F. Goya
Nel 1631 un testo
critica a fondo le indagini basate sull’uso sistematico della
tortura Una voce sostenuta dall’amore per la verità: figlia, ma
non prigioniera del suo tempo.
Claudio Magris
L’avvocato delle streghe
Anni fa, il vescovo di Trieste Lorenzo Bellomi mi raccontò che qualche giorno prima aveva ospitato tre suoi amici, due uomini e una donna, suoi compagni di scuola poi divenuti medici con cui era rimasto in stretti rapporti d’amicizia e che si erano fermati a Trieste, tornando a casa, dopo essere stati a Medjugorje. Durante la cena gli avevano detto, con imbarazzo e senza alcuna enfasi mistica, di aver visto la Madonna, aggiungendo che sapevano bene come lui non amasse quelle cose e fosse alquanto scettico, memore forse che Gesù rimprovera duramente chi chiede miracoli. Bellomi rispose: «Siamo amici da una vita e non mi passa per la testa di non credervi se mi dite di aver visto la Madonna. Se mi dite di averla vista, certamente l’avete vista. Il che non vuole ancora dire che la Madonna vi sia realmente apparsa».
Quel vescovo, ancor oggi ricordato con grande affetto e considerazione, non intendeva certo insinuare che i suoi amici potessero soffrire di allucinazioni. Diceva una cosa molto più generale e importante della fondatezza di quelle apparizioni. Sottolineava un’universale debolezza umana, ossia la difficoltà — difficoltà che riguarda tutti — di vedere la realtà, portati come siamo a vedere ciò che ci attendiamo di vedere, che siamo preparati a vedere e che proiettiamo, in assoluta buona fede, su ciò che ci sta davanti agli occhi e magari è molto diverso.
Capita più o meno a
tutti; ricordo che una volta, raccontando un fatto per fortuna di
minima importanza, ho alterato in piena sincerità un particolare,
deformandolo secondo la mia aspettativa, piegandolo all’immagine e
alla convinzione che c’era già nella mia mente prima di vederlo.
Per fortuna non si trattava di una testimonianza in un processo e
quella mia onesta ancorché deplorevole invenzione non poteva
danneggiare nessuno.
Questa difficoltà di vedere ciò che realmente accade è spesso accresciuta dalla cosiddetta «aria del tempo», dalle convinzioni, abitudini e credenze dell’epoca in cui si vive e che talora illuminano talora appannano la realtà e la sua visione. Non farsi condizionare dai pregiudizi e dalla mentalità del mondo in cui si vive è una delle più ardue e rare virtù, che rivela un’eccezionale libertà e creatività di spirito. Uno dei più grandi esempi di questa creatività — che smonta l’idea della verità quale figlia del proprio tempo — è Friedrich von Spee, un gesuita del Seicento che fu confessore di molte donne condannate al rogo perché streghe.
Figlio del suo tempo e degli idoli del suo tempo, von Spee credeva che potessero esistere streghe e commerci di vario genere con il demonio. Sarebbe stato facile — e, sotto il profilo storico-culturale, comprensibile — che egli, come tanti suoi contemporanei e soprattutto come tanti che si occupavano di quei processi, vedesse delle streghe e degli stregoni nelle persone perseguitate, esaltate, mentalmente e fisicamente malate, spesso repellenti, torturate, ree confesse sotto tortura.
Preparato a incontrare
complici e seguaci del Maligno, von Spee ebbe la straordinaria,
geniale capacità di accorgersi che nessuna di quelle persone
disgraziate e sciagurate era una strega o uno stregone ed ebbe il
coraggio di dirlo e denunciarlo apertamente, in uno scritto, Cautio
criminalis (1631), che rischiò di mettere lui stesso in pericolo e
che è un vero capolavoro di cristiano amore del prossimo e della
verità, di logica incalzante e serrata, di razionalità che non si
lascia abbagliare né intimidire.
