Venezia. Il ghetto oggi |
Se nel Medioevo gli ebrei erano rimasti ai margini della società, è solo con il Rinascimento che inizia una aperta segregazione. Una storia ricostruita nei suoi snodi fondamentali e nelle sue contraddizioni dallo storico Riccardo Calimani.
Paolo Mieli
I medici
ebrei del Pontefice che fece bruciare il Talmud
Il Trecento fu per gli
ebrei un secolo spartiacque. La peste ebbe l’effetto di risvegliare
antiche superstizioni e la leggenda dell’ebreo di Toledo che
avrebbe distribuito a suoi correligionari sacchetti di veleno da
portare in ogni parte d’Europa, per diffondere il morbo e fare del
Continente un immenso cimitero, si diffuse con una velocità
straordinaria. Il duca Amedeo di Savoia fece arrestare alcuni
israeliti che, sotto tortura, «confessarono»: questa ammissione di
colpa fu la «prova» che tutti aspettavano. Contro gli ebrei si
scatenò una tempesta di nefandezze e di morte. È di qui che prende
le mosse uno straordinario libro di Riccardo Calimani, Storia degli
ebrei italiani. L’età dei ghetti: secoli XVI -XVIII , che esce
oggi in libreria per Mondadori.
In terra tedesca si diffuse il fenomeno dei Judenschlaeger , i «flagellanti di ebrei». A Tolone nel 1335 fu intentato per la prima volta un processo contro un israelita accusato di aver diffuso il morbo, che si concluse con la pena del rogo. A Strasburgo, nel febbraio del 1349, duemila ebrei furono dati alle fiamme e i loro beni furono distribuiti al popolo. Da quel momento «nella letteratura e nell’arte», scrive Calimani, «gli ebrei si trasformarono in un fantasma che turbava i sogni di ogni buon cristiano e suscitava inquietudini crescenti, frutto anche, forse, dei sensi di colpa dei persecutori».
Ma — nota Calimani —
fu un Papa del periodo avignonese, Clemente VI (Pierre Roger de
Beaufort), che provò, nel 1348, a contrastare questa deriva con la
pubblicazione di una bolla in cui sosteneva che gli ebrei erano
vittime della peste né più né meno dei cristiani. Come risposta ci
fu chi nel suo mondo insinuò che la peste era stata il castigo di
Dio per la vita mondana dei Papi avignonesi e di papa Beaufort in
particolare. Però, dopo quasi un secolo, fu un altro Papa, Martino V
(Oddone Colonna), che — nota sempre Calimani — cercò di porre un
freno alle violenze antiebraiche, promulgando un’importante bolla
in cui ricordava che il cristianesimo era «nato dal giudaismo» e
che, per i cristiani, «l’esistenza degli ebrei era una
testimonianza indispensabile».
Un grande pregio del libro di Calimani è quello di ricostruire i caratteri dell’avversione cristiana al giudaismo, restituendo, però, ad alcuni Papi il meritato riconoscimento per quel che fecero al fine di mettere un argine alla corrente di odio. Offrendoci con ciò un quadro più sfaccettato e verosimile di quel che accadde. In particolare a ridosso dell’espulsione, dal marzo del 1492, degli ebrei dalla penisola iberica.
L’onda antigiudaica
spagnola del 1492 ebbe ampia ripercussione nell’Italia meridionale,
dove esistevano importanti comunità ebraiche: alla fine del XV
secolo nella sola Sicilia, su una popolazione di 600 mila abitanti,
si contavano 35 mila ebrei (più o meno quanti ce ne sono oggi in
tutta Italia). Ce n’erano a Palermo, Trapani, Sciacca, Marsala,
Termini, Mazara, Agrigento, Licata e nelle isole di Pantelleria,
Gozo, Malta. Nel 1489, il viceré Fernando de Acuña aveva concesso
alle loro giudecche uno statuto piuttosto liberale, in cambio di
corpose sovvenzioni alle imprese militari di Fernando d’Aragona.
