23 novembre 2014

MORO E IL PCI




Un libro ricostruisce la politica di Aldo Moro nei confronti del PCI e, indirettamente, spiega le ragioni per cui il governo degli USA, prima ancora delle BR, vollè morto il leader DC.
Alessandro Santagata
Il timido interprete di un'epoca
Dopo la fine della «repub­blica dei par­titi», stu­diare la sto­ria poli­tica del secondo dopo­guerra signi­fica con­fron­tarsi con una biblio­gra­fia ormai molto ricca e impone di riflet­tere sulle base delle nuove acqui­si­zioni docu­men­ta­rie. Da entrambi i punti di vista, l’ultimo libro di Gio­vanni Mario Ceci (Moro e il Pci, Carocci, pp. 192, euro 20) si può con­si­de­rare una ricerca feli­ce­mente riu­scita. Al cen­tro della rico­stru­zione, forte di una solida inchie­sta su fonti inter­na­zio­nali, è la seconda metà degli anni Ses­santa nel pieno della crisi del centro-sinistra. A lungo ci si è con­cen­trati su que­sto deli­cato pas­sag­gio sto­rico met­tendo in luce come l’inizio della crisi dei par­titi si leghi all’incapacità dei gruppi diri­genti di inter­pre­tare la tra­sfor­ma­zione eco­no­mica, sociale e cul­tu­rale del periodo.
 Aldo Moro – spiega Ceci – non faceva parte di que­sta schiera. In quest’ottica si deve leg­gere anche la sua rela­zione con il Pci : accan­to­nando la mito­lo­gia del «com­pro­messo sto­rico» e indi­vi­duando i pas­saggi di un per­corso tutt’altro che lineare. Ancora nel giu­gno 1967 Moro era pre­sen­tato in un memo­ran­dum del Dipar­ti­mento di Stato sta­tu­ni­tense come un «dichia­rato anti­co­mu­ni­sta». Circa due anni dopo, Henry Kis­sin­ger comu­nica al pre­si­dente Nixon il peri­colo di un ingresso del Pci nell’area di governo.

Cosa era suc­cesso in quel breve lasso di tempo? Le rispo­ste ovvia­mente sono tante e non tutte ven­gono inve­sti­gate in que­sto lavoro: si pensi, per esem­pio, agli effetti del Con­ci­lio Vati­cano II, tali da spin­gere Kis­sin­ger a par­lare, seb­bene «con pru­denza», di una caduta del fronte anti-comunista soste­nuto dalla Chiesa. Cer­ta­mente, un ruolo deci­sivo lo aveva avuto la deci­sione di Moro di lan­ciare la sua «stra­te­gia dell’attenzione» verso il Pci. Di que­sta ini­zia­tiva il volume segue gli svi­luppi fin dall’origine (il «discorso-bomba» del novem­bre 1968) e con lo sguardo attento agli eventi che ave­vano spinto in que­sta dire­zione: la crisi rifor­mi­stica del centro-sinistra e lo scop­pio della con­te­sta­zione stu­den­te­sca. La disa­mina della posi­zione assunta da Moro nei con­fronti del ’68 rap­pre­senta uno dei punti di mag­giore interesse.



In un con­te­sto poli­tico in cui i grandi par­titi sareb­bero stati pre­sto tra­volti dall’urto delle piazze la sua figura si distin­gue per la capa­cità di «cogliere la rile­vanza (e la novità) della pro­te­sta e di inter­ro­garsi su di essa». A dif­fe­renza di chi nella Dc denun­cia vio­lenza del movi­mento, Moro pre­fe­ri­sce enfa­tiz­zare i nuovi valori della gene­ra­zione del baby boom avver­tendo la pro­fonda insuf­fi­cienza della poli­tica demo­cri­stiana in una società che sem­bra spo­starsi a sinistra.

Sono que­ste le pre­messe di quella strana for­mula dell’attenzione ai comu­ni­sti che non deve essere con­fusa con l’apertura della «stanza dei bot­toni», ma che punta ad allar­gare le basi popo­lari del con­senso allo Stato e ad otte­nere una col­la­bo­ra­zione orga­nica con l’opposizione. Cen­trale è per Moro anche il valore della «pre­giu­di­ziale anti­fa­sci­sta» che impone di tenere unito il fronte delle forze demo­cra­ti­che con­tro il rischio di un’uscita a destra dalla crisi del sistema.

Dopo lo scop­pio della pole­mica attorno al «Piano Solo», i fatti del 12 dicem­bre 1969 con­fer­me­ranno la deci­sione di con­vo­gliare le ener­gie nella difesa della fra­gile demo­cra­zia ita­liana. Che poi die­tro alla bomba di Piazza Fon­tana ci fos­sero anche gli svi­luppi della poli­tica dell’attenzione, Ceci lo lascia intuire quando ana­lizza gli esiti del XII Con­gresso del Pci con l’emergere delle prime affi­nità tra Moro e Ber­lin­guer: una con­ver­genza di fronte alla quale – con­fessa l’ambasciatore sta­tu­ni­tense Ackley – «le leve poli­ti­che nelle nostre mani non sono né lun­ghe né abbon­danti».

Di fatto, l’avvio della «stra­te­gia della ten­sione» com­por­terà l’inceppamento del con­fronto pro­gram­ma­tico con il Pci: «un ripie­ga­mento tat­tico» (e con­di­viso da entrambe le parti) «di fronte al rischio di una situa­zione poten­zial­mente incon­trol­la­bile», spiega Ber­lin­guer in Dire­zione. Biso­gnerà atten­dere le ele­zioni del 1975 per un rilan­cio del dia­logo, ma que­sta volta in un qua­dro poli­tico lace­rato dalla crisi eco­no­mica e dal ter­ro­ri­smo. Il per­corso verso la «terza fase», quella del coin­vol­gi­mento effet­tivo del Pci nel governo, risulta quindi tutt’altro che teleo­lo­gico e molto più lungo e acci­den­tato di quanto si tende a pen­sare, tal­volta, anche tra gli sto­rici, cer­cando una scor­cia­toia in cate­go­rie come «con­so­cia­ti­vi­smo» e «trasformismo».

In una rico­stru­zione che avrebbe meri­tato forse un mag­giore allar­ga­mento della pro­spet­tiva alle dina­mi­che del periodo (la seco­la­riz­za­zione, la disgre­ga­zione delle reti poli­ti­che, ecc), Ceci ci resti­tui­sce la com­ples­sità della poli­tica Moro, inter­prete del pro­prio tempo e, nello stesso tempo, tat­tico e stra­tega. Dallo stu­dio dell’interlocuzione con il Pci, è pos­si­bile seguire la genesi e lo svi­luppo di una pro­po­sta poli­tica che nel suo fal­li­mento ha segnato la sto­ria d’Italia.

Il manifesto – 12 novembre 2014

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