Nella Cautio
criminalis — ottimamente tradotta da Mietta Timi già nel 1986 per
la casa editrice Salerno e introdotta con particolare finezza da
Anna Foa — rivive la terribile Germania di quei decenni, devastata
da guerre politiche e religiose che distruggeranno due terzi della
popolazione, lacerata in un caos di anarchia e di violenza cui si
accompagna un incredibile fervore culturale, una fioritura
letteraria, filosofica e teologica che darà i suoi frutti per
secoli, ma non lenisce l’orrore delle stragi, della fame, delle
pestilenze, della morte.
Spee è fermo,
equilibrato ma implacabile nella sua denuncia e nella sua difesa di
martoriati e martoriate innocenti. Contesta la validità delle
confessioni rese sotto tortura, perché — dice — sotto tortura
si finisce per dire e ammettere qualsiasi cosa, pur di farla
cessare, ed ammette di non sapere come si comporterebbe egli stesso
se sottoposto a intollerabili sofferenze.
Da questo punto di
vista, incalza con sottigliezza, la tortura è colpevole perché
induce gli uomini a peccare, a dire il falso, ad accusare innocenti
inceppando così la stessa giustizia, giacché il torturato deve
inventare colpevoli e svia in tal modo le indagini. Descrive con
asciutta efficacia la crudeltà di magistrati inquirenti, anche
sacerdoti, i riti precedenti la tortura o l’esecuzione (la
rasatura delle imputate, i marchi le cicatrici le deformità
interpretati quale opera del demonio, l’implausibile vaghezza
delle ammissioni di aver partecipato al sabba diabolico).
Spee non ha solo un cuore caldo, ha anche una testa lucida ed esperta del diritto. Sostiene il principio della presunzione di innocenza, individua il bisogno che i prìncipi hanno di quei processi ma, politicamente più sottile di loro, pure il danno che tali messinscene dell’orrore recano alla stessa autorità pubblica che li promuove. La Cautio criminalis può gareggiare con la manzoniana Colonna infame , con l’ulteriore merito di essere stata scritta più di due secoli prima.
Spee sa bene come l’Inquisizione non sia solo la leggenda nera creata nei secoli successivi e che la storiografia contemporanea — si pensi, per fare solo alcuni esempi, agli studi di Adriano Prosperi, a un’opera fondamentale come il Dizionario storico dell’Inquisizione da lui diretto, oppure agli studi di Carlo Ginzburg e di molti altri — ha indagato a fondo. Il meccanismo mortale dell’Inquisizione è complesso e comprende — come si vede leggendo il Sacro Arsenale , il manuale per i giudici — anche minuziosi garantismi, quali la necessità di almeno tre testimoni per accusare qualcuno, la verifica dei testimoni stessi e il divieto di suggerire, neppure indirettamente, agli imputati le risposte.
Spee si muove con forza e prudenza in questa selva, inflessibile e insieme avveduto nella sua battaglia. Leggendo le sue pagine così forti e insieme misurate, si vorrebbe sentire anche direttamente la voce delle accusate e degli accusati, le parole rotte e sanguinanti che uscivano dalle loro bocche ridotte, dall’incultura e dalla violenza subita, quasi all’afasia. Andrea Del Col ci ha fatto sentire, nelle sue notevolissime ricerche, queste voci spezzate e balbuzienti — vorremmo poter sentire anche il loro timbro, il loro suono, il loro respiro strozzato. Spee lo ha sentito; le parole di quella gente sventurata gli arrivavano all’orecchio insieme al loro fiato e forse anche questo gli ha dato la forza di battersi, giungendo a dire che vacillino pure i poteri giudiziari se debbono fondarsi su quelle infamie.
Non stupisce che fosse pure un delicato e intenso poeta, che ha cantato l’amore di Gesù e la dolcezza della natura, gareggiando, come dice il titolo della sua principale raccolta di versi che ha un suo posto rilevante nella letteratura tedesca, con gli usignoli. «Deh, lasciati vedere, io cerco te!/ Gridai tosto di nuovo,/ non sole ma solo l’ultime parole/ sentii ripetere, io cerco te». Era figlio del suo tempo. Tutti lo siamo, ma qualcuno, come quei carnefici, è pure figlio di buona donna.
Il Corriere della Sera –
16 novembre 2014
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