Siracusa. Bagno ebraico |
Quando nel 1492 giunse dalla Spagna il decreto di espulsione, Acuña — su sollecitazione di importanti ufficiali del regno — provò a resistere. Non riuscì nell’intento, ma gli ebrei gliene furono grati. A quelli che volevano restare, Acuña propose la conversione. Si sviluppò di conseguenza un imponente fenomeno di marranesimo, contro il quale il tribunale dell’Inquisizione siciliana si adoperò non poco, divenendo «un organo periferico dello Stato imperiale spagnolo, posto al di fuori e al di sopra delle istituzioni civili e religiose siciliane, dipendente dal re di Spagna e dal suo inquisitore generale». La guerra alle finte conversioni fu spietata. Tra il 1500 e il 1782 furono messi al rogo oltre 400 «giudaizzanti» (su 2.098 condannati), di cui ben 80 tra il 1511 e il 1515.
Quelli che fuggirono dalla Sicilia in un primo tempo ripararono in Calabria, a Salerno, Gaeta, Pozzuoli, Castellammare di Stabia e soprattutto a Napoli, dove il re Ferrante, proprio nel 1492, confermò il precedente impegno di garantire i loro diritti. Talché iniziarono ad affluire israeliti anche dalla Spagna (arrivarono ad essere 50 mila), fino al momento in cui un’epidemia di peste interruppe il flusso. In seguito, a partire dal 1500, le regioni dell’Italia meridionale divennero oggetto di contesa tra la Spagna e la Francia, ciò che rese malcerte le condizioni di vita degli ebrei che lì avevano messo radici.
Fino al 1541, quando
giunse, per loro, un bando di espulsione definitiva. Dopo trent’anni
di strenua resistenza, scrive l’autore, «calava il sipario sulla
comunità di Napoli, sulle poche e magari anche importanti famiglie
che avevano cercato di resistere… Molti si diressero verso nord,
verso Roma o Ferrara, altri in direzione dei porti più ospitali nel
Levante, in particolare a Salonicco, dove, alla metà del
Cinquecento, c’erano sinagoghe, a ricordo delle origini dei fedeli,
dal nome molto eloquente: Italia, Sicilia, Puglia, Calabria, Otranto.
Nel giro di pochi anni, agli inizi del Cinquecento, gli ebrei
scomparvero dalle città della Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia
e Sardegna, dove sarebbero tornati, in forma peraltro assai ridotta,
solo nell’Ottocento.
Leone X |
E qui Calimani torna a sottolineare l’atteggiamento assai temperato di molti Papi in queste specifiche circostanze. In primo luogo di Alessandro VI (Rodrigo Borgia), a cui nel 1494 l’ambasciatore spagnolo chiese, «in ossequio alle decisioni del suo re», di espellere gli ebrei fuggiti dal suo Paese, ottenendone, come risposta, un rifiuto. Poi Giulio II (Giuliano della Rovere), che nei confronti degli israeliti «manifestò insospettate aperture, anche nel 1510, quando gli spagnoli conquistarono Napoli ed espulsero gli ebrei».
Ancora Leone X (Giovanni
de’ Medici), il quale conquistò a tal punto gli ebrei che essi
«rivaleggiarono con i cristiani» nell’omaggiare il Papa,
offrendogli in dono stoffe preziose e ricchi ornamenti. Leone X si
spinse a istituire una cattedra di ebraico, e diede l’incarico al
convertito Sante Pagnini da Lucca di tradurre la Bibbia in latino; il
suo medico personale, Bonet de Lattes, rabbino, ottenne grande
considerazione, come è testimoniato da una lettera in ebraico
scritta da Johannes Reuchlin, che lo prega di chiedere al Sommo Padre
di intercedere a che il processo intentatogli dall’Inquisizione
possa svolgersi nella sua diocesi d’origine.
