19 novembre 2014

AMICIZIA E SCAMBI EPISTOLARI TRA PASOLINI E SCIASCIA



Caro Sciascia, ti scrivo.
Firmato Pier Paolo Pasolini


di Tano Gullo, "la Repubblica", 11 dicembre 2003

Dai «cordiali saluti dal suo devotissimo», agli «affettuosi abbracci dal tuo», il passo è lungo due anni. Il passaggio dal lei al tu e i saluti sempre più intimi comunque non significano un rapporto eccessivamente confidenziale. Infatti, nelle lettere successive ogni tanto c' è un curioso ritorno al lei. 
Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia hanno intrattenuto una intensa corrispondenza dal 1951 agli inizi degli anni Sessanta. Si spediscono articoli e saggi, si segnalano scrittori e poeti, si raccontano gli acciacchi, concordano pagamenti per le collaborazioni che si scambiano, organizzano convegni, incontri e viaggi, si comunicano emozioni per letture fatte, per riviste impaginate. 
In queste missive scorrono i nomi più significativi della nostra letteratura del dopoguerra: da Caproni a Bertolucci, da Contini a Bassani, da Gadda a Leonetti, da Siciliano a Garboli, dalla Morante alla Ginzburg. 
Le 35 lettere inviate da Pasolini sono le prime che la famiglia di Sciascia, in ottemperanza al mandato testamentario, ha consegnato alla Fondazione di Racalmuto intestata all'autore del Contesto. Sono il fiore all' occhiello della biblioteca inaugurata sabato 13 dicembre 2003 con due convegni, uno sul giallo e l' altro sugli archivi. 
Nella prima missiva, datata 11 gennaio 1951, Pasolini ringrazia Sciascia per le duemila lire ricevute (a compenso di un suo articolo pubblicato su "Galleria" una rivista letteraria che lo scrittore siciliano dirigeva a Caltanissetta dove ai tempi viveva) e si scusa per il ritardo con cui scrive, raccontando di una caduta che gli ha procurato la frattura di un osso del bacino: «sei giorni in ospedale e un mese a letto». «Spero che le mie disgrazie - aggiunge - mi giustifichino!». 
Nella seconda, del 25 gennaio, lo rassicura che sta per accingersi a mettere in bello la «mala copia» di una recensione sulle Favole della dittatura pubblicato da Sciascia con Bardi, in modo che possa spedirla a un giornale. Poi gli segnala il poeta Dell' Arco: «è così audace che temo ci voglia un bel po' di fegato per pubblicarlo. Ho di narrativo altre cose meno violente, che se vuole le manderò in esame appena potrò». Lo scrittore di Racalmuto inserirà i sonetti di Dell'Arco in una antologia Il fiore della poesia romanesca pubblicata dall' editore nisseno Salvatore Sciascia, omonimo ma non parente, lo stesso che finanzia la rivista "Galleria" e che stampa alcuni libri giovanili dello stesso Pasolini. In quegli anni, per merito dei due Sciascia e di altri intellettuali, la piccola Caltanissetta diventa la culla della cultura siciliana che guarda anche al resto d' Italia. È inserita a pieno titolo nel dibattito letterario del primo dopoguerra. Ne sono prova i nomi che spediscono i loro scritti alla casa editrice: Pasolini, Roversi, Romanò, Leonetti, Caproni, Bassani, Contini, Naldini. 
"I quaderni di Galleria", allegati alla rivista, vengono dedicati a rotazione, «come in agricoltura», alla poesia, alla narrativa e all' arte. Nove volumetti monografici all'anno. La prima terna: Dal diario di Pasolini, Un giorno d'estate di Angelo Romanò e Poesie per l'amatore di stampe di Roberto Roversi. 
Annota nel suo diario Sciascia: «Pasolini mi scrisse: "Deliziosi i libretti! Te ne sono molto grato. Adesso aspetto le trenta copie per spedirle agli amici e ai critici. Finora l'ha visto solo Bassani che è rimasto colpito dalla dignità e dal gusto dell' edizioncina"». «Questi libretti - continua - hanno una storia e fanno piccola storia. Me ne ero quasi scordato, come forse se ne era scordato Pasolini. Rileggendo ora le sue lettere, mi pare di aver vissuto una lunghissima vita e che la felicità di allora sia come il ricordo di un altro me stesso; un lontano e remoto me stesso, non il me stesso di ora. Eravamo davvero così giovani, così poveri, così felici?». 
Sullo sfondo delle altre lettere c'è l'Italia degli anni Cinquanta, un paese che con fatica, dopo le devastazioni del fascismo e della guerra rientra nella storia contemporanea e comincia a gettare le basi del boom economico. È un paese ancora di sogni e di buoni sentimenti, di ansie, culturali e per il ritardo di piccoli compensi monetari. 
In una lettera del ' 53 Pasolini in una nota su Naldini preannuncia tre righe che avrebbe mandato successivamente. Una recensione sospesa per un paio di settimane, giusto il tempo di trovare la frase giusta. Alla fine arriva la busta con una citazione di Betocchi: «Vita di meravigliosi adolescenti, in cui tutto è nitidamente confessato». Nelle lettere Pasolini chiede chiarimenti per un viaggio in Sicilia in occasione del congresso sulla narrativa organizzato da Sciascia («Chi sarebbero i "noi" che ci ospitano, non vorrei gravare sulle tue spalle»), cerca voti per il suo Teorema candidato al premio Strega («Ho bisogno di voti, non tanto per vincere, quanto per non venire a sapere che sono completamente isolato e abbandonato, a parte pochi amici stretti. Spero che tu sia uno di questi e che ti decida a votare per me»). Gli raccomanda Leonetti, Romanò, Bassani, Marin («se gli pubblichi il libro Biagio Marin si impegna a farne vendere 250 a prezzo di copertina e ad acquistarne 100 copie lui stesso a prezzo di costo»), lo invita a spedirgli articoli, si impegna a scrivergli recensioni, lo rimprovera velatamente perché Sciascia in visita a Roma non lo ha cercato più di tanto. 
Negli anni Sessanta la corrispondenza si interrompe. Il perché lo spiega lo stesso Sciascia nel libro Nero su nero.
 

