seminari, in un rituale commemorativo previsto per i grandi scrittori.

E finalmente sono in prevalenza la scrittura di Sade e la genesi delle sue opere al centro di questi eventi, in una continuità virtuale con la rivoluzione iniziata nel 1947 con la pubblicazione di Jean-Jacques Pauvert dell'Histoire de Juliette, e che raggiungerà l'apice nel 1990, con l'edizione del l'opera completa nella Bibliothèque de la Pléiade, a cura da Michel Delon.

Furono, in effetti, l'Affaire d'Arcueil (1768) e l'Affaire de Marseille (1772), che l'avevano visto protagonista di orge sfrenate e di disdicevoli violenze compiute su giovani donne, servi e nobili a un tempo, a fare da subito di Sade l'immagine stessa del male, sì da renderlo appunto, via via, l'ispiratore del Terrore e il difensore del sensualismo più sfrenato, giungendo, sotto il Consolato, a essere strumentalizzato sia dai monarchici che dai repubblicani.



Persino nel carcere di Charenton dove venne rinchiuso, fu ritenuto colpevole di diffondere, con le rappresentazioni teatrali che organizzava, una perniciosa contaminazione morale che unicamente il carcere appunto, si auspicava, avrebbe potuto ostacolare per sempre.

Paradossalmente, soltanto quando si incominciò a declinare il sadismo e il masochismo dal punto di vista medico e patologico, Sade iniziò ad apparire più colui che aveva osato «mettere in scena» il sadismo che non il sadico per eccellenza. Ma anche il Novecento non si liberò del tutto dai condizionamenti ideologici che avevano investito da sempre l'opera di Sade. Da Apollinaire a Paulhan fino ai Surrealisti, Sade è la «vittima assoluta», il prototipo del rivoluzionario radicale e trasgressivo che avrebbe determinato la presa della Bastiglia, la vittima innocente dei poteri che si erano alternati tra Sette e Ottocento, il paladino di un immaginario erotico che aveva in Justine la donna nuova, colei che «possedeva le ali per rinnovare l'universo intero».

In parallelo, poi, con l'affievolirsi degli estremismi avanguardisti del primo Novecento, Sade ritrovò una mitizzazione capace di esprimere a pieno la negatività dei tempi, che lo dipingeva come il responsabile della morte dell'individuo, dei suoi valori e dei suoi principi.

Occorreva prendere Sade sul serio, proclamavano i "nouveaux philosophes", da Klossowski a Bataille e a Lacan, da Foucault al gruppo di «Tel Quel», perché Sade – affermavano – «ci concerne tutti e appartiene alla modernità del XX secolo». Ancora una volta, però, si confondeva l'«uomo Sade» con l'«uomo sadiano», un mostro concettuale che emigrava trasversalmente dalla filosofia, alla storia, dall'estetica alla politica, indagato mediante le categorie della follia, della perversione, del desiderio e che faceva assurgere il sadismo a potente strumento di analisi della società postmoderna, dominata dal potere economico e dall'alienazione.

Così, di nuovo, è la specificità della scrittura di Sade che continua a essere trascurata, insieme alla sua valenza autorale. Uno scrittore, Sade che, al contrario – e ora finalmente viene sottolineato – corregge più volte i suoi manoscritti; si nutre della lettura ossessiva dei testi più disparati; si cimenta in un esercizio sfrenato di riappropriazione, e talora di plagio, di ogni genere letterario, dalla novella al dialogo filosofico, dal romanzo epistolare al pamphlet, spesso distorcendoli, trasformandoli e quasi brutalizzandoli a suo piacimento, come avviene anche per la Storia, che è implacabilmente sottomessa, quasi malmenata dalla scrittura sadiana.



La retorica classica, alla base dell'architettura delle Cent Vingt Iournées, i finti parallelismi di Aline et Valcour, i molteplici punti di vista che si alternano nella costruzione del Voyage en Italie, o i riti culinari che duplicano le turpi azioni dei convitati del Castello di Silling, sono impietosamente rimanipolati per spostare continuamente il centro della narrazione e impedirne una conclusione e una interpretazione univoche.

Eppure, l'enorme mise en scène ordita da Sade in nome dell'eccesso e dell'iperbole sembrano paradossalmente scontrarsi con un limite, una sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato, rappresentato via via da un castello, da un sotterraneo, da una prigione, comunque da uno spazio chiuso e circolare in cui tutto diventa lecito, e nel quale un lettore desideroso di essere soddisfatto da ogni dettaglio, viene implacabilmente convocato, con la parola e con lo sguardo.

I limiti della Rivoluzione, dello Stato, della Religione e della Ragione, si traducono in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e denuncia le rovine di un mondo immobile nella sua inadeguatezza. Immobile come il Portrait imaginaire di Man Ray, in cui il viso di pietra di Sade ci restituisce il progetto implacabile di un testimone inflessibile e insopportabile delle contraddizioni del suo tempo e dei vizi della modernità.


Il Sole 24 ore – 23 novembre 2014

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