Un'intervista inedita del 1979
Leonardo Sciascia parla de Il giorno della civetta con Mr. Baldwin
da Repubblica del 23 11 2014
Leonardo Sciascia, il titolo del suo libro, Il giorno della civetta , risulta un po’ strano.
Lo storico Mack Smith si è chiesto se gli italiani stessi possano
capirlo, anche se l’epigrafe è tratta dall’ Enrico V-I. Come spiega lei
quel titolo?
«Quando uno ha difficoltà a trovare un titolo può aprire a caso o la
Bibbia o Shakespeare, e lo trova. Io ho fatto l’operazione con
Shakespeare ed è venuta fuori questa frase: “come la civetta quando il
giorno compare”».
«La civetta è un animale notturno, invece questa specie di società
segreta che è la mafia, una società diciamo notturna, in Sicilia agisce
di giorno».
Il titolo è quindi una chiave di lettura? Un titolo importante?
«I titoli sono sempre importanti, e questo mi pare che dia anche
misteriosamente e ambiguamente il senso del libro. La civetta, animale
notturno, diventa animale diurno, in Sicilia: una metafora. Il giorno
della civetta coglie la mafia nel trapasso, da mafia di campagna, mafia
rurale, a mafia urbana. È stato scritto nel momento in cui la mafia
attraversava questa evoluzione. Ora l’evoluzione c’è già stata: il tipo
don Mariano Arena-Genco Russo, non esiste più. Oggi il capomafia è una
specie di burocrate».
Se lei dovesse aggiungere qualcosa, diciannove anni dopo aver scritto il libro, cosa aggiungerebbe?
«Non aggiungerei nulla, non cambierei assolutamente nulla di quello che
ho scritto allora, perché la mafia esiste ancora con la stessa struttura
di allora: anzi il fenomeno si è allargato ed è arrivato al Nord
Italia. Il sistema mafioso ormai vige in tutta Italia».
Non c’era allora la speranza che le cose, in Sicilia, fossero cambiate dopo il tentativo di repressione da parte di Mori?
«Sotto il fascismo la repressione di Mori funzionò perché due mafie non
potevano convivere. Il fascismo è una specie di mafia, una mafia
“grande” non poteva tollerare la minore. Con la caduta del fascismo e
con l’arrivo degli americani, la mafia è risorta».
La mafia riuscirà a sopravvivere?
«Mah, fino ad oggi, sopravvive».
Nelle sue opere lei insiste sulla storia, e mette molta cura nel
verificare i fatti attraverso i documenti del tempo. La storia come tema
non è ancora presente nel Giorno della civetta.
«Non è un libro propriamente storico. Però è un libro in cui si
raccoglie tanta storia, insomma. È un presente che è spiegato da tanto
passato. Si muove sulla cronaca, direi. Però anche la cronaca è
destinata a diventare storia. La cronaca è storia in potenza, in fieri.
Domani sarà storia la cronaca di oggi».
Pensa ai riferimenti al fascismo, al prefetto Mori, al separatismo e a ciò che rappresentava a quel tempo?
«Sì, ci sono riferimenti alla storia recente della Sicilia, che va dal
fascismo al dopoguerra, al rinascere dei partiti, all’aggregazione,
dentro questi partiti, della mafia, che prima era stata separatista, e
poi è diventata democristiana. E la mafia che prima puntò sul
separatismo e poi puntò sulla Democrazia cristiana, capì che l’avvenire
sarebbe stato della Dc, del partito dei cattolici. Dapprima la mafia,
con la protezione degli Stati Uniti, pensò che la Sicilia si potesse
separare dall’Italia e quindi fu separatista. Quando invece, dopo
l’arresto dei due leader del separatismo, la mafia si accorse che lo
Stato italiano viveva ancora, e che era il vecchio Stato unitario,
allora passò alla Dc».
Lei scrive che la Sicilia “è tutta una fantastica dimensione: e come ci
si può star dentro senza fantasia”. Quale senso hanno le parole fantasia
e fantastico legate alla sua isola?
«Nel senso che è una realtà difficile ad afferrarsi, difficile a porsi
in termini reali. C’è come una follia e ne ha parlato anche Lampedusa,
di questa follia. La Sicilia è inverosimile, in un certo senso: è vera,
ma è inverosimile».
Ma di quali verifiche dispone lei?