Leonardo Sciascia, Nero su nero, Adelphi 1991
Molto si parlò di questo libro, quando apparve nel 1979. Ma allora notando soprattutto ciò che Sciascia vi dice della realtà pubblica che lo circondava: l’Italia come paese «senza verità», dal caso del bandito Giuliano all’affare Moro, la cui ombra si stende sulle ultime pagine di Nero su nero. Leggendolo oggi, affiora però con altrettanta evidenza la sua altra faccia, più segreta: quella del libro dove Sciascia ha consegnato, con scrupolosa precisione, pagine essenziali sul suo modo di intendere lo scrivere e la letteratura, che proprio qui viene mirabilmente definita quale «sistema di “oggetti eterni” ... che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». (Parole che vanno lette accostandole ad altre, significativamente fra parentesi, dove si dice che la letteratura «è la più assoluta forma che la verità possa assumere»). Si direbbe dunque che, in questo momento, ciò che per Sciascia era più personale e nascosto venisse naturalmente a mescolarsi con i fatti della cronaca. Così nacque Nero su nero, accumulandosi per dieci anni torbidi, fra il 1969 e 1979, ma obbedendo sempre a un imperativo di chiarezza e nettezza – libro indispensabile per capire Sciascia in genere e soprattutto il suo ultimo periodo. E, di fatto, già il titolo risponde parodisticamente alla banale accusa di pessimismo che tanto spesso gli fu rivolta in quel decennio e anche dopo, offrendoci «la nera scrittura sulla nera pagina della realtà».

 
VEDI ANCHE:
Due cartoline dal mio paese, di Leonardo Sciascia
Foto: statua in bronzo di Leonardo Sciascia che passeggia
nella via principale di Racalmuto, la sua città


Documenti tratti da: http://www.pasolini.net/saggistica_Sciascia-ppp_lettere.htm

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Sotto il segno del rimpianto
un saggio di Adriano Sofri

