Ho partecipato questa sera alla bella presentazione della nuova edizione dei Promessi Sposi, pubblicata dalla BUR qualche mese fa. Mi riservo di tornare un'altra volta sul vivace dibattito che ha arricchita l'iniziativa. Adesso mi limito a riprendere dal sito leparolelecose, un estratto dal saggio di Francesco de Cristofaro, Il romanzo sul tavolo da gioco, che introduce la nuova edizione da lui curata in collaborazione con Giancarlo Alfano, Nicola De Blasi, Matteo Palumbo e Marco Viscardi.
“I promessi sposi” alla prova, di nuovo
di Francesco de Cristofaro
1.
Si racconta che il principe dei comici, Charlie Chaplin, ospite nel 1972 d’una soirée
in suo onore al Festival di Venezia, si sia imbattuto in un Vittorio De
Sica singolarmente sulla difensiva, che s’era infine deciso ad
accoglierlo al solo scopo di non far la figura del pusillanime parroco
manzoniano; e che, oltremodo incuriosito, gli abbia chiesto: «Who’s don
Abbondio?». A tale domanda, il nostro regista avrebbe replicato: «Era
un prete che per paura di un capitalista evitò di celebrare il
matrimonio di due proletari. Ma si tratta di una storia antica e troppo
lunga e gliela risparmio. Le dico soltanto che da noi don Abbondio è
diventato sinonimo di chi non fa il proprio dovere per paura dei
potenti, delle associazioni di categoria, o semplicemente per paura di
essere considerato out, fuori gioco»[1].
L’aneddoto è, naturalmente, inventato di
sana pianta. Lo escogitò Ennio Flaiano per stigmatizzare, con satira
sferzante, il conformismo vagamente snob che in quegli anni era tra le
cifre più tipiche della nostra intelligencija. Ma ciò che
conta è la prontezza e la duttilità con cui un personaggio di finzione
si fissa non tanto in icona del costume di casa, quanto in metafora
della mancata mediazione sociale, di quell’infamia che condanna ancor
più i poveri ed eleva ancor più i ricchi. Se nella famosa parodia di
Guido da Verona il parroco congedava il povero Renzo col saluto romano[2]
(ed era il 1930), qui diviene, insieme, il baluardo dei «capitalisti» e
il boia dei «proletari». Per paradosso, l’anacronistico, assurdo
lessico usato dallo pseudo-De Sica ci mostra in corpore vili
come l’opera del «Gran Lombardo» sia sempre in grado – a dispetto di
letture ideologiche e retrive che ancora proliferano – di parlare alla
nostra sensibilità, illuminando i conflitti del presente. Perché I Promessi Sposi sono
forse il romanzo più radicato nella propria epoca, e insieme più capace
di oltrepassarla, che sia mai stato scritto in Italia.
Don Abbondio non dialoga solo con i
posteri, certo; la sua riuscita estetica ha a che fare anche col modo
strampalato in cui se ne sta sulle spalle dei giganti. Prendiamo il
celebre esordio del capitolo viii, quello che lo sorprende in una ruminatio
più bovina che agostiniana, alla prese con l’incognito Carneade. Dopo
aver rimandato a memoria le omelie del breviario sulla strada verso
casa, egli si è ora accomodato proprio a casa, dove sta meditando, nel
modo abitudinario cui ha già abituato anche il suo lettore reale, un
frusto panegirico di San Carlo Borromeo. In pantofole, trotta sul suo hobby horse,
sul suo candido passatempo, che è una cultura di ambito rigorosamente
ecclesiastico. Legittimamente Nigro ha richiamato un passaggio di
Plutarco in cui Carneade è in primo luogo il pensatore dell’inatteso e
delle afflizioni che ne derivano; e con altrettanta ragione Angelo
Stella e Cesare Repossi invitano a non minimizzare il rilievo di tale
lettura domestica e, di contro, a non enfatizzare il carattere
irriflesso, quasi biologico degli svaghi del curato[3].
Non solo perché Manzoni sceglie con cura gli idoli di carta dei suoi
lettori fittizi (si pensi, oltre che a don Ferrante, allo strepitoso e
innominato sarto); ma anche perché sta di fatto che, nel passaggio dalla
prima minuta ai Promessi Sposi, gli strappa di mano il
Quaresimale e gli regala, anzi gli fa dare in prestito, un dotto
elogio post-tridentino: puntando così non sul tratto della ignoranza
crassa, ma su quello d’una tranquilla, ancorché pedissequa, curiositas.
Allo stesso modo, occorrerà non prendere sottogamba la circostanza che
poco più avanti Tonio rende tatticamente al curato venticinque
(esattamente venticinque) berlinghe, che raffigurano Sant’Ambrogio a
cavallo. Quell’uomo di chiesa è anche homo oeconomicus: ha
quindi una logica che, come aveva aperto il capitolo in posa di lettore
accidentale d’un trattato su San Carlo, finisca ora per imbattersi
nella riproduzione tecnica e seriale, sopra delle monete sonanti,
dell’immagine del patrono di Milano.
Eppure, se un giorno la zecca decidesse di emettere un nuovo conio veramente rappresentativo del genus italicum,
forse su quelle monete ci dovrebbero andare proprio Renzo, Lucia, don
Abbondio, don Rodrigo, fra Cristoforo, Gertrude, magari perfino il
miserabile Azzecca-garbugli: magari recuperati direttamente dalle
illustrazioni di Gonin & Co., che Manzoni volle, commissionandole ad
una ad una, per l’edizione definitiva del romanzo. Potremmo addirittura
cavarli, in foggia ancor più allegorica, dalla xilografia luttuosa
che campeggiava sul foglio di guardia della Quarantana e che si
sviluppava tutta in verticale, col titolo dell’opera contornato, come
prescritto dall’amato d’Azeglio, «o di figura o d’ornati seicentisti, o
di qualunque altra mercanzia», ossia di immagini in grado di
richiamare gli «attori» della fabula. Attori che quel frontespizio
barocco e fiammeggiante collocava assiologicamente, in simmetria:
offrendo così una specie di portolano emblematico, una miniatura di
quei «rapporti di forza» su cui poi si sarebbero esercitati interpreti
d’ogni sorta. Il movimento della figura si sviluppava a partire da una
conchiglia che ospitava il provocatore dell’azione, il villain
libertino Rodrigo; su di lui, in linea d’aria, una Lucia in posa
mariana, icona della tristezza e dell’attesa, e ancora più sopra Renzo,
attorniato da due comparse della sua peripezia tra campagna e città; ai
lati, invece, in una disposizione ordinata e armoniosamente alternata, i
perseguitati e i persecutori, gli adiuvanti positivi e quelli negativi,
la tragedia magniloquente della Storia e la piccola commedia della
grettezza quotidiana.