«Nella vita stessa siciliana, nel modo come si è svolta la stessa storia
siciliana per secoli c’è dell’inverosimiglianza. È inverosimile la
sopravvivenza di questo popolo, con tutto quello che ha subito. Eppure
sopravvive, è sempre vivo».
È per questo che ha scelto di contrapporre il capitano Bellodi ai vari rappresentanti della mafia?
«Sì, Bellodi rappresenta per me il simbolo dell’Italia che esce dal
fascismo con una coscienza antifascista, con la coscienza di volersi
rinnovare, rappresenta il simbolo della Resistenza».
E perché Bellodi è un carabiniere dell’Italia settentrionale?
«Era un’idea, un’idea di Parma, molto antifascista, molto resistenziale. Non è un personaggio, è un’idea».
Lei condivide l’idea che alla fine niente si può cambiare?
«Difatti non è cambiato niente dal 1961 ad oggi. Nel 1973 hanno
pubblicato gli atti della Commissione parlamentare antimafia che sono un
esercizio di filologia».
Il giorno della civetta è un giallo?
«Sì, e l’adopero naturalmente questa tecnica. Amo uno scrittore come
Graham Greene perché adopera sempre questa tecnica del giallo, anche
quando parla di drammi interiori. Ma l’adopera anche Dostoevskij.
Praticamente tutti gli scrittori che si fanno leggere hanno, in certo
modo, adottato la tecnica del giallo. Io l’ho fatto sempre».
È anche un giallo impossibile?
«Lei vuol dire un giallo senza soluzione? Poiché il giallo comporta
sempre una soluzione. Invece nei miei non ce n’è. Sul piano
dell’intelletto sono soddisfacenti e insoddisfacenti al tempo stesso. Lì
ci vuole anche un po’ di ironia, perché il giallo, in effetti, quando
si arriva alla fine dà soddisfazione. Però al tempo stesso si rimane
insoddisfatti perché cessa con la soluzione l’interesse: è finito. Il
giallo senza soluzione poi è insoddisfacente del tutto perché ci lascia
nel dubbio. Come andrà a finire? Però questo è un libro che serve ancora
per il fatto stesso che non esiste soluzione».
Nel Giorno della civetta chi ha commesso il delitto lo si sa abbastanza
presto. Continuare il racconto è una questione di tecnica, quindi?
«Ho continuato con la tecnica del poliziesco. Solo che non finisce con
la soddisfazione di assicurare il colpevole alla giustizia».
In questo senso si potrebbe parlare di pessimismo?
«Sì, questa è una forma di pessimismo. Il giallo si segue con interesse
perché si vuole sapere come va a finire. Nei gialli – diciamo così – che
scrivo io non si va a finire».
Dalla descrizione dell’ambiente locale si può allargare il discorso del potere alla corruzione nazionale o internazionale?
«In quel momento a me interessava dare una rappresentazione della mafia
siciliana per un motivo di polemica, di denuncia, di dovere civile, da
cittadino siciliano che vuole reagire a questo fenomeno e ne fa una
denuncia. Ma con gli anni questo è diventato metafora del potere. Per me
è difficile dire cosa io intendessi, diciannove anni fa, quando lo
scrissi, direi al di fuori della denuncia. Ma ora vedo che il libro può
essere letto in una chiave in cui si può riconoscere un francese, un
inglese, e magari un americano. Allora, per me quello che era un
problema limitato alla realtà siciliana con gli anni è diventato
un’altra cosa. Questa è la sorte di tutti i libri. Per parlare di un
grande esempio credo che effettivamente Cervantes quando scrisse il Don
Chisciotte intendesse fare la satira di questo mondo che si infatuava
delle storie cavalleresche. Ma con gli anni quello è diventato il libro
dell’anima spagnola, ed è diventato una favola, un emblema di un mondo
ideale. Il chisciottismo è diventato come una persecuzione, una ricerca
di idealità. Ho fatto il paragone per dire che cosa è un libro, e che
cosa diventa al di là delle intenzioni dell’autore».
CONCETTO VECCHIO
«LEI È LO SCRITTORE JAMES BALDWIN, vero?».
«Veramente no, sono Tom Baldwin, insegno italiano a Londra».
Tutto ebbe inizio con un equivoco tra Leonardo Sciascia e il giovane
docente precario con cui durava un epistolario da quasi tre anni.
«Non fa niente», tagliò corto Sciascia. «Tra qualche giorno sarò a
Parigi: perché non mi raggiunge lì, così finalmente ci conosciamo?».
