La legge sul lavoro
(Jobs Act) in discussione alle Camere, secondo uno dei maggiori sociologi italiani, oltre a determinare un ulteriore trasferimento di
ricchezza dai lavoratori alle imprese renderà ancora più problematica la ripresa economica dell'Italia.
L'analisi di L. Gallino a noi sembra seriamente documentata e priva di paraocchi ideologici.
Luciano Gallino
Quei
lavoratori poveri
Uno dei principali esiti
del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto
del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge —
di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca
anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla
contrattazione aziendale e territoriale.
D’altra parte la strada
verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi
interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato
dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto
marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere
la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai
lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite
finanziarie e immobiliari.
Grazie al progressivo
indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in
Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre
100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno
ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento
delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di
reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla
contrazione della domanda interna. Un top manager può pure
guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma
quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà
mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil.
In fondo, è uno degli
scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò
avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla
media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano.
Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in
molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della
povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per
una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di
“lavoratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura.
Alle disuguaglianze di
reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si
aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva
servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per
tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca.
Qualsiasi bene o servizio
un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da
sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese.
Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia
di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri
negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da
ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati,
capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci
paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del
valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica,
può avvenire di tutto.
Che un componente
ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di
prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per
essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti
incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non
sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta
annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali,
temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla
davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi
“lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività,
avranno ben poco da spartirsi.
La Repubblica – 18
novembre 2014
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