Un polittico trionfale che, certo,
riassume bene l’immagine del romanzo fissata presso la grande comunità
dei lettori. Spesso però si dimentica che quel frontespizio, preso in
sé, non è che una visualizzazione inerte, «istoriata» della «historia»
(tra i due termini si dà una significativa osmosi concettuale, come
osservato da Trama[4])
che Manzoni ha raccontato. Al contrario, esso acquista una dimensione
teatrale e davvero moderna alla luce degli altri frontespizi, con cui
sta in relazione dialettica: non tanto con gli angeli e i demoni che
popolano il frontespizio interno, quanto col capolettera
dell’introduzione e col desertificato frontespizio della Storia della Colonna infame,
che s’accampa senza soluzione di continuità subito dopo l’estremo
errore del protagonista. Questi, nell’ultima vignetta, impettito e a suo
modo monumentale, recita l’omelia del proprio apprendistato: quasi
colonna contro colonna o, se si vuole, la testa e la croce
di quelle monete mai impresse. Insomma, se ci disponiamo a interpretare
questa miriade di segni, siamo portati a pensare che il gioco dei
frontespizi a specchio ci voglia dare un surplus di senso,
erratico e ostinato: quasi il richiamo segreto delle apparenze – dei
catafalchi e degli obelischi, delle sedie e dei tavoli, degli eroi e
degli antieroi – ci voglia insegnare una volta di più, in un altro
linguaggio, che la storia è una guerra forse contro il tempo, forse
contro l’errore.
Questa guerra contro l’errore, Manzoni
la conduceva proprio nel racconto-inchiesta che ricompariva infine,
enfaticamente, dopo il romanzo, in una propaggine saggistica che ne
doveva essere l’estrema parola. Dedicata al monumento che era stato
eretto nel 1630 e atterrato nel 1778, e costituita da un’introduzione e
da sette capitoli, la Storia della Colonna infame era volta a offrire una ricostruzione storica che, a differenza di quanto aveva inteso fare il Verri nelle Osservazioni sulla tortura,
non scagionasse i singoli individui dalle colpe e dall’infamia. Come
l’autore chiariva nell’introduzione, il fatto che la tortura fosse
dovuta alla fatale «barbarie della giurisprudenza e all’ignoranza dei
tempi» non doveva far eclissare «l’ingiustizia personale e volontaria
dei giudici». Si trattava di una violenta chiamata di correità, le
accuse rivolte ai giudici essendo la menzogna, l’abuso di potere, la
violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoperare
doppio peso e doppia misura; accuse non vaghe, ma provocate dallo studio
di una serie precisa e ampia di fonti e di elementi processuali,
indicati con cura nella stessa introduzione. Il testo di Manzoni non
era, infatti, un estemporaneo libello polemico, ma uno studio
appassionato e scientifico, condotto con un pas double:
capitoli “argomentativi” si alternavano infatti a capitoli
“narrativi”. Ciò che mette conto rilevare è come in fondo le due scelte
salienti della Quarantana – da un lato il controcanto illustrativo,
dall’altro la Colonna infame in appendice – sembrino
condividere un’intima propensione della scrittura manzoniana verso
l’immagine: propensione che, certo, era già in origine immanente a essa.
Da quanto fin qui detto, il lettore avrà
capito che non è per partito preso filologico né per feticismo
dell’ultima volontà d’autore che quest’edizione sceglie di proporre il
testo integrale della Quarantana, con l’accompagnamento delle immagini
di Gonin e col contrappunto tragico della Colonna infame. Proprio questa forma
del libro, infatti, è uno dei punti di forza della sua modernità: lo
hanno compreso tutti coloro che hanno cercato di restituire, in rapsodie
critiche o nel corpo-a-corpo del commento, la sua natura complessa di
«audiovisivo», che si rivolge al lettore per parole e per immagini, cioè
lungo la durata della lettura e nell’istante del colpo d’occhio
(secondo la cruciale teoria del Laocoonte di Lessing). E lo
comprese un intellettuale radicalmente «novecentesco» come Leonardo
Sciascia, che non a caso entrò in sintonia proprio col Manzoni studioso
della peste. Ancora oggi, le sue posizioni insegnano molto: insegna
molto che, tra Verri e Manzoni (non del tutto d’accordo circa le
responsabilità di quei gravissimi casi d’ingiustizia che si
verificarono durante la peste milanese), egli scelga di stare non con
l’illuminista ‘ortodosso’, bensì col cattolico: «Più vicini che
all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda
all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni; Manzoni alle
responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana
possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio
nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte». E
all’obiezione che i responsabili di quegli atti giudiziari fossero
uomini di cui tutta Milano riconosceva l’integrità, obiezione avanzata
da Fausto Nicolini nel suo Peste e untori del 1937, lo
scrittore replicava stabilendo appunto un’analogia con l’olocausto e coi
suoi «burocrati del Male». Ecco perché occorreva vigilare, in modo che
non accadesse più che alcuni uomini potessero disporre della libertà e
della vita di altri uomini, e proprio perché ciò può accadere sempre,
«poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato […].
La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre»[5].
Di là da questa coraggiosa
attualizzazione del testo, che lo portava addirittura a stabilire un
parallelismo con il “genere” da lui tenacemente battuto in quegli stessi
anni (il racconto-inchiesta di ambiente giudiziario, con gradienti
diversi di finzione: da L’affaire Moro a Todo modo,
insomma), Sciascia prendeva posizione anche circa la scelta dell’autore
di espungere quel testo dal romanzo, scelta che andava a suo dire oltre
le mere ragioni tecniche: «La forma, che non era soltanto forma, e cioè
il romanzo storico, il componimento misto di storia e d’invenzione, gli
sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del
romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata. E c’è
da credere procedessero di pari passo, in margine alla sublime
decantazione o decantata sublimazione (da nevrosi, si capisce) in cui
andava rifacendo il romanzo, l’abbozzo della Colonna infame e
la stesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze, a
considerare che venivano dallo stesso uomo che stava tenacemente
attaccato a rifare e affilare un componimento misto mentre ne
intravedeva e decretava la provvisorietà e ne preparava uno, per così
dire, integrale da cui l’invenzione veniva decisamente esclusa». Che un
uomo della passione civile e della libertà intellettuale di Sciascia
abbia scritto queste parole, costituisce anche un formidabile azzardo
interpretativo sulla «modernità» di Manzoni, certo difficilmente
sospettabile sotto la pelle del moralista e le posture monumentali.
Forse è tempo che un’interpretazione di
questa modernità si presenti innanzitutto come un discorso morfologico.
Essa dovrebbe interrogare, ad esempio, quella «visione quasi scientifica
dei fenomeni naturali» di cui hanno scritto Raimondi e Bottoni nel
chiosare il notturno dopo il mancato matrimonio a sorpresa: una sorta di
cosalità, nel cui nome si scopre «nelle precise circostanze
fisiche la “sensazione” degli oggetti» e «lo spazio si apre, l’aria
sembra circolare fra le cose, la luce è quella vera di una notte
paesana, esplorata dallo sguardo nella sua profondità»[6].