Baldwin a fatica mise insieme i soldi per il volo, supplicò un’amica di
ospitarlo, e un sabato pomeriggio, il 19 maggio 1979, se lo ritrovò
davanti lo scrittore-mito. Voleva intervistarlo. «Venga a trovarmi
domani in albergo, al Vernet». L’incontro durò oltre tre ore, il tempo
di quattro musicassette da quarantacinque minuti. Ora, nel
venticinquesimo anniversario della morte di Sciascia, scomparso il 20
novembre 1989, questo dialogo mai pubblicato emerge dai cassetti di
Baldwin.
Una riflessione su Il giorno della civetta, il romanzo più letto di
Sciascia; sulla Sicilia, sulla mafia, sul destino che i libri importanti
assumono oltre le intenzioni del loro autore. Baldwin trema, quando
rispolvera quei giorni lontani. «Scoprii Sciascia nel 1976, lo leggevo
ai miei studenti, un giorno gli scrissi una lettera, arrivò la sua
risposta, di tanto in tanto ci scambiavamo delle impressioni. Nel 1978
andai appositamente in Sicilia con la mia futura moglie, mi spinsi fino a
Racalmuto, e poi in viale Scaduto, a Palermo, dove Leonardo abitava, ma
sempre mi mancò il coraggio di cercarlo. Avevo paura di fargli le
domande sbagliate. Lui a un certo punto mi diede il suo numero di
telefono, era quello dell’ufficio di Sellerio, “mi trova qui ogni
pomeriggio”. Per iscritto gli espressi il desiderio di conoscerlo,
volevo pubblicare Il Giorno della civetta in Inghilterra, un’edizione
italiana per studenti, corredata da un’intervista all’autore. Suggerii
al direttore dell’Istituto italiano di cultura di Londra d’invitarlo per
una conferenza, ma mi rispose che lo stavo compromettendo. Una sera
arrivò la sua telefonata: mi invitava a Parigi».
Il sabato lo trascorse all’università , dove si teneva un seminario. Lo
scrittore che aveva fatto conoscere la mafia al mondo sedeva al tavolo
dei relatori, certi studiosi gli ponevano domande lunghe dieci minuti a
cui talvolta Sciascia rispondeva con un laconico «può darsi».
All’indomani il portiere dell’hotel pregò Baldwin di accomodarsi in una
stanza e qua rimase in paziente attesa: «Dall’altra parte del muro
sentivo un uomo tossire. Dopo un’ora capii che ero finito nella stanza
sbagliata. Quando mi vide estrarre il mangianastri mi disse bonario: “Un
buon giornalista non ha bisogno di un registratore”. Ma io non ero un
giornalista». Sciascia si rivelò diverso da come Tom se l’era
immaginato. «Non aveva le albagie del grande scrittore, era rimasto il
maestro di Regalpetra che pazientemente spiegava. Mi sciolsi. Fumava
senza requie.
La stanza era avvolta in una nuvola spessa di fumo. Mi domandò: “Lei ha impegni per pranzo?”. Non ne avevo.
“Andiamo al Maxim’s, ci andava Hemingway”. Mi toccai i pochi spiccioli
che serbavo in tasca: nove franchi, bastavano per un hot dog. Sciascia
pagò per tutti».
Nel maggio del 1979 Sciascia è alla vigilia della sua elezione al Parlamento europeo e al parlamento italiano.
Ha da poco pubblicato con Sellerio L’Affaire Moro, vendendo subito centoventimila copie, e rotto con il Pci.
«Voglio andare a vedere certe facce» annuncia a Baldwin. Il docente
torna a casa, febbrilmente sbobina tutto il dialogo, riempiendo decine e
decine di pagine, ma il libro per studenti inglesi, per complicate
ragioni, non vedrà mai la luce. Una parte di quel colloquio – sempre la
stessa – venne poi pubblicata sul magazine dell’Association of Teachers
of Italian Journal nel 1980, e quindi ripresa dal periodico Rassegna
siciliana di storia e cultura ( agosto 1998), dal bimestrale Lo stato
delle cose ( dicembre 1998), e nel 2011 dal sito Contessa entellina, in
sette puntate. Ma Baldwin il capitolo su Il giorno della civetta l’ha
tenuto gelosamente coperto per tutti questi anni, nella speranza, prima o
poi, di una pubblicazione. Ora, grazie alla mediazione del nipote di
Sciascia, Vito Catalano, anch’egli scrittore, questo documento vede
finalmente la luce.
Nessun commento:
Posta un commento