"Ho voluto molto bene a Pasolini" - disse Sciascia nel 1981, e poi aggiunse un riconoscimento generoso verso la sua voce e appena ironico verso la propria: "Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c'è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte". Pasolini era stato il primo recensore del volumetto d'esordio di Sciascia, le Favole della Dittatura. Ma ci fu un legame più forte e recondito fra le vite di Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini.
Di una corrispondenza interrotta e ora, a distanza di vent'anni, ripresa, Sciascia, il sopravvissuto fra i due, scrive nella pagina di apertura dell'Affaire Moro (1978). Un affetto pieno di rimpianto fa tremare quella pagina come una febbre. Pasolini è morto da tre anni. L'amicizia cui Sciascia rende l'accorato tributo è, come succede spesso delle lunghe amicizie e anche le più fedeli, diventata col tempo distante e sospesa. A quell'esordio del libro su Moro torneremo fra poco, quando avremo annodato i due capi del nostro filo.
Si sa che Pasolini ebbe un fratello, Guido, di lui minore - era nato nel 1925, e Pier Paolo nel 1922 - che morì a vent'anni, partigiano di una formazione indipendente e aderente al Partito d'Azione, assassinato a Porzûs, in Friuli, con altri suoi compagni da partigiani comunisti italiani e sloveni. Molto si è pensato a quella tragedia a proposito dell'adesione comunista di Pier Paolo, come un pellegrinaggio alla rovescia sul luogo del delitto. 
Pasolini parlò di sé e di sua madre di fronte a quella perdita atroce in una lettera, e nei versi friulani dei tre Cori in morte di Guido: tre anni dopo ne scrisse, indicando fermamente le responsabilità, in un articolo di giornale. Come per ogni altra notizia, si deve leggere Pasolini, una vita di Nico Naldinì, Einaudi 1989: i Cori sono ristampati nell'Accademia Friulana e le sue riviste, appena uscito da Neri Pozza; l'articolo è ripubblicato, sempre a cura di Naldini, in Un paese di temporali e di primule, Guanda 1993. 
Nella premessa a quest'ultima raccolta Naldini riferisce delicatamente di un incidente occorso quando Pier Paolo è appena diciannovenne. [vedi anche approfondimenti_porzus.htm#intervista-naldini, ndr] "Alcuni ragazzi hanno mormorato qualcosa sul conto di Pier Paolo e Guido li ha sentiti. La scazzottata che ne è seguita ha portato Guido in ospedale con una commozione cerebrale". Dunque Guido, appena quindicenne, si è fatto paladino del fratello maggiore. Con lo stesso coraggio impulsivo - entusiasmo, è la parola che con più ammirazione e rimpianto Pier Paolo gli dedicherà - Guido si risolverà poi alla lotta partigiana, staccandosi dalla madre e dal fratello. 
Ragazzini, Guido aveva la sua cerchia di amici, andava a caccia col Flobert a pallini, costruiva navi e aquiloni, si dava a imprese ardite. Coi propri amici Pier Paolo giocava a calcio, andava in bicicletta, leggeva libri e scriveva. Dopo che Guido fu assassinato, passò qualche mese prima che la madre e Pier Paolo venissero a saperlo. In quell'intervallo, Pier Paolo ebbe le sue prime esperienze d'amore.
Benché non abbia a che fare col punto, vorrei dire che la questione della fraternità si mostrerebbe decisiva per la comprensione del rapporto fra Pasolini e gli allora giovani attorno al '68.
Rapporto pedagogico e agonistico insieme, nient'affatto da padre, e piuttosto da fratello maggiore. Di sfida, e di desiderio di essere accolto - come nelle sfide di Pasolini al pallone, o alla lotta. L'esempio più chiaro è la famosa poesia su Valle Giulia. Versi brutti, avrebbe detto Pasolini, e pubblicati "proditoriamente" sull'Espresso.