Nel 1518 Leone X concesse
che nella casa in piazza Montanara di Joan Giacomo Fagiot de
Montecchio fosse aperta la prima tipografia ebraica (dove furono
stampate le opere di un autore ebreo romano, Elia di Ascer). L’anno
successivo autorizzò gli ebrei spagnoli a costruire una loro casa di
preghiera, che essi chiamarono sinagoga Catalana-Aragonese. E se
nella memoria ebraica si è depositato un ricordo diverso di quegli
anni, lo si deve al «sacco di Roma» del 1527, quando bande di
mercenari tedeschi e spagnoli agli ordini di Carlo V violentarono la
città, senza fare distinzione tra ebrei e i cristiani. Era Papa in
quel momento Clemente VII (Giulio de’ Medici), anche lui circondato
da medici ebrei quali Jehuda di Rodez (che aveva già servito, in
Francia, Francesco I) e il chirurgo Abraham Cohen
Ebrei spagnoli |
Che cosa fu allora che modificò questo clima? Prima ancora del terremoto provocato da Martin Lutero, il caso provocato, nel 1524, da uno strano personaggio. Veniva da Venezia e diceva di chiamarsi Davide Reubeni. Era «scuro di carnagione, piccolo, nerboruto, simile a un arabo, montava a cavallo con grande perizia, parlava arabo ed ebraico, conosceva bene sia il Talmud che la Qabbalah ». Affermava di essere «l’inviato di Josef, re della tribù ebraica di Reuben, una delle dieci di cui si erano perse le tracce da ventitré secoli e che era nomade in Tartaria». I suoi antenati, diceva, «avevano fondato un piccolo regno situato in una parte lontana e sconosciuta dell’Arabia dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e ora vi vivevano trecentomila abitanti».
Gli ebrei romani furono i
primi a farsi affascinare da quest’uomo «in apparenza molto
osservante», che diceva in giro «di avere un fratello pronto a
mobilitare un grande esercito di ebrei per combattere i maomettani e
liberare Gerusalemme dagli infedeli». Josef Askenazi, che era
insegnante di ebraico del cardinale Egidio da Viterbo, gli diede
ospitalità, e tramite l’alto prelato (ma anche il banchiere Daniel
da Pisa) gli procurò un’udienza da Clemente VII. Il Papa accettò
di incontrarlo e lui giunse accompagnato da dodici rabbini e da molti
giovani pieni di entusiasmo che, tutti assieme, convinsero Clemente
VII a far propria l’idea della crociata. Reubeni ricevette dal
Pontefice una lettera di accredito, con la quale si recò dal re del
Portogallo, Giovanni III.
Questi lo accolse con una
certa diffidenza, «soprattutto», scrive Calimani, «a causa delle
attese che egli aveva saputo suscitare nei marrani portoghesi che al
re davano un profondo fastidio». Reubeni decise di trasferirsi
altrove, ma ottenne di poter lasciare in Portogallo un suo emissario,
il marrano Diego Pires, che in un breve volgere di tempo riprese
l’identità ebraica e cambiò il nome in Salomon Molco. Reubeni
andò a Venezia, ma anche il doge fu assai perplesso
nell’accoglierlo.
Nel frattempo Salomon Molco diventava sempre più importante e non solo in Portogallo. Nel 1530 Enrico VIII d’Inghilterra mandò in Italia suoi ambasciatori, per convincere alcuni dotti cristiani ed ebrei ad appoggiare la sua richiesta di annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per poter sposare Anna Bolena. Sulla questione fu chiesto anche il parere degli ebrei: Giovanni Mantino si pronunciò negativamente e si schierò dalla parte di Clemente VII, ostile all’iniziativa di Enrico VIII; Molco si schierò invece a favore del nuovo matrimonio del re inglese.
