In politica la valenza
simbolica di ciò che si fa pesa spesso di più che l'atto stesso. E'
il caso del braccio di ferro di Renzi con la CGIL e la sinistra PD
sulla riforma del lavoro (Jobs Act). Un atto altamente simbolico
perchè concepito non per il fine dichiarato (la
ripresa economica) ma per dimostrare al padronato
italiano e alla tecnocrazia europea la
volontà di andare in fondo nella normalizzazione
neoliberista del paese.
Alberto Burgio
Jobs Act. Il trionfo
dei simulacri
Forse è possibile
leggere l’attuale crisi della democrazia alla luce
della controriforma renziana del lavoro e della
dialettica interna al Pd. Come attraverso una piccola
lente d’ingrandimento.
L’essenza della crisi
democratica consiste nel trionfo dell’apparenza
sulla realtà. Negli anni Sessanta Guy Debord parlava di
«spettacolo» e, da buon allievo di Marx, si riferiva
alla potenza simbolica della merce, che rende invisibile
lo sfruttamento del lavoro salariato. Ma il trionfo
dell’apparenza investe anche le liturgie democratiche
che le istituzioni mettono in scena.
I sacramenti
amministrati nel cielo della politica nascondono
le violenze consumate sulla terra dei rapporti
sociali. E mentre ci si immedesima nella nobile
fisionomia del cittadinosovrano,
non ci si accorge di avere perso anche quel residuo di
autonomia che risiedeva nella rappresentanza.
Di esserne stati privati da leggi elettorali che
escludono le posizioni «incompatibili».
Da consuetudini
che affidano la legislazione agli esecutivi
(riducendo i parlamenti a grotteschi
palcoscenici). E dal trasferimento
della sovranità a istituzioni sovranazionali
non elettive e a potentati privati.
In questo senso
è possibile scorgere nel trionfo dei
simulacri l’essenza dello svuotamento della
democrazia. E veniamo così al Jobs Act. Nel merito,
si tratta di una legge altamente simbolica. Non
perché non produca effetti concreti. Al contrario,
ne discenderà una brutale lesione delle residue
tutele del lavoro subordinato. Si tratta di un atto
simbolico perché concepito non per il fine
dichiarato (la ripresa economica) ma per dimostrare
ai mandanti del governo (il padronato italiano e la
tecnocrazia europea) di volere andare in fondo
nella normalizzazione neoliberista
del paese.
Se questo è vero,
come leggere la storia parlamentare del
Jobs Act e quali lezioni trarne? È inevitabile
a questo punto riparlare del «dissenso» della
cosiddetta sinistra del Pd. Seguiamo questa vicenda
tragicomica da quando il gesto «riformatore»
del governo è entrato nel vivo, cioè dalla controriforma
del Senato. Ma il colmo lo si è raggiunto adesso, con la
delega sul lavoro. Per due ragioni.
In primo luogo, per
l’elevato significato simbolico della
materia. Si rilegga l’art. 1 della Costituzione.
Si consideri il paesaggio sociale del paese, con
i suoi milioni di inoccupati, disoccupati
e sotto-occupati, di precari strutturali,
lavoratori poveri ed esodati, di migranti
clandestinizzati e di pensionati
alla fame. Si tenga infine presente che nel mondo moderno,
dalla rivoluzione francese in poi, «sinistra»
significa movimento operaio, lotte per i diritti
e la dignità dei lavoratori.
La seconda ragione per
cui la discussione sul lavoro è decisiva chiama in
causa lo scacchiere politico coinvolto. Da un lato,
un governo fondato sul patto d’acciaio con la destra, che ha
scelto di caratterizzarsi con un attivismo
«riformatore» volto a neutralizzare
ogni capacità di difesa dei subalterni. Dall’altro, un
movimento sindacale che – nelle sue
organizzazioni più avanzate e rilevanti
– ha finalmente rotto gli indugi e deciso di scendere
in lotta non solo contro il padronato ma anche contro
il governo che ne ha sposato a oltranza gli interessi.
In questo
scenario è venuto meno ogni spazio di
mediazione e appare inderogabile una scelta
di fondo, per la quale del resto lo stesso oltranzismo
renziano ha sin qui lavorato. O con il lavoro contro
questo governo, o con questo governo contro il
lavoro. Come si pone di fronte al bivio la «sinistra» del Pd,
volente o nolente simbolo di questo dilemma? Fatta
eccezione, forse, per qualche singolo, risponde
obbedendo, piegandosi, rivelando che il
dissenso era tutta una penosa manfrina e che, al di
là delle minacce e dei sempre più flebili
strepiti, più di ogni altra cosa conta la difesa del ruolo
e dei suoi corollari. Questo dice da ultimo la
sceneggiata sull’accordo «faticosamente
raggiunto» tra la maggioranza e le minoranze
del partito, con tanto di entrata in scena dei comprimari
dell’Ncd incaricati di drammatizzare le
ridicole concessioni del governo sull’art. 18.
Si dirà: perché
prendersela tanto con poche decine di deputati
e senatori che se non altro hanno provato a mettere
qualche bastone tra le ruote del premier e hanno
infine capitolato perché non abbastanza
numerosi? Non è più grave la condotta di chi non ha
nemmeno protestato?
Intanto chi è d’accordo
con Renzi è semplicemente dall’altra parte
della barricata, avendo da tempo interiorizzato
le ragioni «europeiste» dell’oligarchia a trazione
tecnocratica. Criticarlo non avrebbe più
senso che discutere con Ichino e Sacconi per ciò che
pensano dei diritti degli operai, con Verdini per
quel che pensa della Costituzione antifascista
o con Monti a proposito di austerity.
La sinistra Pd
dovrebbe essere una cosa totalmente diversa, stando a quanto
afferma. E non dovrebbe ritrovarsi sistematicamente
a portare acqua al mulino di un governo come questo
aggrappandosi alle scuse più indecenti, dalla lealtà
alla «ditta» alle presunte concessioni strappate
all’esecutivo. Se lo fa, tradisce se stessa e inganna
quanti le hanno incautamente dato credito. Con
un’ulteriore aggravante a questo riguardo. Se tutta
questa messinscena avesse fine, sarebbe almeno
evidente a tutti che cos’è ormai questo Pd,
e forse se ne gioverebbe il tentativo di
ricostruire in Italia una sinistra politica
degna di questo nome.
Così torniamo al
malizioso gioco tra apparenza e realtà. Qualcuno
immaginava che Renzi avrebbe cacciato la minoranza
degli eretici per punirla della sua insubordinazione.
Ma l’uomo sa il fatto suo e capisce bene che, non ci
fosse un’opposizione di tal fatta, dovrebbe inventarla, pena
il rischio di apparire per quel che è, lo scrupoloso
garante della destra economica e politica.
Debord parlava di «società dello spettacolo». Ai
nostri tempi sappiamo fare ben di meglio. Abbiamo ormai
soltantouno spettacolo con qualche misera
compagnia di mestieranti, mentre della società
ci stiamo allegramente disfacendo.
Il manifesto – 15
novembre 2014
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