Di questo sensismo di marca prettamente lockiana – che precipita in
un modo narrativo affine al «realismo atmosferico» teorizzato da
Auerbach[7]
– è corollario quel moto perpetuo del narratore fra interno ed esterno,
che lo induce nella susseguente scena di commiato a concertare le voci e
le sensazioni dei personaggi: facendo di essi una sorta di
super-soggetto unico, saldato in una stabile comunione e condivisione
delle emozioni (tanto da suggellare la sequenza con un congedo «per
delega» dove, con infrazione di un topos antichissimo,
l’amante è surrogata dalla madre). Sul piano della lingua e delle
scelte sintattiche, in quella scena viene configurato – nonostante la
focalizzazione esterna e ‘alta’ – un registro segnatamente e
icasticamente mimetico rispetto alla parlata dei personaggi: si tratta
già di una decisa modulazione di quella particolare tecnica di indiretto
libero (l’erlebte Rede di Spitzer) che spianerà la strada al romanzo naturalista.
Dato che non v’è forma senza ideologia,
quel discorso sulla modernità manzoniana dovrebbe poi cercare di
analizzare quel popolo che in Manzoni sembra talvolta ridotto a res extensa, a pura massa, a lukácsiana «soggettività collettiva» tramutata in oggettività collettiva[8]:
si pensi ai ribelli paragonati a «gocciole sparse sullo stesso pendio»,
con riuso straniante di una vecchia metaforica organicistica. Si tratta
però di un approdo interpretativo fin troppo facile, che si confà al
romanzo, ma al costo di tradirne la cifra più riposta, il radicale
scandalo ideologico. Perché quel popolo può risultare anche detentore di
un discorso alto, come si vede nell’incipit del cap. xiii: un
carnevale degli stili e delle classi, dove al «basso corporeo»
dell’ingresso in scena del vicario (il «chilo agro e stentato d’un
desinare biascicato senza appetito»), «sventurato» come Gertrude e
anonimo come la folla, fa riscontro la marziale prosodia del movimento
corale a seguire, forse memoria di recenti prove tragiche. Come a dire
che in quest’universo finzionale governato dalla mescolanza degli stili,
se i potenti abitano la prosa del mondo, i poveri possono viaggiare
sulle ali del verso. Da tale punto di vista appare significativa la
descrizione, solo poche righe più avanti, dell’opera del
tumulto, cioè dello sfondamento del portone del vicario: un’opera che
prevede, come avrebbe teorizzato Marcuse, principio di prestazione,
divisione del lavoro, stratificazione sociale[9].
Le competenze e le azioni delle diverse fasce della «moltitudine»
disegnano infatti, a seconda degli oggetti e delle tecniche adoperate,
uno straordinario affresco in movimento della complessità, degli
istinti più o meno basici, delle competenze sfalsate di una plebe non
monolitica. Quasi il narratore – muovendo dai «ciottoli» agli
«scarpelli», e poi dalle «unghie» agli «urli» – compia, con sprezzatura
formidabile, una graduale discesa fin dentro le viscere del corpo
sociale.
2.
Sono però i capitoli su Gertrude a
esibire, insieme alle cicatrici di un’autocensura angosciosa, le più
macroscopiche tracce di questa capacità dei Promessi Sposi di
parlare alla nostra sensibilità di uomini di un altro millennio. Proprio
in virtù di tale paradigmaticità, è forse utile anticipare qui, in
forma condensata, alcune delle osservazioni svolte nel commento –
rimandando, naturalmente, a quest’ultimo per una verifica puntuale
sul testo. Scorriamolo subito, allora, questo “dittico” della monaca:
fin dal celebre attacco di capitolo, al cui centro non c’è lei, bensì
l’altra fanciulla perseguitata del romanzo. Quando la barca urta contro
la riva e scuote Lucia, si produce un cortocircuito di azioni e reazioni
che coinvolge oggetti e soggetti, elementi e umori: annullando, di
fatto, gli scarti fra i rispettivi statuti ontologici. Il punto è che la
protagonista non sta realmente uscendo dal sonno; ma giace, come già la fanciulla dell’Incubo di
Füssli, nel limbo immaginario tra il mondo e il suo averno. Così, se
prima aveva posato la fronte sul braccio, «come per dormire», ora è
«come se» stesse svegliandosi: quasi da una fase di dormiveglia
ipnagogico e d’incanto elegiaco fosse chiamata (lei, e con lei il
narratore) alla vita vera, alla materialità del quotidiano, al rigore
della prosa. Ed è proprio qui, in questa visione disturbata, volutamente
non a fuoco, che Manzoni sembra chiedersi e chiederci di che pasta sia
fatta la realtà.
Ciò che cominciava a questo punto era, nel Fermo e Lucia, una sorta di «romanzo nel romanzo» che occupava la maggior parte del secondo tomo; subito prima di esso, una Digressione a carattere saggistico e in forma dialogica (di ascendenza diderotiana) tuonava contro il cattivo gusto romanesque e le sue derive kitsch.
Nella riscrittura Manzoni cassa quel brano, mentre avvolge nel mistero
la “storia vera” di Gertrude, attribuendo alle censure dell’anonimo la
responsabilità delle lacune. Soprattutto, scrivendo che «le avventure di
Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo
tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto
potente, al tempo che l’autore scriveva», egli pone in enfasi
un’autentica parola-spia: perché l’immagine del «viluppo» collima con
la teoria hegeliana della sovradeterminazione che limita e appunto inviluppa l’individuo. Ma essa era già presente, un secolo prima dell’Estetica,
nel sensismo di Condillac: dove però era modulata in modo opposto,
riguardando eminentemente il soggetto, non già la trama della realtà[10].
Ed eccola, finalmente, Gertrude. Da
subito, la sua figura è una specie di ente separato: anche la sintassi
franta del primo predicato che la riguarda («Non c’è che la signora: se
la signora vuol prendersi quest’impegno…») pare rendere pertinente e
sottolineare questo suo carattere di alterità assoluta, ponendola in una
dimensione al di là del bene e del male e fondandone l’enigmaticità sul
piano simbolico; l’antonomasia fissata in nominazione popolare (e
consegnata allo scandalo logico di una unione di articolo determinativo
e di sostantivo iperonimico: «la Signora») replica poi, sul piano della
designazione linguistica, questo fluttuare del personaggio fra
universale e reale. La prima volta che compare nel romanzo, noi non la vediamo: ce ne parla il barocciaio, figura che nel lessico drammaturgico del tempo si sarebbe detto un publique intermédiaire.
Dopodiché il narratore osa una carrellata al rallentatore negli spazi
sinistri del convento, e infine tratteggia quel ritratto che è
giustamente fra i più celebrati del romanzo: e dove ogni cosa –
dall’ossimoro protratto della «bellezza sbattuta, sfiorita e, direi
quasi, scomposta» all’attenzione verso il vestiario, con esiti di
simbolico acromatismo – converge verso una fisiognomica del sintomo, e
non si limita a designare formanti plastici ma tende a sfondarne la
superficie, mirando alla decifrazione del carattere e al pronostico del
destino del personaggio.