Nell'estate del '68, Pasolini venne con altri, Zavattini fra loro, il più simpatico e inerme - in un'assemblea nazionale di militanti studenteschi a Ca' Foscari a Venezia: e fu accolto dal dileggio e buttato fuori a spintoni e insulti. Esattamente come aveva immaginato, certo. (Aveva detto di sé e del proprio scandalo, in una lettera del '49: "amore a sputi in faccia"). Ebbe sì e no il tempo di dire questo: che la poesia era probabilmente brutta, che era stata probabilmente un errore, e che era stata una provocazione - "In che altro modo mettermi altrimenti in rapporto con loro, se non così?" - una richiesta di amore. 
Ho un ricordo preciso di quella piccola gazzarra, del resto più di maniera che entusiasta, e di una sua appendice, dalla quale sarebbe venuta presto la mia amicizia con Pasolini. Benché se ne sappia abbastanza, non sarebbe male che si ricordasse come stettero davvero le cose, tutte le infinite volte che si torna a citare la poesia di Pasolini sui poliziotti. E che non si continuasse a chiudere studenti, poliziotti, e Pasolini in quel cliché facile e apocrifo; altrettanto facile e apocrifo di quello sullo Sciascia dei "professionisti dell'antimafia", formula che, come Sciascia avrebbe ricordato tante volte invano, non era stata sua, bensì di un titolista del Corriere.
Nella distante vicinanza di Pasolini al "movimento", e per un tempo non breve, in particolare a Lotta Continua, il richiamo alla vicenda fraterna è trasparente, nella similitudine esplicita con lo spirito degli anni 1944-45, e fino nelle parole - in quella soprattutto dedicata a Guido: entusiasmo. "Mi sembra che la tensione rivoluzionaria reale - la stessa che nei lontani '44 o '45 - così pura e necessaria, allora - sia vissuta oggi dalle minoranze di estrema sinistra" - questo è detto ancora nel 1972. Nei versi de Il PCI ai giovani!, quelli di Valle Giulia, tanto citati quanto non letti, in cui gli studenti venivano apostrofati come "figli", "amici", "cari e care", si diceva anche: "Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, a Firenze e un po' anche a Roma"
Nell'Apologia che accompagnava i versi, Pasolini scriveva poi dei giovani fino alla sua generazione, "esclusi per un trauma: e prendiamo come un trauma tipico quello di Lenin diciannovenne che ha visto il fratello impiccato dalle forze dell'ordine". Ci rimproverava, Pasolini, e insieme a suo modo ci invidiava, la riduzione della politica all'azione politica: è un fatto che, questa volta, volesse esserci. Ma è argomento da rinviare.
Del tutto nota è dunque la vicenda di Guido Pasolini, benché custodita in Pier Paolo dall'”amore pudico e confidente che mi legava a Guido”, e rimossa volentieri da altri, come tutto ciò che apparteneva ai delitti di quegli anni, e in quella regione di fobie e di ferocie. (È di pochi giorni fa del resto una penosa intervista del Corriere, a proposito della malamente rinata questione italo-slovena, con il vecchio responsabile dell'eccidio a Porzûs dei partigiani della "Osoppo": "Tutti balordi. 
Molto meno nota invece, salvo che nella cerchia stretta dei familiari e degli amici, è sempre restata la perdita tragica di un fratello nella vita di Leonardo Sciascia. Se ne trova un cenno in un'intervista del 1973 di Biagi; e qualche breve e calma frase nella conversazione con Sciascia tenuta da Domenico Porzio, e uscita, neanche rifinita, quando ambedue erano morti, nel 1992 (Fuoco all'anima, Mondadori):
"Eri figlio unico?
Eravamo in tre. Due maschi e una femmina. Ma mio fratello si è suicidato nel '48.
Perché, com'è successo?
Per ragioni di sconforto, forse di solitudine. Era perito minerario. Mio padre lavorava nell'amministrazione della zolfara. Quando mio fratello si diplomò, lo portò con sé... A un certo punto scoppiò uno sciopero alla zolfara, un lungo sciopero ... Forse per non lasciare solo mio padre, è rimasto lì. E in quella zolfara - io ci sono stato: è un paesaggio desolato, brutto, orribile - forse ha avuto un momento di sconforto. Non so. Si è sentito prigioniero. Non siamo riusciti a capirlo.
Era molto giovane?
E come no! Aveva venticinque anni. Aveva un carattere molto diverso dal mio, piuttosto allegro. D'altra parte questi tipi vitali hanno dei momenti di sconforto che invece i depressi non hanno...”
