26 novembre 2014

LA RISCOPERTA DI DANILO DOLCI

Danilo nel suo tavolo di lavoro a Partinico


Danilo e Vincenzina davanti al Tribunale di Palermo



Questa mattina riprendo dal blog dell'amico Giuseppe Casarrubea una bella recensione di due libri pubblicati recentemente sull'opera di Danilo Dolci

Fare i conti con Danilo
Giuseppe Nobile

    Accanto alla ri-edizione, voluta da Sellerio a partire dal 2008, delle più importanti pubblicazioni che segnarono le varie tappe dell’azione di Dolci in Sicilia, è data ora l’opportunità ai lettori di fruire di due ricostruzioni delle vicende di quegli anni che uniscono il rigore dell’analisi alla viva sensibilità dei testimoni diretti. 
       Cipolla e Casarrubea sono infatti in primo luogo due educatori di Partinico che, per una parte non piccola della loro esistenza hanno dovuto “fare i conti” con il ciclone Danilo, venuto ad animare, come un sasso in uno stagno, la vita civile di un piccolo centro e ad innestarvi l’azione non violenta per lo sviluppo. Per la chiarezza del racconto e per i riferimenti culturali che li animano, i due testi gettano una luce inedita su un ciclo di trasformazioni sociali e su un percorso intellettuale tuttora difficili da definire. Più ancora, sollecitano a rivedere quell’esperienza negli interlocutori che essa ebbe, ricostruendo il clima culturale di un’epoca, e ad interrogarsi sui suoi esiti, fino a ricavarne indicazioni per il tempo presente.

       In uno sforzo di sintesi, possiamo riferire la parabola dolciana a tre fasi, lungo i tre decenni che seguono il suo arrivo in Sicilia nel ’52. Gli anni ’50 sono stati classificati da diversi autori come il periodo “attendista” dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno. La “Cassa” e la riforma agraria non operano come strumenti di sviluppo autonomo ma con fini assistenziali e l’obiettivo di congelare al Sud la manodopera che non poteva essere ancora assorbita dal Nord. I flussi migratori sono regolari e moderati, le sinistre isolate e le lotte sociali represse con violenza. 