La successiva ricostruzione in flash-back del carattere, focalizzata sulla pedagogia della monaca (ciò che gli odierni studiosi dell’età evolutiva definirebbero imprinting:
e si noti che Manzoni già formula una frase come «stampavano nel
cervello della fanciullina»), è all’insegna di una casalinga tortura,
che solleva i giocattoli alla stregua di feticci, che pone in essere
plagi subliminali e iconoduli, che censura le pulsioni del corpo,
traducendole nella simbologia conventuale e imponendone così una
diserotizzazione. Siamo in un guado: se per un verso viene rimarcata la
durezza del «tormento» di un meccanismo che si riproduce fatalmente e
filogeneticamente (come avveniva nella tragedia antica e come accadrà
sempre di più nel romanzo a venire, fino al darwinismo), per altro in
queste pagine sembra preconizzata, con sbalorditiva chiaroveggenza,
l’inclinazione biopolitica di certa psicologia moderna[11].
Manzoni affonda il bisturi nell’intérieur
della donna dal momento in cui la natura e il desiderio, esautorati ad
arte dalla casa del feudatario, s’infiltrano in quell’animo in modo
paradossale, attraverso le confidenze e le prurigini delle educande;
comincia allora una psicomachia tra virtù e desiderio ove
riaffiorano, in una dimensione di luce e non più di ombra, quelle
costruzioni concettuali dicotomiche che erano state impresse
nell’infanzia della giovane: il richiamo delle «immagini maestose» (tra
cui spicca quella della «principessa del monastero», rielaborazione in
chiave fiabesca del monito pedagogico «ricordati che tu devi essere, in
ogni cosa, la prima del monastero») trova un contrappunto e un
antagonista nei luccichii del mondo e della vita del secolo. La reazione
di Gertrude è, nei Promessi Sposi e non ancora nel Fermo,
una sorta di coazione alla scrittura: scrittura intesa non come atto
di libera autodeterminazione ed espressione, bensì come luogo di
soggiogamento, di «trascrizione» passiva e di «sottoscrizione» ingenua.
Con «quella penna fatale», la sventurata-grafomane gioca, anzi ‘tira’
quattro carte: un pasticcio epistolare su cui si chiude il primo tempo
della sua vicenda.
Il secondo si aprirà con la famosa
immagine, mimeticamente duplicata nella prosa che la disegna, del «fiore
appena sbocciato»; più avanti, con la metafora del «ferro da battere
finché è caldo», si trapassa dalla natura alla tecnica, ma sempre
dentro una figuralità spinta e gnomica. Questi due piani metaforici
trovano una sintesi (in senso etimologico) sarcastica solo
poche righe dopo, quando le parole del principe padre producono nella
psiche di Gertrude il medesimo stridore dello «scorrere d’una mano
ruvida sur una ferita». Il carattere di «mascherata» dell’assedio e
della cooptazione della giovane si estende anche agli illogici e
oltraggiosi rituali di designazione della comunità: la monacanda viene
«da tutti salutata» con l’apposizione viscidamente vezzeggiativa di
«sposina». L’anticlimax ironica e straniante impiegata per
definirla («l’idolo, il trastullo, la vittima») lascia subito intendere
che di quella congrega di ipocriti Gertrude non è, in realtà, che il
capro espiatorio; ed è significativo e modernamente perturbante il dato
testuale che nel tricolon manzoniano si accampi, quale mediatore fra i due termini in cui si scinde il paradigma vittimario[12]
(riconducibili rispettivamente alle categorie del culto e del
sacrificio), un lemma situato su un piano diverso: quello del gioco. Ma è
un gioco terribile, davvero unheimliche: giacché «trastullo» è
termine sinonimico di «balocco», e proprio i «balocchi» erano stati,
come si è ricordato, i mezzi più nocivi di una pedagogia scellerata e
volta al plagio. Ormai il circolo dell’identificazione feticistica e
dell’alienazione del soggetto si è conchiuso: Gertrude, questa sorta
di novia narcotizzata, s’è convertita proprio in quella
bambolina che nella trista figura di Gonin sembrava ipnotizzarla. Siamo
ben oltre l’energeticismo delle teosofie amate da Balzac: è roba da
rituali voodoo, da racconti del terrore o, se si vuole, da film dell’orrore. Ma è sempre Manzoni.
Nelle pagine più alte del romanzo il
vecchio e il nuovo convivono. Così, nei capitoli sulla Signora, se il
testo conserva una semiotica tutto sommato convenzionale (anche perché
s’instaura un saldo primato scopico[13]),
il dimidiamento del personaggio si piega alle leggi della «bilogica»
teorizzata dallo psicanalista freudiano ‘eterodosso’ Matte Blanco[14].
È vero tutto e il contrario di tutto; e la successione di rimorso e di
rimpianto, di rancore e di risentimento, di narcisismo e di
annientamento del sé, di autofustigazione e d’invidia, vive tutta,
ancora una volta, nella dimensione dell’imperfetto, che è il tempo
verbale dell’indistinzione e del flusso libero, slegato dagli eventi
della vita reale. Più avanti, nell’atteggiamento labile e
contraddittorio osservato da Gertrude verso le suore, ci si potrà
spingere a diagnosticare una patologia che nel 1840 non era ancora
conclamata: quell’isterismo che di lì a pochi decenni avrebbe
occupato i gabinetti dei medici e le pagine della letteratura. Dalla
«rabbia» e dalla psicosi ossessivo-coattiva Gertrude passerà poi – per
servirci ancora, con ricercato anacronismo, di termini clinici – a un
atteggiamento schizofrenico, convertendo la propria repressione
in repressione dell’altro ed esitando tra un magistero persecutorio e
punitivo, intriso di «spiritualità salvatica», e un’ilarità goliarda
quanto viscida. Forse il solo Flaubert, nel pieno Ottocento europeo, si
sarebbe spinto fin qui.
Ma come si è già detto, nel tratteggio
dei rapporti di forza tra la Signora e le altre figure di quel
microcosmo asfittico il narratore trascorre senza soluzione di
continuità dai caratteri ai sentimenti, dai guasti dell’anima alla
«scala delle temperature» del corpo. Quando, poche pagine dopo, la
monaca regredisce all’iniziale isotopia del candore (che è acquisizione
in toto dei Promessi Sposi, ribadita con forza nel
“medaglione” di Gonin), ciò vale a sancire, sotto l’influsso
dell’immagine scritturale del sepolcro imbiancato, lo scontro vivo fra
il vigore inedito dei sensi e la morigeratezza conseguita nei modi; ma
il punto è che dietro quella scorza di autocontrollo Gertrude resta
passiva, anche perché sotto effetto di sedativi, dalla «chicchera di
cioccolata», solitamente destinata ai soli maschi, alla «bevanda
ristorativa», antidoto ai «tormenti». Questo trattamento farmacologico
invasivo, che contempla placebo e anestetizzanti e che si riverbera
persino nelle metafore trofiche impiegate («masticare», «succiarsi»), è
un’altra traccia della «presa del corpo» – avrebbe detto ancora Foucault
– nel cui segno si compie il plagio della monaca. Insomma, i
dispositivi della biopolitica e le risorse cognitive della bilogica si
sostengono a vicenda, dentro quest’incerto, insospettabile, dissimulato
baratro del moderno.