Clemente VII |
Clemente VII ne fu contrariato. Ma ancor più lo fu dall’avverarsi di tre profezie di Molco, in quello stesso 1530: lo straripamento del Tevere, un terremoto in Portogallo e la comparsa nel cielo di quella che avrebbe preso il nome di cometa di Halley. Il Papa a quel punto, complice Mantino che gli consegnò alcune sue lettere contenenti oltraggi alla religione cristiana, fece arrestare Molco dall’Inquisizione e, dopo un veloce processo, lo mandò al rogo. Ma, grazie ad uno scambio di persona, Molco riuscì a salvarsi, a fuggire e a ricongiungersi con Reubeni. I due offrirono i propri servigi a Carlo V, che però li fece arrestare e li mise al rogo. Quanto meno Molco (a Mantova nel 1532), dal momento che, non si sa come, Reubeni riuscì a far perdere per sempre le sue tracce. Senza che delle sue genti, di suo fratello in Tartaria e della sua crociata si sapesse più nulla.
Fu anche questo strano episodio a far sì che, nel clima imposto dalla necessità di far fronte all’offensiva luterana, le cose cambiassero nel corso del Pontificato di Paolo III (Alessandro Farnese). «Come è possibile», chiedeva nel 1539 il cardinale Jacopo Sadoleto, «veder perseguitare i protestanti in nome della religione, mentre gli ebrei vengono tollerati?». Papa Farnese rispose, tra il 1542 e il 1543, con tre bolle di esplicita intenzione antiebraica. Si noti che — come ha rimarcato Léon Poliakov nella Storia dell’antisemitismo (Bur) — anche Paolo III, obbediente alla tradizione di cui abbiamo detto, si faceva curare da medici ebrei. Così anche il suo successore Giulio III (Giovanni Maria del Monte), che però, nel 1553, dispose la messa al rogo del Talmud e con esso di tutti i libri in ebraico.
La vicenda ebbe origine da due editori veneziani in concorrenza tra loro, che stamparono due edizioni, con differenti commenti, dell’opera di Maimonide. L’arbitrato sul loro litigio fu avocato a Roma, dove entrambi godevano di «buone relazioni» nell’alta Curia. Tre apostati ex ebrei colsero l’occasione per inserirsi nella controversia e fomentare una polemica di più ampie dimensioni che coinvolgeva il Talmud , nelle cui pagine, sostenevano, si trovavano «espressioni offensive nei confronti dei dogmi cristiani». In agosto Giulio III dispose che il Talmud fosse bruciato e in settembre, a Campo de’ Fiori, furono accatastati e dati alle fiamme libri ebraici di ogni genere.
Il decreto «De
combustione Talmud» che, per la precisione, fu emanato dalla
congregazione dell’Inquisizione romana e successivamente sottoposto
al Pontefice, affermava che il compito della Congregazione non era
solo quello di cancellare l’eresia, ma anche di «vigilare sugli
ebrei» e che il suo proponimento era quello di bruciare i libri
«empi e blasfemi in odio a Cristo», definiti in blocco Talmud . Ciò
che spiega perché a Campo de’ Fiori furono dati alle fiamme anche
testi che con il Talmud non avevano niente a che fare. E perché ogni
sorta di volume ebraico finisse al rogo a Venezia, Pesaro, Ancona,
Mantova e Candia in quello stesso 1553 e a Cremona nel 1559. Dopo la
lite tra gli editori veneziani che aveva scatenato quel pandemonio,
«il bisogno di accrescere l’autorità giuridica rabbinica divenne
più sentito». Nel senso che fu stabilito che «nessun ebreo poteva
far causa a un altro ebreo davanti ai tribunali comuni senza il
permesso dei rabbini e delle comunità».
Poi, durante il breve Pontificato di Marcello II (pochi mesi nel 1555), l’uccisione di un bimbo cristiano provocò risentimenti antiebraici e solo «l’accorto intervento» del cardinale Alessandro Farnese — il quale con un espediente riuscì a smascherare l’autore del delitto, un avvocato arabo spagnolo — impedì che il tutto degenerasse in un’ecatombe di ebrei. Ma il 1555 restò per gli ebrei un anno orribile, dal momento che il successore di Marcello, Paolo IV (Gian Pietro Carafa), con la bolla «Cum nimis absurdum», diede il la a una svolta antigiudaica contrassegnata non già dalla creazione del ghetto di Roma, bensì dal «rogo di Ancona», nel corso del quale furono imprigionate e poi date alle fiamme 24 persone.
