Un libro ricostruisce la politica di Aldo Moro nei confronti del PCI e, indirettamente, spiega le ragioni per cui il governo degli USA, prima ancora delle BR, vollè morto il leader DC.
Alessandro Santagata
Il timido interprete
di un'epoca
Dopo la fine della
«repubblica dei partiti», studiare la storia
politica del secondo dopoguerra significa
confrontarsi con una bibliografia ormai molto
ricca e impone di riflettere sulle base delle nuove
acquisizioni documentarie. Da entrambi
i punti di vista, l’ultimo libro di Giovanni Mario Ceci
(Moro e il Pci, Carocci, pp. 192, euro 20) si può
considerare una ricerca felicemente
riuscita. Al centro della ricostruzione, forte di
una solida inchiesta su fonti internazionali,
è la seconda metà degli anni Sessanta nel pieno della
crisi del centro-sinistra. A lungo ci si è concentrati
su questo delicato passaggio storico
mettendo in luce come l’inizio della crisi dei partiti si
leghi all’incapacità dei gruppi dirigenti di interpretare
la trasformazione economica, sociale
e culturale del periodo.
Aldo Moro – spiega Ceci
– non faceva parte di questa schiera. In quest’ottica si
deve leggere anche la sua relazione con il Pci :
accantonando la mitologia del «compromesso
storico» e individuando i passaggi di
un percorso tutt’altro che lineare. Ancora nel giugno
1967 Moro era presentato in un memorandum del
Dipartimento di Stato statunitense come un
«dichiarato anticomunista». Circa due anni
dopo, Henry Kissinger comunica al presidente
Nixon il pericolo di un ingresso del Pci nell’area di governo.
Cosa era successo in
quel breve lasso di tempo? Le risposte ovviamente sono
tante e non tutte vengono investigate in questo
lavoro: si pensi, per esempio, agli effetti del Concilio
Vaticano II, tali da spingere Kissinger
a parlare, sebbene «con prudenza», di una
caduta del fronte anti-comunista sostenuto dalla Chiesa.
Certamente, un ruolo decisivo lo aveva avuto la
decisione di Moro di lanciare la sua «strategia
dell’attenzione» verso il Pci. Di questa iniziativa
il volume segue gli sviluppi fin dall’origine (il
«discorso-bomba» del novembre 1968) e con lo sguardo
attento agli eventi che avevano spinto in questa
direzione: la crisi riformistica del centro-sinistra
e lo scoppio della contestazione
studentesca. La disamina della posizione
assunta da Moro nei confronti del ’68 rappresenta
uno dei punti di maggiore interesse.
In un contesto
politico in cui i grandi partiti sarebbero stati
presto travolti dall’urto delle piazze la sua figura si
distingue per la capacità di «cogliere la rilevanza
(e la novità) della protesta e di interrogarsi
su di essa». A differenza di chi nella Dc denuncia
violenza del movimento, Moro preferisce
enfatizzare i nuovi valori della generazione
del baby boom avvertendo la profonda
insufficienza della politica democristiana
in una società che sembra spostarsi a sinistra.
Sono queste le
premesse di quella strana formula dell’attenzione ai
comunisti che non deve essere confusa con l’apertura
della «stanza dei bottoni», ma che punta ad allargare le
basi popolari del consenso allo Stato e ad ottenere
una collaborazione organica con
l’opposizione. Centrale è per Moro anche il valore della
«pregiudiziale antifascista» che
impone di tenere unito il fronte delle forze democratiche
contro il rischio di un’uscita a destra dalla crisi del
sistema.
Dopo lo scoppio
della polemica attorno al «Piano Solo», i fatti del 12
dicembre 1969 confermeranno la decisione di
convogliare le energie nella difesa della fragile
democrazia italiana. Che poi dietro alla bomba di
Piazza Fontana ci fossero anche gli sviluppi della
politica dell’attenzione, Ceci lo lascia intuire quando
analizza gli esiti del XII Congresso del Pci con l’emergere
delle prime affinità tra Moro e Berlinguer: una
convergenza di fronte alla quale – confessa
l’ambasciatore statunitense Ackley – «le leve
politiche nelle nostre mani non sono né lunghe né
abbondanti».
Di fatto, l’avvio della
«strategia della tensione» comporterà
l’inceppamento del confronto programmatico con
il Pci: «un ripiegamento tattico» (e condiviso
da entrambe le parti) «di fronte al rischio di una situazione
potenzialmente incontrollabile», spiega
Berlinguer in Direzione. Bisognerà attendere
le elezioni del 1975 per un rilancio del dialogo, ma
questa volta in un quadro politico lacerato dalla
crisi economica e dal terrorismo. Il
percorso verso la «terza fase», quella del coinvolgimento
effettivo del Pci nel governo, risulta quindi tutt’altro che
teleologico e molto più lungo e accidentato
di quanto si tende a pensare, talvolta, anche tra gli
storici, cercando una scorciatoia in categorie
come «consociativismo» e «trasformismo».
In una ricostruzione
che avrebbe meritato forse un maggiore allargamento
della prospettiva alle dinamiche del periodo (la
secolarizzazione, la disgregazione
delle reti politiche, ecc), Ceci ci restituisce
la complessità della politica Moro, interprete
del proprio tempo e, nello stesso tempo, tattico
e stratega. Dallo studio dell’interlocuzione con il
Pci, è possibile seguire la genesi e lo
sviluppo di una proposta politica che nel suo
fallimento ha segnato la storia d’Italia.
Il manifesto – 12
novembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento