Ieri sera a Palermo ho visto il nuovo film dei
fratelli Dardenne, un’incursione nell’Europa selvaggiamente liberista di oggi dove politici e imprenditori dividono i lavoratori e questi ultimi diventano tra loro nemici.
Cristina
Piccino
Due
giorni, una notte per reiventare la lotta
Cosa
farei al loro posto, e cosa farei al posto di Sandra?».
Questa domanda, e il desiderio di farla
risuonare anche nella testa degli spettatori è la
scommessa da cui sono partiti i fratelli
Dardenne, Jean-Pierre e Luc per il loro nuovo film, che
i registi belgi, già Palma d’oro per Rosetta
e L’enfant definiscono come una sorta di favola
moderna meno disperata di altre storie narrate in
passato, perché la realtà che ci circonda, dicono,
lo è già fin troppo.
Al
centro di Deux jours, une nuit, Due giorni, una notte,
c’è Sandra operaia madre di due bambini che
rientrata al lavoro dopo un congedo per depressione
rischia di essere licenziata. Il padrone dell’impresa infatti
ha messo gli altri operai di fronte a una scelta: ricevere
il premio di produzione di 1000 euro o rinunciarvi
e permettere alla donna di restare. È chiaramente
una trappola, quei soldi fanno comodo a tutti, ci sono
i figli, la moglie o il marito in disoccupazione,
la casa da sistemare, i mobili nuovi da comprare,problemi
a cui si aggiungono le minacce del caporeparto
contro di lei: basterebbe molto meno a condannarla.
Prima
travolta dalla disperazione la donna prova però
a reagire. Riesce a ottenere una nuova
votazione, stavolta segreta, e ha davanti il fine
settimana per convincere gli altri sedici operai
a sostenerla. Il viso stanco, i capelli tirati, lo
Xanax in borsa che manda giù in dosi pesanti, Sandra cerca di
non cedere alla fragilità del suo pianto irrefrenabile,
e bussa alle porte degli altri, piombando nella loro
domenica di partite a calcetto o lavoretti
extra al nero guardata con sospetto e rabbiosa
indifferenza, spesso respinta, talvolta accolta.
Dietro a quegli usci trova il Belgio (Europa) di
una piccolissima classe media impoverita,
resa cattiva dalla crisi e dai ricatti del nuovo/vecchio
capitalismo. «Mi sento come una mendicante,
chiedo la pietà» sussurra al marito che le sta a fianco
in questa sua battaglia.
Sandra
è sullo schermo Marion Cotillard che i Dardenne
hanno voluto fortemente, anzi senza la quale dicono non
avrebbero girato il film, e questa è l’altra
grande novità per i registi che fin qui non hanno mai
lavorato come una star hollywodiana come lo
è lei.
Per spogliarla delle sue abitudini attoriali l’hanno sottoposta a molte prove, e a una lunga preparazione che riuscisse a fondarla, occhiaie e senza trucco al loro universo, permettendole di entrare in sintonia col taglio «vero» dei loro attori — tra cui l’abituale Fabrizio Rongione, e in un cameo l’amato Olivier Gourmet.Eppure lo stridore resta, e non ci credi mai davvero in lei, nelle sue canottierine, nella frenesia dei gesti che appare fin troppo sottolineata smorzando la forza del racconto. O almeno ingabbiandolo, tanto che anche il pedinamento «ravvicinato» della macchina da presa risulta a tratti distante, o persino programmatico.
È
l’Europa che cercano i Dardenne, nelle sue
pieghe più sgradevoli di umiliazione
quotidiana, e di assuefazione alla perdita
di ogni diritto. Un tempo gli operai al padrone tracotante
e al suo braccio armato li avrebbero messi con le
spalle al muro, avrebbero occupato la fabbrica
e bloccato tutto finché la minaccia contro
uno di loro non fosse rientrata. Ma adesso non si può, la crisi
finanziaria ha azzerato la resistenza,
delocalizzazione, contratti a termine,
la minaccia cinese, il posto di lavoro è in pericolo
costante, e la lotta per sopravvivere non permette
cedimenti o complicità.
Come
nel film precedente, Lorna, nel quale la vita resa
forsennata catena di montaggio rendeva la
protagonista folle, anche qui Sandra
impazzisce per i modi di produzione
diventando il target ideale. Farla fuori è semplice,
come con tutti gli anelli deboli, migranti, donne che il complicato
equilibrio familiare rende ancora più attaccabili.
Siamo in una specie di Medioevo o in un nuovo incipit
del capitalismo che fagocitando se stesso ha
conquistato una nuoca forza. Il corpo venduto,
massacrato dei lavoratori sotto qualsiasi
forma, fabbrica o schiavitù dello sfruttamento
clandestino, ultima frontiera diffusa (Lorna),
messo sotto ricatto di un precariato che lo fa ammalare,
che lo consuma coi suoi sentimenti di incertezza.
Neri
racconti morali dei Dardenne non c’è però mai una
retorica consolatoria, e nemmeno
sentimentalismi moderati; la cifra
geometrica della loro narrazione ci porta subito
tra le macerie anche morali di quella che è stata la
coscienza di classe, e la sua composizione, nel
sentimento perduto di solidarietà tra gli
individui che condividono una condizione.
Questi operai sono ostili tra loro, non si conoscono
e non sanno nulla l’uno dell’altro. Sandra si affanna
a cercarne in rete o sulle pagine gialle gli
indirizzi, ne scopre i dolori, i problemi
anche se piegata dal suo dramma.
L’ inquadratura non esce mai da qui, dal ritmo di questa ricerca seriale, gesti di ansia ripetuti all’infinito di un tempo che sembra allungarsi nella sua implosione. Intorno il paesaggio senza centro, anonimo, delle nuove periferie di cui cogliamo frammenti dal bus che porta la donna da una casa all’altra, luoghi ben congegnati per non incontrarsi, per produrre solitudine che indebolisce. Sindacati e quant’altro non si sono nel film, non se ne parla neppure, siamo nel tempo post della politica, ognuno di quei lavoratori è solo.
Solidarietà. Come
ritrovarla dunque finito il tempo delle grandi utopie?
Resta lo spazio dell’individuo, di un frammento che può
scuotere qualcosa. I Dardenne non giudicano
e non fanno vittime, Sandra non lo è e non sono
dei cattivi gli altri. La loro è una visione
concretamente utopica, dove la solidarietà
non è una dote innata ma si costruisce, da lì si può
ripartire con una diversa forza resistente.
Il
manifesto – 18 novembre 2014
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