Il successore di Paolo
IV, Pio IV (Angelo de’ Medici), diede segno di qualche apertura,
cancellando le limitazioni ai commerci degli ebrei e consentendo la
pubblicazione di qualche loro libro (purgato), purché non avesse sul
frontespizio la parola Talmud . Ma il clima era cambiato. E con Pio V
(Michele Ghislieri) si tornò alle norme di papa Carafa. Nel 1569
Ghislieri promulgò la bolla «Hebraeorum gens», che prevedeva
l’espulsione degli ebrei da decine di città, praticamente tutte ad
eccezione di Roma e Ancona.
Ferrara. Cimitero ebraico |
Fu quella che Calimani definisce «una svolta dolorosa». A cui reagì Cosimo I, granduca di Toscana, concedendo qualche libertà agli israeliti che avessero cercato riparo nella sua terra. Libertà che sarebbero state codificate nel 1593 dal suo successore, Ferdinando I, in uno statuto che avrebbe preso il nome di «Livornina». Uno statuto che offriva agli ebrei di Livorno (ma poi anche di Pisa) libertà di movimento, possesso di immobili, immunità da «alcuna inquisizione, visita, denuncia o accusa». E che considerava il rapimento di bambini ebrei e le conversioni forzate crimini punibili con pene severe.
La «Livornina» rimase
inalterata per due secoli e mezzo, fino al 1836. In nessun Paese alla
fine del Cinquecento, osserva Calimani, «erano previste concessioni
così ampie per gli ebrei». Guyot de Merville, un viaggiatore
francese del Seicento, definì Livorno «il Paradiso degli ebrei». A
metà Settecento gli ebrei di Livorno erano tremila, il dieci per
cento dell’intera popolazione.
L’altra città che accolse gli ebrei, in particolare quelli provenienti da Napoli e dal Sud, fu Ferrara, nel solco aperto già dal 1534 da Ercole II d’Este. Ercole II, in esplicita polemica con papa Paolo IV, aveva accordato agli israeliti i privilegi concessi dai Pontefici che avevano preceduto il Carafa. E per alcuni decenni «Ferrara, grazie agli Estensi, fu l’unico Paese cristiano in cui marrani, sefarditi, conversos , portoghesi o spagnoli, uomini marginali e in difficoltà, trovarono rifugio ed ebbero la possibilità di tornare all’ebraismo, in qualsiasi momento, anche se avevano vissuto da cristiani, non solo in terre lontane ma in quella stessa città».
Venezia. Il ghetto oggi |
Terza importante città che accolse gli ebrei fu, già dal 1502, Venezia, dove nel marzo 1516, su iniziativa del patrizio Zaccaria Dolfin, era stato istituito il ghetto Novo, là dove precedentemente sorgeva una fonderia in disuso (da getto viene il nome ghetto) nella parrocchia di San Geremia. Fu questo il primo ghetto della storia europea. A pretenderlo furono i predicatori francescani, i quali da mesi andavano ripetendo che «la Repubblica, se voleva sopravvivere, doveva riconquistare il favore di Dio e scontare i suoi peccati», tra cui il più grave era quello di lasciare vivere gli ebrei liberi di circolare per la città. Calimani riconosce, però, che, pur con quella limitazione, con l’istituzione del ghetto «gli ebrei videro riconosciuta giuridicamente la loro permanenza a Venezia».
Si trattava di una
«stabilità precaria, carica di tensioni, ma rispetto ad altre
situazioni europee, positiva, tanto che la fama del ghetto di Venezia
si diffuse in tutta Europa e molti nelle comunità della diaspora
furono tentati dall’idea di raggiungere la laguna». La chiusura
degli ebrei nel ghetto, prosegue l’autore, «fu una evidente
discriminazione, ma paradossalmente si trasformò in un’utile
difesa, perché gli ebrei, soggetto politicamente debole all’esterno
delle mura, diventavano, all’interno del recinto in cui erano stati
rinchiusi, autonomi e padroni delle loro azioni, in molti casi ben
più di tanti abitanti e sudditi».