Molti altri elementi potrebbero
allegarsi a suffragio di questa tesi. Ma è opportuno evitare di spingere
troppo il romanzo dentro il Novecento: perché se è vero che ad alcune
intuizioni la letteratura arriva prima della scienza, lo è altrettanto
che una critica attualizzante rischia di operare proiezioni e
anacronismi. Meglio, allora, sarebbe cercare la modernità del testo
nelle sue reticenze e nei suoi velami: ricordando, ad esempio, che nei Promessi Sposi
la relazione fra Gertrude ed Egidio, così estesa e scabrosa nella
minuta, si contrae in una sola, famosissima frase brachilogica e
sospensiva, il cui soggetto è un aggettivo denominale sostantivato: come
a rilevarne passività e irreversibilità. Ma ancora di più,
bisognerebbe disporsi a leggere nelle crepe dell’incubo di Rodrigo
appestato: perché tra il ’20 e il ’27 avviene il filtraggio e il
prosciugamento di un modello, Il cacciatore feroce di Bürger, tradotto nella Lettera semiseria di Grisostomo. E la censura dell’imagery
del ‘cacciatore cacciato’ si abbatte sugli elementi più caratterizzanti
dell’archetipo, tra cui immagini violente nel gesto e tetre nel
cromatismo: come il «pugno negro» che «sovrasta alle spalle» del
signore o i «mille veltri infernali [che] prorompono aizzati a
fracasso dalla voragine», a replicare il gigantismo ctonio della
«mano di Dio» predicata dal Cristoforo reale nel palazzotto del
signore. In sostituzione di esse, Manzoni sembra ormai optare per
l’inconscio, l’enigma, l’indecidibile dell’allegoria; e per un
nuovo tipo di rilievo plastico, quasi pitturale, soprattutto nella trama
dei colori: «eran tutti visi gialli, distrutti, con certi occhi
incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate», detto degli
appestati, oppure «un non so che di convesso, liscio e luccicante»[15].
Quel sogno raccontato non è moderno perché interpretabile in chiave
freudiana (secondo Lavagetto, anzi, non lo è affatto: in quanto
«epitome» d’una traccia esistenziale, «sembra avere un centro, ma non un ombelico»[16]);
ma perché la censura autoriale dà forma a una visione diafana e
frantumata, e il rimbombo tragico della narrazione è appena
percepibile sotto il suo «susurro fantastico».
Proprio questo «susurro fantastico»,
peraltro, non smette di abitare nel profondo anche noi, che di Manzoni
siamo i figli spesso ingrati. Così, se si volesse discutere in modo
davvero provocatorio non solo l’attualità dei Promessi Sposi,
ma anche la loro capacità – che è tutta da dimostrare – di non restare
lettera morta per un qualsiasi fruitore di oggi, probabilmente
bisognerebbe ripartire da un film di qualche anno fa, Il regista di matrimoni di Marco Bellocchio[17]:
autore la cui poetica recente si è volta a indagare, in sequenza,
alcuni tra i più potenti feticci ed emozioni culturali della modernità
italiana, dalle aporie ideologiche del caso Moro all’obnubilamento di
un intero popolo a opera del Duce, dalla terribile storia di Eluana
Englaro al “tarlo” intellettuale, per l’appunto, dei Promessi Sposi.
E il fatto che in questo santuario di icone incrinate della nazione ci
sia spazio anche per il capolavoro manzoniano (che in definitiva è, a
differenza degli altri, nulla più che un artefatto) indurrebbe anche a
interrogarsi sulle ragioni di tale assunzione, nonché su quella che
definiremo la sua tenuta mitologica.
Protagonista del film è un regista di
fama che, dopo aver ricevuto la commissione di realizzare un ennesimo
sceneggiato a partire dai Promessi Sposi, sviluppa dapprima
un’ossessione nevrotica, popolata da ombre dell’ideologia e
dell’immaginario; poi, come in un accesso di lucida follia,
intraprende, attraverso una ribellione professionale, un percorso di
emancipazione mentale ed affettiva. Assediato dagli abbacinanti
fotogrammi della vecchia pellicola di Camerini tratta dal romanzo
manzoniano, egli sceglie di dileguarsi lontano dal continente, in una
Sicilia tenebrosa e barocca; e proprio sui lidi dell’isola tenta la
strada, solo in apparenza frustrante e regressiva, del regista di
matrimoni. In realtà – ed è questo il senso più urgente fra i molti che
il surreale meta-film di Bellocchio pare suggerire – un operatore di
filmini di nozze, per quanto alle prese con un mestiere più che con
un’arte, è infinitamente meno frustrato d’un qualsiasi lettore o
rifacitore di testi letterari: egli può sistemare i propri elementi dove
vuole, dentro e fuori del campo; può scegliere i tempi e i modi non
solo dell’inquadratura, ma anche di gesti, contatti, movimenti; può
cambiare la storia, facendola apparire, con pochi trucchi di luce, fiaba
o incubo; può perfino giocarvi una parte attiva, alterando i desideri e
i destini dei personaggi. Insomma, un regista di matrimoni può essere
colui che compie dall’esterno la rappresentazione e al tempo stesso
colui che la abita all’interno; a lui è dato di divenirne il soggetto, nel significato ancipite che il termine ha nella nostra lingua – un soggetto che fa
due volte, al di qua e al di là della membrana di celluloide. Così
Franco Elica, fervente anticattolico e depresso cronico restituito alla
vita, fa incontri assurdi e pieni di senso, sventa il matrimonio di una
principessa triste prigioniera d’un signore autoritario, si affranca
infine dal giogo di un romanzo troppo bello e troppo ingombrante, quasi
l’obbligato sillabario del nostro paese (un paese «dove comandano i
morti»: come sentenzia il suo collega Orazio Smamma, datosi alla macchia
pur di vincere qualche premio). Il film di Bellocchio ci dice, con
furore visionario, che I Promessi Sposi, così come ci sono
stati somministrati fin da ragazzi, non possono che frusciare nel nostro
inconscio collettivo in modo indistinto, perturbante, infine molesto:
inducendoci a un atto iconoclasta, come se si trattasse di disinfestarci
di tormentosi fantasmi ideologici ed estetici. Ma anche che proprio
l’opera di Manzoni, se assunta nel modo critico e illuministico che
questi ci ha insegnato, può donarci una insospettata riserva di libertà
e, perché no, di immaginazione sociale.