Tutto qui: salvo una frase, casuale, un paio di capitoli più in là, per dire che lui, Leonardo, non aveva provato la passione per la caccia, suo fratello sì. Non ne so molto di più. Gli amici ricordano questo fratello, Giuseppe detto Pino, bello ed estroverso. Nel cimitero di Racalmuto Leonardo Sciascia è sepolto sotto una lapide su cui è scritto: Ce ne ricorderemo, di questo pianeta. Giuseppe è sepolto un paio di isolati di tombe più in là, sotto un epitaffio latino che era stato dettato da Leonardo.  A quel suicidio "di cui non ho mai compreso le ragioni" - Sciascia aveva dedicato una poesia, "In memoria", nella raccoltina pubblicata in poche copie nel 1952 col titolo: La Sicilia, il suo cuore. Vi si nomina il “maggio sciroccoso” che portò la morte: tornerà, lo scirocco, nelle pagine di Sciascia, e soprattutto in quelle del libro su Moro.
La perdita tragica, e anzi violenta, di un fratello, è di per sé un'esperienza accomunante molto forte. Guido Pasolini fu ucciso da fanatici politici. Giuseppe Sciascia si uccise, chissà perché, come si uccidono i giovani, forse per una lotta col padre. Caso mai, un altro parallelo sta nel contesto politico estremo delle due storie: diretto, nel caso di Malga Porzûs, indiretto e chissà se anche alla lontana influente, nel caso del giovane Sciascia, rimasto solo col padre in mezzo a uno sciopero di zolfatari, nel rovente 1948. Tutti e due, poi, erano fratelli minori: cosicché sui sopravvissuti, e quasi coetanei, poté pesare oscuramente il senso di una responsabilità mancata.
Una differenza certa, effetto del carattere pubblico di una tragedia - benché velato da un'ombra mista di angoscia e rimozione - e del carattere privato e domestico dell'altra, sta nella notorietà che la prima ricevette, e nel riserbo che custodi la seconda. Pasolini può averne saputo. Mi pare di escludere che Sciascia gliene avesse parlato, tanto impensabile una tal confidenza tra due persone così dissimili, e in modi opposti gelose della propria vita segreta. Così fra i due dovette esserci una disparità. Sciascia conosceva la vicenda di Guido Pasolini, ed è naturale che la confrontasse con la memoria propria. Tenendone la notizia per sé: salvo che, appunto, in quelle pagine d'apertura dell'Affaire Moro, così insolitamente appassionate e intime.
Ve le ricordate: sono quelle in cui si rievoca la scomparsa delle lucciole, annunciata da Pasolini, e se ne festeggia la timida ricomparsa. Benché un giudizio di Pasolini su Moro - "il meno implicato di tutti" - introduca al soggetto, esso non basta a spiegare una decisione forte come quella di aprire il libro sul sequestro e la morte di Moro con le pagine di ricordo di Pasolini. (Nella foga polemica, Scalfari scrisse sarcasticamente che erano pagine belle, non di Sciascia, bensì di Pasolini). 
Vi si resuscita, in realtà, un legame antico, e si dichiara un'amicizia ormai costretta al compianto. Sciascia lo dice: "Ed ecco che - pietà e speranza - qui scrivo per Pasolini, come riprendendo dopo più che vent'anni una corrispondenza". Lo dice, anzi, in un modo tale da sottolineare una specie di parallelismo alla rovescia - mi è venuta una formula quasi morotea delle loro vite, una comunanza fatta di una dissomiglianza estrema. ”Per mia parte, sentivo come un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola chiave della sua vita: la parola 'adorabile'”. Parola, da Sciascia, pensata e forse scritta per una sola donna e un solo scrittore - Stendhal, "forse è inutile dirlo". Da Pasolini impiegata per quelli che inevitabilmente sarebbero stati strumenti della sua morte". Da questa diversità radicale, Sciascia scrive di una lucciola ritrovata, e con lei della "gioia di un tempo ritrovato ... e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini".
In questa dedica che mette sotto il segno dell'amico, così diverso, il libro più "politico", Sciascia ha insinuato una dichiarazione ulteriore e più intensa. Per due volte, infatti, nel giro di due righe, viene impiegata la parola: fraterno. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenza.
Fraterno, è parola troppo impegnativa per essere usata a cuor leggero. Nel caso del messaggio postumo di Leonardo Sciascia a Pier Paolo Pasolini è difficile che sia stata usata per caso.
Così, sia pure con tanto ritardo - piuttosto, solo grazie a quel ritardo - Sciascia ha salutato Pasolini con il richiamo alla comune esperienza fraterna.
Così almeno mi sembra di leggere; e mi sembra di trovarvi, in un tempo che ne ha bisogno, un bell'episodio di amicizia.
 

Da "Pagine corsare"
Saggistica

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