Carlo Emanuele I |
Quarta città che
accolse gli ebrei fu dal 1572 la Torino di Emanuele Filiberto, il cui
successore Carlo Emanuele I nel 1648 concesse ulteriori privilegi e
si oppose perfino alla costruzione di un ghetto. Già dal secolo
precedente il Piemonte e il Monferrato erano stati particolarmente
ospitali nei confronti dei discendenti di David che si erano
stabiliti — in particolare — a Savigliano, Casale, Acqui, Asti,
Moncalvo, Nizza e infine a Cherasco. E questa politica di apertura
aveva provocato decise reazioni della Santa Sede. Ma i Savoia non si
lasciarono intimidire (come si è visto con Carlo Emanuele) e
Francesco d’Este, nel 1652, ne seguì l’esempio. Inoltre, nel
1668, il granduca di Toscana ordinò che fosse bandita ogni forma di
ingiuria e violenza contro gli ebrei.
Calimani mette in evidenza come tra il Seicento e il Settecento anche la Chiesa di Roma non fu univoca nell’osteggiare gli ebrei. La stessa Inquisizione intervenne più volte contro le violenze messe in atto dalla Casa dei Catecumeni per costringere gli ebrei ad accettare il battesimo. Nel 1616 Paolo V (Camillo Borghese) emanò una bolla nella quale denunciava il fatto che «alcuni cristiani, rinnegando la carità e la mitezza cristiana, vessano gli ebrei e li derubano dei loro beni e della loro esistenza» e non «si astengono neppure dal colpirli con violenze, delitti, uccisioni e atti sciagurati indegni del popolo cristiano».
Un secolo dopo, nel 1729,
Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini) ordinò che il carnevale
degli ebrei non fosse oggetto di angherie. E nel 1751 Benedetto XIV
affermò solennemente che gli ebrei non dovevano essere «né
perseguitati, né uccisi, né espulsi»
.
Fu Pio VI (Giovanni Angelo Braschi), il Papa dei tempi della Rivoluzione francese, che compromise il rapporto tra la Chiesa e gli israeliti in virtù del suo «Editto sopra gli Ebrei» (1775).
Fu Pio VI (Giovanni Angelo Braschi), il Papa dei tempi della Rivoluzione francese, che compromise il rapporto tra la Chiesa e gli israeliti in virtù del suo «Editto sopra gli Ebrei» (1775).
Quando, tra il 1796 e il
1799, l’esercito napoleonico calò nella nostra penisola, gli ebrei
furono individuati come complici dell’invasore e le insorgenze
antinapoleoniche ebbero pesanti, pesantissimi tratti antisemiti: a
Pesaro, Urbino, Pitigliano, Lugo, Livorno, Monte San Savino,
Senigallia, Siena, Modena, Reggio, a Napoli e in tutto il Sud. Gli
anni di Pontificato di Pio VI, dal 1775 a quando, a fine agosto del
1799, morì in cattività nella fortezza di Valence, furono molto
negativi per i rapporti tra Chiesa e popolo ebraico.
E questo proprio mentre
in Austria, sulla scia di Maria Teresa, Giuseppe II concedeva (1780)
i pieni diritti di cui godettero gli israeliti di quella parte
d’Italia che ancora per alcuni decenni sarebbe stata amministrata
dall’Impero asburgico. Fu in quel frangente che la storia prese un
passo diverso. Ma, come dimostra in questo importante libro Riccardo
Calimani, viste le premesse dei secoli precedenti, non era detto che
le cose dovessero necessariamente mettersi sotto il segno della
reciproca ostilità.
Il Corriere della sera –
15 aprile 2014
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