3.
Sul serio si rischia di capire molto
poco di Manzoni, se non si è mai andati a visitare la sua casa milanese a
via del Morone. Se non si è visto quel banchetto pieghevole (forse un
tavolino da gioco), macchiato d’inchiostro, che dà sul giardino e su cui
la luce del giorno si effonde generosa; se non si è osservato il bel
caminetto, dove papà Alessandro, tra una pipata e l’altra, arse tante
carte del romanzo, prima del tardivo imprimatur[18];
se non si è constatato coi propri occhi che a pianterreno, separata da
un solo corridoio dal gabinetto e dalla biblioteca dello scrittore,
giace la cosiddetta «isola di Giava»: una stanza che per una quindicina
di anni fu abitata da Tommaso Grossi, e che deve il suo soprannome non a
suggestioni esotiche né ai pungoli dell’attualità (perché da pochi anni
l’isola aveva smesso di essere teatro di un’aspra battaglia
colonialistica), ma al fatto che giavanada in milanese sta per
bagattella, spasso da perdigiorno. Ciò che si estende tra quelle quattro
mura sarà allora il tempio del gioco e del plaisir du texte,
di una letteratura che sorride ed esorcizza, che piega i significanti e
rovescia i significati, che inventa possibilità linguistiche e smuove
l’orizzonte del senso. Ma nessun’isola è un’isola: quello spazio ci
ricorda che, a dispetto del titanico ed «eterno lavoro»[19],
Alessandro Manzoni non è affatto un intellettuale isolato, bensì vive
aggregandosi e conversando; è parte di gruppi di pressione, politici e
culturali; risponde alle sollecitazioni del presente; addirittura incide
sulla società, almeno su quella letteraria. In un modo che è il suo, e
che lo porta, per lo stesso ventennio in cui Balzac costruisce mattone
su mattone un’immane casa della narrativa, a tornare sempre allo stesso
rovello.
Proprio il confronto fra i due autori può essere, secondo una bella intuizione di Macchia[20],
estremamente istruttivo. Quei modi opposti di concepire l’esercizio
della scrittura – una coltura massimamente intensiva contro una coltura
massimamente estensiva, si potrebbe dire – hanno a che vedere, infatti,
anche con due modi diversi di nutrirsi (di drogarsi?); cosicché, se
volessimo miniaturizzare in un’ideale composizione di feticci una buona
fetta del romanzo ottocentesco, dovremmo disporre da un lato quella tabacchiera
di Manzoni così cara a Nigro, che contiene figure, idee, motivi della
memoria letteraria e li ricaccia, una volta combusti; dall’altro la
leggendaria caffettiera di Balzac, caricata (per lo più di cose
della vita reale) e vuotata infinite volte, propellente voluttuario di
137 fatiche. Non stupisce che l’incontro milanese fra i due, la sera del
1° marzo 1837, sia stato una specie di dialogo tra sordi. Eppure, come
si evince dall’avvincente racconto di Mariolina Bertini, su qualcosa non
poté non prodursi empatia: ad esempio Balzac, con la sua parlantina da
«mulino a vento» (secondo la testimonianza di Cesare Cantù), lodava i
«personaggi di romanzo che sono personificazioni di idee» e deprecava la
contraffazione libraria, dicendosi «persuaso che tra le potenze si sarebbe fatta una convenzione per impedirla»[21].
E parlava a Manzoni, con gusto e di certo con successo, di bozze: sia
cerebrali, poiché discettava «su quel vago suo panteismo e sulla
cranioscopia» (che aveva già fatto crescere il bernoccolo al vicario di
provvisione); sia tipografiche, visto che gli regalava l’idea di
rielaborare i testi anche sugli «stamponi», inferendo così il colpo di
grazia alla sua maniacalità – oltre che al lavoro dei filologi.
Il fatto è che i due scrittori avevano
molti più punti di contatto di quanto fossero – e di quanto noi siamo –
disposti ad ammettere: ci sono volte in cui paiono addirittura andare di
concerto. L’incorruttibile Azzecca-garbugli, «quel dottore alto,
asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla
guancia» non sembra forse l’allampanato fratello di quello
straordinario personaggio di Illusions perdues che è Séchard,
il cui «naso aveva assunto lo sviluppo e la forma di una A maiuscola, in
corpo triplo, le due guance venate somigliavano a quelle foglie di
vigna piene di gibbosità violacee, porporine e spesso variegate»? E la
serpentina manzoniana, non è la stessa che campeggia nell’esergo della Peau de chagrin? E il gioco al massacro tra la vecchia e Gertrude non ci fa tornare alla mente la segregazione della femme de trente ans? E il modo in cui Renzo viene accolto a Milano, il suo stato civile di forestiero (di selvaggio), non è profondamente balzachiano? Ma soprattutto, gli «animaloni di razze perdute» di cui Manzoni parlava nello Schizzo dell’innominato[22],
non ricordano gli ossi disposti sul tavolino dello scrittore francese
perché conducano, secondo il paradigma paleontologico di Cuvier, a un
insieme autosufficiente? Solo che all’editore moderno della «storia
milanese del secolo xvii» gli ossi non bastano: egli avverte il
bisogno quasi ossessivo di restituire il quadro globale ove
s’iscrivono in modo necessario le vicende che viene narrando. Sul
piano cognitivo, il segmento scheletrico è in sé inerte; da esso
deve muovere una procedura abduttiva, una rigorosa ricostruzione
intellettuale che conduca non già a una sagoma soggettiva, ma alla storia
stessa degli uomini. Forse per questo Balzac redige l’anagrafe della
società contemporanea, mentre Manzoni riesce a malapena a compilare uno
stato di famiglia.
I vezzi e i talismani verbali che don Lisander mette in bocca ai suoi personaggi, invece, ricorderanno piuttosto quelli delle silhouettes
di Dickens. Quando Manzoni ci dice che il curato «aveva poi una sua
sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste
materie: che a un galantuomo, il quale badi a sè, e stia ne’ suoi panni,
non accadon mai brutti incontri» (e, con sorniona ironia, ce lo dice
subito dopo l’intimidazione dei bravi), quella di don Abbondio sembra la
gnome surreale di Sam Weller, il mitico lustrascarpe del circolo
Pickwick. E qualcosa di simile potrà dirsi di Renzo, dentro
quell’osteria di stralunati che porta l’insegna della Luna Piena: nella
città palpitante e tumultuosa la sua eloquenza è per definizione
proverbiale, così che di quella piccola compagnia carnevalesca egli è il «poeta», è colui che, abitando la sdrucciolevole terra di mezzo tra fool e trickster,
dice la verità o comunque ammannisce insegnamenti. Ma anche qui c’è un
elemento che fa la differenza rispetto al sincrono modello dickensiano:
nei Pickwick Papers la parola del narratore non gira mai a
vuoto, e il ludolinguismo sembra essere affare dei pickwickiani, mentre
in Manzoni c’è, piuttosto che la delega, l’assunzione in prima
persona, da parte della voce che affabula, della terribile
responsabilità dell’umorismo. Prendiamo ancora l’«ora topica» della
notte degli imbrogli e dei sotterfugi: dopo un soqquadro di azioni, che
coinvolgono una serie di oggetti – carta, lucerna, tappeto, tavolino,
libro, calamaio, polverino: sette, giusto quanti sono i verba affectuum
che sono stati appena attribuiti a don Abbondio! – si sdipana il
movimento successivo, dove è messo a segno il duplice ‘effetto speciale’
dell’animazione dell’inorganico («il lucignolo che moriva» per
terra, emanando una luce «languida e saltellante») e della simmetrica
siderazione del vivente (Lucia, vittima che non partecipa alla farsa,
sembra per un attimo metamorfosarsi in una statua di creta). Il tutto,
infine, culmina nella bilanciatissima intrusione metalettica sugli
«oppressori» e sugli «oppressi» e nella straniante e colloquiale
sentenza finale, destinata a divenire paradigmatica dell’allegorismo
manzoniano: «Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo». Ancora un minuetto retorico con reticenza e coup d’oeil.