       Danilo Dolci, originario di Trieste, si stabilisce a Trappeto, dove il padre ferroviere aveva prestato servizio nel 1940-42, per avviare la sua azione di protesta e per ribaltare la logica poliziesca: la zona ha visto diffondersi il banditismo come risposta disperata alla miseria del dopoguerra, ma lo Stato è intervenuto per reprimere piuttosto che per diffondere l’istruzione e, soprattutto, per creare lavoro. Da qui partono i libri-denuncia e i digiuni e si chiamano a raccolta i contributi tecnici e intellettuali che, attraverso convegni e pubblicazioni, veicolano i primi piani di sviluppo.
        Alla fine degli anni ’50 e nei primi ‘60, in tempi di “miracolo economico”, il flusso migratorio si fa impetuoso verso Germania, Svizzera e Nord Italia. La mobilizzazione della forza lavoro è la prova che lo sviluppo industriale sta avvenendo altrove e che i movimenti di lotta promossi attorno alle proposte di Dolci (e del suo “Centro Studi per la piena occupazione”) ottengono risposte parziali e tardive. C’è di più: opere pubbliche importanti come la diga Jato o l’invaso Garcia, pur avviate dopo dure lotte, sono prese di mira dagli interessi mafiosi che tendono a riprodurre, nelle nuove dinamiche economiche, i vecchi assetti di potere. Si apre così la partita della qualità sociale dello sviluppo e la fase di più aperto scontro politico con le rappresentanze istituzionali colluse che Danilo Dolci conduce in vario modo, sulla base di una vasta documentazione raccolta dai suoi collaboratori, pure con deposizioni davanti alla Commissione Antimafia. Ma le denunce rimangono inascoltate: la DC di allora fa quadrato, anche se cessano gli incarichi governativi a Mattarella Bernardo, mentre dalle querele scaturisce una lunga vicenda legale che si conclude, dopo quasi dieci anni, con la condanna di Danilo.
       L’Italia nel frattempo è cambiata. Sul fiume Jato si sta ultimando la diga e a Trappeto è sorta la nuova struttura di “Borgo di Dio”, mentre le rimesse degli emigrati, le prime misure di welfare e la scolarizzazione di massa attivano nuovi consumi e trasformano gli stili di vita. Quando, nel ’68, il terremoto del Belice mette in ginocchio quest’area della Sicilia occidentale e l’intervento dello Stato sconta ritardi e sprechi, le iniziative di Dolci, che sempre si sono accortamente affidate all’informazione democratica come mezzo di diffusione, hanno un guizzo innovativo che nel marzo del 1970 porta alla realizzazione della prima radio libera in spregio al monopolio RAI. Per alcune ore, prima dell’irruzione della polizia e del sequestro delle apparecchiature, “Radio Sicilia Libera” lancia da Partinico comunicati SOS, testimonianze dai paesi terremotati e messaggi di solidarietà di noti intellettuali. E’ l’ultima azione pubblica eclatante che viene promossa dal “Centro studi”, ma lascia un testimone importante nelle mani dei giovani dei movimenti sociali del travagliato decennio che si apre.
       E si apre anche in questo periodo la terza fase della parabola di Danilo, quella più pedagogica, che si svolge attorno al “Centro educativo” di Mirto. Ai piedi di una collina al limite del territorio comunale di Partinico, vengono progettati e realizzati un edificio e un modello di scuola dell’infanzia in cui, a partire dall’anno 1974, si sperimenta una didattica a diretto contatto con la natura e la cultura materiale locale, con il coinvolgimento delle famiglie, la testimonianza degli anziani e la loro collaborazione in appositi laboratori. Ma la struttura, sorta grazie ai fondi raccolti da Dolci, si scontra con difficoltà di gestione che la portano prima a sospendere le attività e poi a trasformarsi in scuola statale di sperimentazione, fino alla definitiva acquisizione, nel 1987, da parte del Comune di Partinico. Non si esaurisce, per questo, il confronto con i giovani e la scuola: Danilo continua fino all’ultimo (1997), nell’attività dei laboratori “maieutici” dove riporta la sua filosofia di vita comunitaria e dove studenti e insegnanti vengono coinvolti in percorsi di reciprocità della comunicazione come base di condivisione delle esperienze e della conoscenza, in contrapposizione all’autoritarismo dell’usuale trasmissione del sapere.
