Raccolte in un volume,
curato da Luca Lenzini per Mondadori, tutte le poesie
dell’intellettuale italiano. Uno straordinario laboratorio di
scrittura per comprendere il mondo.
Donatello Santarone
Franco Fortini, il
lucido cantore del secolo breve
Il 28 novembre di
vent’anni fa moriva, all’età di 77 anni, il poeta
e critico-saggista Franco Fortini, tra i più
importanti intellettuali marxisti del
Novecento europeo. Delle sue tante attività vanno
ricordate quella di pubblicitario nella
irripetibile «officina» di Adriano Olivetti
(dove era compagno di stanza di un altro poeta, Giovanni
Giudici), di docente negli istituti tecnici di Milano
e provincia e nell’università di Siena, e di
giornalista, in particolare nella veste
di collaboratore assiduo del manifesto (i
suoi scritti dal 1972 al 1994 sono oggi raccolti in due volumi
prefati da Rossana Rossanda con il
titolo Disobbedienze e pubblicati
dalla manifestolibri nel nel 1996 e nel
1997).
L’occasione di questo
ricordo è data oggi dalla pubblicazione
dell’intera opera poetica di Franco Fortini, a cura
di Luca Lenzini, che del poeta fiorentino è uno
dei più colti e sensibili interpreti (Franco
Fortini, Tutte le poesie, Mondadori,
pp. 881, euro 22). Si tratta di un libro che documenta l’intero
percorso poetico di Fortini, dai primi versi degli
anni Trenta, vissuti a Firenze sotto il fascismo, alle
ultime canzonette del Golfo degli anni Novanta, vissuti
a Milano sotto le «guerre umanitarie» degli
Stati Uniti e dell’Europa (scrivendo profeticamente
in una nota che la prima guerra del Golfo del 1991 apriva una «nuova
èra nelle relazioni internazionali»).
L’AGO DEL MONDO
Il volume presenta
inoltre le traduzioni dei suoi poeti più amati,
testimonianza di un cosmopolitismo
interculturale che comprende, tra le altre, la
meravigliosa versione dall’inglese del
poemetto Lycidas di John Milton, un
monologo tragico scritto per un amico annegato e pieno
di allusioni alle vicende politico-religiose del tempo. E poi
Goethe, Heine, Eluard, Brecht ed altri. La funzione
poetico-politica di Brecht, in particolare,«magico
congiungimento di avanguardia e di
umanesimo», ebbe grande importanza nella poesia
di Fortini e nella cultura italiana del
dopoguerra. Come scrive acutamente Luca Lenzini
nella ricca introduzione al volume, «il critico e il
poeta si muovevano in parallelo, e il tentativo
di Fortini di acclimatare Brecht in un terreno
ostile o poco ricettivo faceva tutt’uno con la
fondazione di un alveo per la ricezione di se stesso».
La poesia – «ago
del mondo» — è stata la forma espressiva attraverso
cui questo intellettuale poliedrico ha
testimoniato le sue contraddizioni più
profonde e quelle di un’intera epoca storica che ha
visto nel Novecento l’affermazione e la diffusione
del comunismo come moto di liberazione
universale, di cui Fortini è stato parte attiva
e critica. Questa dimensione universale,
che in Fortini si traduce nell’adesione
all’internazionalismo di matrice marxista, è una
delle componenti fondamentali per penetrare
e comprendere i versi (e le prose) di un poeta
consapevole che «il mondo (…) è e rimane la
nostra unica spiegazione».
L’AVVENTURA DELLA
SCRITTURA
Comprendere se
stessi attraverso la comprensione del mondo, e non
viceversa, significa fuoriuscire, anche in
termini poetici, dalla sublime religione della
poesia, che Fortini eredita dai poeti «puri» e dagli
aristocratici intellettuali fiorentini
degli anni Trenta (quelli esonerati dal servizio
militare, ricorderà Fortini, e a cui prudeva
il panno grigioverde) in direzione di un orizzonte
che fu quello di uno dei suoi maestri, Giacomo Noventa, che
invitava i giovani scrittori ad uscire dal
proprio ego per andare al di là della poesia, per cercare
più in là. Nella storia, nelle forme della produzione,
nei conflitti sociali. Per poi da questi ritornare
alla poesia, alla sua irriducibile specificità
portatrice di un pensiero che spesso confligge
con quello della prosa.
In questa feconda
dialettica, che diviene anche tragica necessità,
risiede la forza ermeneutica e la gioia dell’avventura
formale della scrittura poetica di Fortini. La
quale trae le sue radici profonde dagli anni della guerra
e della lotta di liberazione, dai mesi dell’esilio
a Zurigo, crocevia degli antifascisti
di tutto il mondo, dagli anni della costruzione di un’Italia
democratica, in cui Fortini scopre la funzione
trasformatrice del socialismo e la
riassume in una bellissima immagine di una
contadina che negli anni della liberazione
portava al pascolo il bestiame con un fucile sulle spalle.
Un’immagine, dirà, che riassume il cambiamento
rivoluzionario, che postula l’unità di
passato, presente e futuro.
