Ricostruita in un denso e preciso saggio la storia culturale del grande classico della letteratura occidentale. E delle sue molte letture
Alessandro Schiesaro
Enea, mito per tutti i
secoli
Sedici ottobre 1944. Londra è in balia di nuovi missili devastanti, l'ultimo colpo per una città che in anni di guerra e di bombardamenti ha già accumulato molte ferite. T. S. Eliot pronuncia la sua prolusione come primo presidente della neonata «Società Virgiliana». Il titolo – «Cos'è un classico?» – ha forma di domanda, ma la risposta non tradisce esitazioni: un classico, il classico, è Virgilio, «il nostro classico, il classico di tutta Europa». Non possono aspirare a quel ruolo i sommi autori delle letterature nazionali; Virgilio sì, perché poeta in una lingua che, morendo, ha irradiato tutta Europa e le ha garantito il contatto con l'eredità dei greci.
Nel nome di Virgilio Eliot traccia un progetto di salvezza culturale del continente che rinascerà dalle macerie, individuando un comune denominatore che trascenda anche Dante o Goethe o Shakespeare. «Dobbiamo ricordarci – afferma – che, come l'Europa è un'unità (e tuttora, pur crescentemente mutilato e deturpato, l'organismo dal quale deve svilupparsi una maggior armonia mondiale), così la letteratura europea è un'unità». È, la sua, l'esaltazione teorica più esplicita della centralità culturale di Virgilio, che risponde a un sentire e un'esigenza reali. Quando, pochi anni dopo, Carlo Dionisotti arriva a Oxford, si concentra sui classici latini, Virgilio in primis, convinto che sia questa la base del dialogo tra l'esule (antifascista) di un paese sconfitto e i suoi colleghi britannici.
Il ruolo principe di Virgilio e soprattutto dell'Eneide è una costante della cultura europea da prima che l'aggettivo abbia un senso. Il suo poema è un classico mentre l'autore ancora lo scrive, poi una presenza immediata e costante sui banchi di scuola e nell'immaginario. In questo libro affascinante, che guida con acutezza il lettore tra una miriade di opere e di autori, Philip Hardie racconta la storia di questa duratura e poliedrica canonizzazione.
L'Eneide, pur così specifica nella sua trama, nella sua tessitura linguistica, nei suoi riferimenti culturali, è celebrata e imitata (anche parodizzata) in letteratura e spesso anche nelle arti figurative per due millenni perché il suo schema narrativo si adatta agevolmente ad altri contesti. È la storia di un esule che fonda un impero, o, meglio, che ritorna col suo popolo ad una terra insieme nuova e antica (i Troiani si volevano discendenti dell'etrusco Dardano), per gettare le basi di un regno la cui grandezza il poema può solo garantire al futuro.
Anche se Enea non vede in
prima persona il trionfo di Augusto, la profezia di Virgilio propone
un modello attraente per ogni impero che si voglia eterno e
invincibile. Quando descrive l'emergere dell'ordine dal caos, il
contrasto tra le potenze infernali della discordia e la forza di un
principe che si vuole capace di interrompere il ciclo inevitabile del
declino umano riportando in terra una nuova Età dell'oro, l'Eneide
costruisce un'intelaiatura ideologica pronta a farsi archetipo.
Sarebbe però un errore ricondurre il successo dell'Eneide, anche solo in campo ideologico, esclusivamente alle aspirazioni imperialistiche e panegiristiche di successive generazioni di potenti.
Certo, la prefigurazione
di un sovrano che ascende al cielo offre un modello (e quindi anche
un antimodello) di molte apoteosi successive: a Milano è dipinta
l'apoteosi di Napoleone, sul Campidoglio di Washington quella del
repubblicano Washington. Ma la trama del potere che Virgilio
costruisce è più complessa e più sottile. Il suo è anche (per
molti, oggi: soprattutto) un poema di esilio e di transizione, che
all'ombra di un motto perentorio e mille volte sfruttato, la promessa
di Giove ai Romani che il loro sarà un «impero senza fine»,
suggerisce riflessioni meno rassicuranti.
Lo dice senza mezzi
termini Agostino, quando la distruzione che Alarico infligge a Roma
"eterna" nel 410 revoca in dubbio il valore delle parole di
Giove. Anzi, lo fa dire a Virgilio stesso, il quale si assolve da
ogni responsabilità osservando che, in fondo, è stato un dio pagano
a sbagliare. E lo ripeterà con foga W. H. Auden nel 1959,
rimproverando al poeta di immaginare un futuro che non si proietta
oltre gli eventi della sua vita: «Neppure il primo dei Romani può
imparare/ La sua storia romana al futuro». Per Auden, Alarico ha
vendicato Turno, l'eroe latino sulla cui morte per mano di un Enea
furente Virgilio sceglie ambiguamente di chiudere il poema. È su
Virgilio, sull'Eneide, che si misurano la filosofia e la teleologia
della storia.
La critica del dopoguerra ha messo in giusto rilievo molte delle tensioni e delle esitazioni ideologiche che rendono impossibile, o comunque tristemente riduttiva, una lettura dell'Eneide solo in chiave di panegirico (la reazione era dovuta, se solo si pensi allo sfruttamento fascista di Virgilio profeta della Terza Roma). Si erano già segnalate, però, ingegnose operazioni controcorrente.
A inizio Quattrocento
Maffeo Vegio, dotto monaco domenicano, compone un tredicesimo libro
dell'Eneide che per qualche secolo avrà l'onore di essere stampato
in appendice al capolavoro. Vegio regala ai lettori l'happy ending
che manifestamente manca nell'originale. Turno viene sepolto con
onore, Enea e Lavinia si sposano, assistiamo alla fondazione di
Lavinio e all'apoteosi di Enea. Un finale dell'opera, insomma, che
riscatta la violenza inscritta nelle omissioni di Virgilio, il quale
non esitava a chiudere sull'orrore dell'uccisione di Turno e nulla
dice né di Lavinia (un'assenza, un simbolo evanescente) né del
destino di Enea.
Nella storia
culturale dell'Eneide la dimensione politica assume un ruolo di primo
piano che però non è esclusivo. L'Eneide è anche, per esempio, il
racconto della tragica intersezione tra Storia e destino personale
nell'amore di Didone ed Enea, sviluppato anch'esso sul filo di
tensioni irrisolte che affascinano Chaucer e Tasso e Shakespeare. E
mentre insiste sulla vittoria dell'ordine e la sconfitta del caos,
l'epos celebra il ruolo ineliminabile delle passioni e degli istinti,
trasfigurati nei venti che Eolo reprime a stento in una caverna, o
nella violenza che anima le furie infernali al servizio
dell'implacabile odio di Giunone.
Sul frontespizio
dell'Interpretazione dei sogni, datata 1900 con imprecisione tecnica
ma suggestivo simbolismo, Freud, fa sue le parole di Giunone: «se
non posso piegare gli dei superi, scuoterò l'Acheronte» e schiude
le porte a una fase feconda della ricezione del poema, quella che ne
rinnova la dimensione "classica" riconoscendone fino in
fondo le ansie e le contraddizioni.
Il Sole 24 ore – 16
novembre 2014
Philip Hardie
The Last Trojan Hero.
A Cultural History of Virgil's Aeneid
London-New York, 2014
£ 25,00
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