Questo per dire che coesiste con il codice tragico – che nel Fermo
arrivava perfino ad assimilare il forno a un teschio da dramma barocco
– un’attitudine alla commedia umana, quando non alla franca farsa. Nel
romanzo una tale istanza si ritrova, ad esempio, nell’onomastica
inventiva e fiabesca, che mescola marche anagrafiche e appellativi
gergali, passando a pelo e contrappelo il rasoio di Occam: per cui non
sembra darsi scarto significativo tra il cognome parlante Tramaglino,
il soprannome Tiradritto, l’estemporaneo nomignolo agglutinante
Lascifareame, lo pseudonimo e mot-valise Fusella; per non dire del battesimo, degno di una gag
decurtisiana, degli antichi vagheggini della perpetua, Beppe
Suolavecchia e Anselmo Lunghigna. Ma essa si fa strada anche nella
decostruzione degli slogan della rivolta («– Viva il Pane! –
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion
de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per
far vivere il pane»); nell’impiego delle risorse paragrafematiche, in
specie dei punti di sospensione, in funzione di spartito; nel mimetismo
spinto delle parlate popolari e dei codici burocratico e
cancelleresco, di quelle «gride» che gridano e che nessuno ascolta;
nella teatralità dell’impianto, che prevede anche intermezzi
coreografici[23],
calcolati vuoti di scena, acrobatica fra battute, figuranti
iper-tipizzati: come (subito dopo il tumulto del pane) il «padre di
famiglia» e l’«uomo di mondo», ai quali mancano solo dei cartelli
didascalici al collo. O ancora, quel talento ironico e scenico brilla
nella performance attoriale del cancelliere, il quale ostende
la corporeità del dominio (quel «più-di-potere» il cui logos è
«continuo» ma «sconnesso»[24]),
dando vita a un convulso, bilinguistico centone di frasi fatte: esca
infallibile per il «montanaro» Renzo. A sua volta, questo montanaro che è
un orfano, e che se non lo fosse stato avrebbe forse osservato un
altro contegno, appare a tratti, al di là dell’infatuazione per Ferrer,
un agro prototipo del gaddiano Eros e Priapo: proprio lui che poteva essere gladiatore, e che invece, una volta sposo, finisce per ridurre le pretese del suo struggle for life,
badando solo all’adattamento al nuovo ecosistema e, come ci confida
il narratore, alle opinioni della gente del luogo su Lucia (un po’ come
quel povero diavolo che, in un racconto minimo di Carver, resta
malissimo quando scopre che i clienti della tavola calda fanno
apprezzamenti negativi sul fisico della cameriera, cioè di sua moglie). È
una modernità, insomma, che si guarda attorno, ma al contempo si
sbalza in avanti; e che infine s’intreccia alle radici della lunga
storia del racconto: azzardando, ad esempio, riflessioni metaletterarie
lì dove meno te l’aspetti, come nel cicaleccio in funzione diversiva
tra Agnese e Perpetua, che indica l’affabulazione come spazio
dell’infinito intrattenimento e della suspense, della
funzione fàtica del linguaggio, dell’astuto differimento della
malasorte (alla Sherazade), dell’andatura ritmata, a «corserelle e a
fermatine»(alla madonna Oretta).
Ma l’aria di famiglia che I Promessi Sposi condividono
con il canone alto europeo e non, e che oggi possiamo finalmente
(soprattutto dopo gli scavi intertestuali di Raimondi e Nigro)
respirare a pieni polmoni, non deve far dimenticare qualcosa che non
ottunde né ingolfa, come spesso si crede, il realismo manzoniano,
costituendone al contrario una risorsa in più: l’ostacolo linguistico.
Come ci viene spiegato nell’“altra” Introduzione al Fermo,
il dialetto per Manzoni non è un abito esterno, ma un ‘elemento’ quasi
biologico, che, quando dal parlato precipita nello scritto adeguandosi
così alla norma e alla forma dell’italiano, regala alla prosa un «colore
municipale»: quasi non sia che il «fondo» vivo e tumultuoso della
pagina. L’idea è che esistano fra gli idiomi di tutta Italia delle
differenze enormi già nel suono delle parole-cose; e che la
plastica della lingua vada a intaccare il piano dei referenti non come
semplice coloritura o sfumatura, ma con decisivo rilievo semantico,
entro un processo irreversibile e incontrollabile, quasi un movimento
sottopelle. Si vuol dire che senza quel disagio, senza l’attrito con
idiomi non praticabili e la scommessa della creazione d’una lingua viva,
lo scrittore forse non avrebbe potuto tracciare quelle «rughe» del
reale che sono la forza nascosta del romanzo; e che ci possono far
riscoprire a ogni sua pagina, se solo ci si dispone a una lettura priva
di «lame»[25], un altro Manzoni.
Questo altro Manzoni non è,
come ci hanno voluto far credere a scuola, uno sgobbone. Non è una
vestale della fede, né un restauratore della lingua, né un ferrivecchi
dei topoi. Tanto che, quando don Ferrante esce di scena tra i
motivi del melodramma di Metastasio e i toni dell’opera buffa, alla
sua biblioteca spetta, nel sigillo del penultimo capitolo, il micidiale
contrappasso di una metamorfosi in rigatteria bibliografica,
sparpagliata sui muriccioli dei navigli. Così il Seicento muore due
volte: settecentescamente, nel corpo chantant del
personaggio; ottocentescamente, nella dispersione prosaica, e
soprattutto nella borghesissima svalutazione, della sua collezione
libraria. Qualcosa di simile, lo sappiamo, dovrà toccare a molte altre
biblioteche letterarie, a simboleggiare il liberatorio, o piuttosto
distopico, autodafé di un qualche sapere dottrinale: così al maestoso in-folio squartato dai bambini terribili di Novantatré di Victor Hugo, o ai volumi lasciati in eredità dall’aristocratico luminare della Sirena di Tomasi di Lampedusa, e abbandonati poi a marcire negli scantinati dell’Università[26].