Quando, con gli
sconvolgimenti dell’Italia resistenziale,
il giovane intellettuale piccolo-borghese scopre,
come sempre egli affermerà, che ci sono uomini e pensieri
che prima di allora non avevano per te importanza e che
ora divengono centrali. «Gli uomini sono esseri
mirabili», scriverà in una poesia dedicata al
filosofo György Lukács. In questa koinè va ricordata
la straordinaria esperienza letteraria
e civile del Politecnico di Elio
Vittorini, di cui Fortini fu uno dei protagonisti.
Quella di Fortini
è una poesia che simultaneamente vivifica
una strada di Firenze e un contadino cubano, una
lampada domestica e un ritratto di Lukács, un
riccio, una rosa, una magnolia e i combattenti
nella guerra civile spagnola, le Alpi Apuane e i salici
della Cina, le descrizioni di amori e amici e la lunga
marcia. Una poesia dove il soggetto si comprende
nell’oggetto, il particolare nell’universale,
l’individuo nella storia. In questa dialettica
vive l’ostinata tensione dei versi di Fortini.
L’orizzonte del «doloroso mondo» è vastissimo.
E ognuno dei paesi, dei personaggi, delle vicende
nominate assume un significato allegorico
e parla a noi. Non si tratta, perciò, di una
curiosità esotica o erudita, ma di una tensione
verso l’altro che serve a capire meglio chi siamo e come
possiamo pensare e agire.
Del rapporto con la
Cina, una di queste fondamentali allegorie
di Fortini, un paese in cui si recherà per la prima volta nel
1955 scrivendo il primo importante reportage italiano
sulla rivoluzione maoista, Asia Maggiore, e per
tanti anni conosciuto anche grazie all’opera mediatrice
di Edoarda Masi, dirà: «è mutato il mio modo di guardarmi
intorno; quella difficile tensione fra similitudine
e diversità, fra comprensibilità
e incomprensibilità mi si accompagna
ormai in ogni lettura, anche se lontanissima da
quel paese e da quella cultura. Non si tratta di leggere
Petrarca o Machiavelli in chiave “sinica”. Per carità.
Ma valutare … quali effetti magnetici si determinano,
anche a nostra insaputa, a partire da quella
massa di passato e di presente».
La dimensione
interculturale e internazionalista
di Fortini si salda con il suo tenace legame con la tradizione
letteraria italiana, vero e proprio
serbatoio di repertori linguistici, metrici,
tematici. Tra gli autori che hanno contato nel
laboratorio poetico di Fortini vanno
sicuramente ricordati Tasso e Manzoni,
presenti in tante forme e in periodi diversi del suo
percorso poetico. Dei rotti, singhiozzanti ma
anche squisitamente melodici endecasillabi
della Gerusalemme liberata di Tasso,
Fortini amava l’irrisolta polarità tra male e bene,
tra ortodossia ed eterodossia, tra dovere
e piacere in cui vedeva riflessa tanta parte del suo
agonismo poetico e ideologico. Dal
perentorio e austero andamento da marcetta
degli Inni sacri di Manzoni, prendeva certe sue
ironiche o cupe invettive, così come dalla
tragicità della Colonna infame un’idea della
storia in cui la presenza del male è ineliminabile
pena la mistificazione consolatoria.
Una visione che ben si adatta a comprendere la
posizione di Fortini nei confronti de socialismo
novecentesco, di cui sono testimonianza
diverse poesie da A Boris Pasternak a Le
difficoltà del colorificio.
LA STATUA DI STALIN
Nonostante la sua
implacabile critica alle degenerazioni
burocratiche e autoritarie di
tanti di quei regimi, Fortini ha sempre lucidamente
ricordato che è con quella storia che noi dobbiamo
fare i conti, una storia di cui si sentiva comunque
parte e che egli vedeva sempre in modo dialettico
e contraddittorio. Ne è chiaro
indizio il soggetto del documentario del
1963 La statua di Stalin, in cui la storia
dell’Unione Sovietica viene ricordata per la mèta che si
proponeva la rivoluzione d’ottobre («mutare in
libere scelte/quello che ancora ci sembra destino») nella
costruzione di un paese che conosce una straordinaria
modernizzazione, che avrà un ruolo determinante
nella guerra antinazista e insieme che sarà
attraversato dalla violenza del gulag
e dall’eliminazione fisica di migliaia di uomini e donne
tra le quali non pochi comunisti bolscevichi.
L’umanità, la
dolcezza, la generosità, la necessaria
durezza e insieme la mancanza di supponenza
e arroganza: queste erano le qualità di un poeta
e di un critico che accoglieva i giovani
nella sua casa milanese di via Legnano senza alcuna mediazione
di partito, di accademia, di ceto. Un uomo che sapeva
donare il proprio tempo, un intellettuale che non
conosceva la stitichezza della relazione (e per
questo scherzosamente era chiamato «Lattes
a lunga conversazione», richiamando
quell’originario cognome ebreo che dovette abbandonare
dopo le leggi razziali del 1938). In una dimensione in cui
ha grandissima importanza il valore autentico
dell’amicizia, il senso fraterno di stare tra compagni
e di condividere «i destini generali» del
nostro tempo.
Il Manifesto – 27
novembre 2014
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