       Il libro di Giuseppe Cipolla è un resoconto puntuale ed organico di queste vicende. La prima parte, dedicata al “promotore della società civile”, si sofferma sulle varie tappe della lotta per lo sviluppo, rilevandone i tratti originali specifici – il metodo non violento, l’inchiesta sociale partecipata, la programmazione dal basso -, ma anche la reazione delle autorità, i rapporti con la sinistra e il giudizio di taluni intellettuali. Sono riportate peraltro, con riferimento a questi ultimi, nel panorama ricchissimo degli estimatori, le notazioni di Renda sul “declino” delle iniziative di Dolci o le critiche che Alberto Asor Rosa muove alla natura “populista” dei suoi scritti più letterari. Di entrambi Cipolla rileva la conoscenza volutamente parziale dei fatti. Più che di declino si dovrebbe infatti parlare del deliberato passaggio, che Danilo gestisce consapevolmente, dall’uno all’altro dei terreni di ricerca, nelle tre fasi prima descritte, in corrispondenza di oggettivi cambiamenti di contesto. Il tratto populista è poi smentito dai riferimenti sociologici e antropologici che corredano le opere di Danilo e che non sono affatto riconducibili ad una visione paternalistica od estetica della realtà sociale osservata. Ma la dimensione più propriamente culturale dell’opera di Dolci è affrontata da Cipolla nella seconda parte del volume dove, partendo dall’evidente versatilità dell’autore, si analizzano le parole chiave e i riferimenti del suo agire sociale, i presupposti filosofici di un’utopia fondata sul “dover essere” e su obiettivi di cambiamento da perseguire pragmaticamente, più che su un significato ultimo della storia, nonché il pensiero educativo realizzato nella sperimentazione del Centro di Mirto. Nelle conclusioni, le intuizioni di Danilo sono poste in relazione con gli sviluppi positivi che l’applicazione delle nuove tecnologie ai processi di partecipazione democratica rende oggi possibili, a significare la persistenza di esigenze sociali insopprimibili.
        Il testo di Giuseppe Casarrubea, suddiviso in due parti dal titolo evocativo (“Arrivano i polentoni” e “Piantare uomini”), è arricchito dalla commistione con flash autobiografici che più volte ripropongono l’intreccio fra il percorso formativo dell’autore e le diverse fasi dell’esperienza dolciana, fino a configurarne il carattere di una “resa dei conti” con il maestro. Così in realtà non è, se si considerano due elementi di elaborazione che costituiscono, nel lavoro di Casarrubea, un percorso di ricerca autonoma: l’essere orfano del padre, anch’egli Giuseppe, vittima dell’assalto mafioso alla sezione del PCI di Partinico del 22 giugno 1947, con l’inevitabile condizionamento che ciò comporta per l’attività di uno studioso di storia; l’avere da tempo intrapreso, per le sue pubblicazioni, l’attività di acquisizione e divulgazione di materiali desecretati, provenienti dagli archivi dei servizi di informazione di diversi stati. Questi presupposti hanno fatto sì che l’indagine si sia avvalsa, ad esempio, della documentazione di prima mano riguardante i movimenti di resistenza in Slovenia durante la giovinezza di Dolci, o delle informazioni sui rapporti fra la chiesa siciliana e gli alleati riguardo alla lotta al comunismo del dopoguerra e sul ruolo che vi ebbe il Cardinale Ruffini, inviato da Papa Pacelli. Inoltre, per la particolare sensibilità al tema, l’autore rende un quadro eloquente ed efficace del sindacalismo di quegli anni, del sacrificio dei capi-lega e delle condizioni di vita nella Sicilia dei primi anni ’50, non semplicemente tratto dai dati elaborati nelle ricerche e nei libri di Danilo, ma riportato direttamente da chi era oggetto di osservazione del sociologo, con i vivi colori della memoria vissuta e con la chiara percezione di una condizione personale d’ingiustizia subita.
       A parte la descrizione delle iniziative del primo periodo, il pregio di un’accurata documentazione e del costante riferimento al territorio, permangono comunque in tutta la narrazione. Nel libro è riportata, in allegato, l’intensa e corposa deposizione rilasciata da Dolci all’Antimafia, è pure possibile riscontrare, seppure non nell’ordine cronologico adottato da Cipolla, l’evoluzione specifica e di contesto di ognuna delle realizzazioni promosse da Dolci nella zona di Partinico. Si può così avere una chiara spiegazione delle complesse dinamiche che hanno caratterizzato la gestione dell’acqua della diga: dalla costruzione dell’impianto fino ai più recenti sviluppi dei Consorzi di Bonifica. Si può ricostruire l’intera vicenda del Centro Educativo e degli ostacoli burocratici che ne hanno decretato la fine e si può soprattutto comprendere l’azione complessivamente disgregante che gli insuccessi hanno avuto nel favorire il peso ancora preponderante del sistema mafioso, come rilevato nell’epilogo del volume. Si chiede a un certo punto Casarrubea, se di fronte a tale scenario può dirsi fallita l’esperienza di Danilo. La risposta è negativa per i grandi insegnamenti che ci ha lasciato e che vanno tuttora riscoperti nell’esperienza individuale e collettiva dei siciliani.
Giuseppe Nobile

Recensione uscita su Segno, estate 2014, dei seguenti libri:
Giuseppe Cipolla, ”Danilo Dolci e l’utopia possibile”, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 2012.
Giuseppe Casarrubea, “Piantare Uomini . Danilo Dolci sul filo della memoria”, Castelvecchi, Roma, 2014.

Testo ripreso da: https://casarrubea.wordpress.com/2014/11/25/fare-i-conti-con-danilo/

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