È il destino leggero a cui sono condannati tutti i libri, se non
accolgono una qualche verità che trascende il loro tempo; e se qualcuno
non si assume il rischio di amplificarne la voce sottile, dentro il
rumore del presente.
Note
[1] E. Flaiano, Opere. Scritti postumi, a cura di A. Longoni e M. Corti, Bompiani, Milano 1988, p. 723.
[2] Guido da Verona, I promessi sposi. Romanzo, a cura di M. Bruschi, Edizioni Otto/Novecento, Milano 2008, p. 49.
[3] Si vedano, ad loc., i rispettivi commenti, pubblicati da Mondadori, Milano 2002 e da Einaudi-Gallimard, Torino 1995.
[4] P. Trama, Il fuoco e la cenere. Persistenza e funzione di un sistema metaforico nel capitolo XIV dei «Promessi Sposi», in «Otto/Novecento», XXIII, 2 (maggio-agosto 1999), pp. 203-226.
[5] Il brano, come quelli che seguono, è tratto da L. Sciascia, Introduzione ad A. Manzoni, Storia della Colonna infame,
Sellerio, Palermo 1981. Una ricostruzione di notevole originalità e
modernità, estremamente idiosincratica negli assunti come nello stile, è
anche quella condotta da F. Cordero, La fabbrica della peste, Laterza, Roma-Bari 1985.
[6] Cfr., ad loc., il commento Raimondi-Bottoni (Principato, Milano 1987).
[7] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), trad. it. di A. Romagnoli, Einaudi, Torino 1956.
[8] Si rinvia soprattutto a G. Lukács, Saggi sul realismo (1936), trad. it. di M. Brelich – A. Brelich, Einaudi, Torino 1970.
[9] Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), trad. it. di G. Jervis, Einaudi, Torino 1964.
[10] Sul «viluppo» cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2012, p. 32. Quanto a Condillac, devo la suggestione a Silvia Contarini e rinvio al suo “Il mistero della macchina sensibile”. Teorie delle passioni da Descartes a Alfieri, Pacini, Pisa 1997.
[11]
Naturalmente, a questo proposito, accanto alle note tesi di Foucault
sul disciplinamento dei corpi e delle coscienze – cfr., tra i molti
contributi, il classico Sorvegliare e punire. Nascita dalla prigione
(1975), trad. it. di A. Marchetti, Einaudi, Torino 1976 – bisognerà
tener presente anche l’«ortopedizzazione» dell’immaginario analizzata da
R. Barthes, Sade Fourier Loyola (1968), trad. it. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1977.
[12] Osservazioni originali sull’episodio della Signora potranno leggersi – nel solco di un grande libro dimenticato di G. Getto: Manzoni europeo, Mursia, Milano 1971 – in C. Ossola, Protostoria di un romanzo: «I Promessi Sposi», introduzione al volume Alessandro Manzoni, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani, Roma 2012, pp. XV-LXVII (si veda anche, ivi, l’ottimo Profilo biografico
di F. Ursini). Una notevolissima interpretazione in chiave girardiana
dell’intero itinerario manzoniano offre invece P. Frare, La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Olschki, Firenze 2006.
[13] Sul «ruolo del vedere» nei Promessi Sposi, cfr. (con decisive applicazioni del pensiero di Jankélévitch e di Lévinas) M. Palumbo, «I Promessi Sposi» o il romanzo etico, in Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Carocci, Roma 2007, pp. 45-53.
[14] Cfr. soprattutto I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti (1975), trad. it. di P. Bria, Einaudi, Torino 1981.
[15] Cfr. E. Raimondi, Le pietre del sogno, Il Mulino, Bologna 1985; e V. Di Benedetto, Guida ai Promessi Sposi,
Rizzoli, Milano 1999. Per una ricognizione del sistema-bestiario
operante nel romanzo e uno scavo interpretativo circa l’incubo, cfr. il
mio «Un animale selvaggio addomesticato». Il bestiario manzoniano in movimento, «Intersezioni», XXI, 1 (2001), pp. 37-78.
[16] M. Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Einaudi, Torino 1995, p. 279; e, contra, G. Gramigna, Le forme del desiderio. Il linguaggio poetico alla prova della psicanalisi, Milano, Garzanti, 1986, pp. 37-38.
[17] Il regista di matrimoni,
dir. Marco Bellocchio, int. Sergio Castellitto, Donatella Finocchiaro,
Gianni Cavina; Italia: 01 Distribution, 2006; pellicola. Il film è stato
presentato a Cannes nella sezione Un certain regard.
[18] Ce lo ha raccontato, con gusto squisito dell’affabulazione e pari rigore scientifico, L. Toschi nel fondamentale La sala rossa. Biografia dei “Promessi Sposi”, Bollati Boringhieri, Torino 1989 (cfr. soprattutto il capitolo La strategia del caminetto).
[19]
Gioverà ricordare che l’espressione fu adoperata da Manzoni solo nel
1857, e in riferimento ad un’altra opera, rimasta però incompiuta: la summa, progettata in tre libri, Della lingua italiana.
[20] G. Macchia, Manzoni e la via del romanzo, Adelphi, Milano 1994, pp. 109 ss.
[21] M. Bertini, I diritti dell’autore: Manzoni e Balzac, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, III. Dal Romanticismo a oggi, a cura di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 113-118.
[22]
Lo «schizzo» è stato ripubblicato, con opportune mende e più perspicua
scansione paragrafematica, in un volume curato da Luca Toschi (A.
Manzoni, Quell’innominato, Sellerio, Palermo 1987).
[23]
Si pensi alla «chironomia», opportunamente richiamata (in riferimento a
quei coreogrammi di Salvatore Viganò che furoreggiavano nei primi
decenni dell’Ottocento) da Raimondi-Bottoni nel chiosare la concione
economicistica di Ferrer.
[24] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 220.
[25]
La dicotomia fra «rughe» e «lame» venne istituita in una straordinaria
polemica tra Alberto Moravia e Carlo Emilio Gadda di cinquanta anni fa,
a margine della pubblicazione di un «Millennio» einaudiano prefato
dallo scrittore romano e illustrato da Renato Guttuso: su cui cfr. il
raffinato saggio di G. Alfano, Rughe, lame e tenebre del cuore. Gadda legge Moravia (1945-1960), EJGS Issue no. 7 (2011).
[26] Cfr. rispettivamente V. Hugo, Quatrevingt-treize (1874), trad. it. di F. Saba Sardi, Mondadori, Milano 1995, p. 243; e G. Tomasi di Lampedusa, Racconti (1961), Feltrinelli, Milano 2002, p. 126.
[Immagine: Bozze delle illustrazioni per l’edizione dei Promessi sposi del 1840 (gm)]Testo p22 ottobre 2014
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