La settimana scorsa al Teatro Carignano di Torino gli studi classici sono stati accusati di essere arretrati, obsoleti, nostalgici, inattuali. L'accusa è stata sostenuta dall' economista Andrea Ichino. L'arringa difensiva da Umberto Eco.
L'articolo che segue racconta l'esito del singolare Processo:
Eco difende il liceo classico, ma non disdegna i social: “Anche Gesù parlava in 140 caratteri”
Letizia Tortello su LA STAMPA del 15.11. 2014
«Se fossi stato nei panni della Corte, sarei stato un poco più
severo. I giudici, invece, hanno assolto con formula piena il classico.
La colpa è del pubblico ministero, che ha impostato l’accusa in modo
virulento, in bianco e nero. Non si poteva fare altro che dire: il fatto
non sussiste o non costituisce reato, le accuse non erano fondate».
Umberto Eco commenta a caldo la sentenza che l’ha decretato avvocato
vincitore del processo al liceo classico, la finzione scenica che si è
svolta al Teatro Carignano di Torino. Sul banco degli imputati c’era
l’istituzione scolastica più longeva e discussa. Il liceo classico era
stato trascinato in tribunale dall’economista Andrea Ichino, con
l’accusa di essere «ingannevole, inefficiente e iniquo».
Il dibattimento di questa insolita udienza ha un che di storico: ha il merito di aver radunato in difesa della formazione umanistica alcuni tra i massimi studiosi della classicità e del pensiero scientifico, da Luciano Canfora al matematico Stefano Marmi, al logico Gabriele Lolli, testimoni pro e contro il classico, che sono stati interrogati dal pm Ichino e dell’Avvocato Eco al processo. Ma quest’ultimo non è poi così soddisfatto: «Bene l’assoluzione. La mia arringa, però, puntava a eliminare lo scientifico. Con la prospettiva di un liceo unico, umanistico-scientifico», spiega.
Il professore torna per un giorno nella città in cui ha studiato. Dopo l’arringa appassionata, che ha convinto la Corte, nel pomeriggio si è concesso una passeggiata nei luoghi lontani della giovinezza. Il viaggio comincia dal Collegio Universitario Einaudi di via Galliari 30, di cui il semiologo è stato ospite dal 1950 al ’54. «E’ lì che ho gettato le basi del mio amore per la filosofia», dice. Svestito della toga, si tuffa tra gli studenti che oggi abitano al convitto. E’ come aprire di nuovo la porta dei ricordi. Riaffiorano di colpo le nottate sui libri e le serate a scherzare con gli amici, «a scazzottarci per gioco», racconta, «se non avevamo voglia di dormire ci sfidavamo alla lotta libera». Marachelle di gioventù e ardori di ragazzo, come quelli che gli tornano a mente quando sale «a visitare la sua stanza, al primo piano di fronte alle docce, mi ricordo benissimo dov’è», dice.
Al posto di quelle docce, oggi, ci sono spazi wifi libero e una cucina comune per i ragazzi. Ma «eccola lì, la stanza 122 - salta su Eco –. O forse era la 123? E’ tutto diverso, la mia camera era pre-Ikea». Apre la porta e viaggia nel passato: «Ti ricordi che da quella finestra guardavamo la Feli?», gli suggerisce Annibale Rosignani, ex compagno, oggi psichiatra, già primario alle Molinette. «E’ vero. Diciamo che la Felicita che abitava dall’altra parte della strada era l’unica presenza femminile nel circondario, Il nostro era un collegio maschile, di donne neanche a parlarne», spiega il semiologo. Da quella finestra su via Ormea, Eco scrisse anche «una poesia. Parlava dei comignoli e di cosa si poteva vedere al di là», precisa.
Dal 1954 a oggi ha fatto in tempo a cambiare persino il Teatro Carignano, che il professore frequentava abitualmente con i compagni, «ma non vedevo mai la fine delle rappresentazioni, perché a mezzanotte e mezza dovevamo tassativamente rientrare in stanza. Perdevamo sempre i 5 minuti finali dello spettacolo - dice -. Per tanti anni ho ignorato cosa fosse accaduto a Edipo o ad Amleto». Al collegio di via Galliari, oltre a Eco hanno studiato Claudio Magris, Gian Luigi Beccaria, Massimo Salvadori, Valentino Castellani. La stanza dello scrittore de «Il nome della rosa», al momento, è occupata da una ragazza, e chissà chi diventerà. Lui evoca i bei tempi e si abbandona senza freni alle confessioni: «C’è sempre una sola lampada, di notte la spostavamo per leggere dal letto. Ma soprattutto ora ci sono i bagni. Noi non li avevamo e a volte orinavamo nel lavandino».
Ad attendere il semiologo, invitato insieme a Canfora per un secondo intervento in difesa del liceo classico, ci sono gli amici dell’epoca. Eco li riconosce al primo sguardo: «Ciao, ma sei tu? Giancarlo Coscia. Ti ricordi che nelle foto di classe tu e l’altro Coscia, Gianni, vi mettevate sempre ai lati del preside? Così dicevamo che il preside stava tra le cosce», scherza. I ragazzi del convitto lo interrogano sull’importanza degli studi umanistici. Il diario della memoria non smette di restituire pagine: «Mi sono iscritto a Filosofia perché al classico ho avuto un meraviglioso professore di filosofia che sapeva insegnare. Questo è il problema delle nostre scuole, manca la pedagogia dell’insegnamento. Le università non preparano buoni insegnanti». Il pensiero va a suo padre: «Non aveva molta fiducia in me evidentemente, né che la laurea in filosofia mi avrebbe portato bene. Mi diceva: “Non smetterai mai di prendere il treno alle 5 di mattina, finirai a fare il supplente a Pinerolo. Direi che non è andata così”». In difesa della formazione umanistica Eco dice: «Vorrei vedere quanti start upper, oggi, vengono dal classico e quanti dallo scientifico».
L’ottanduenne professore non si lascia sfuggire l’occasione di parlare dei social network. «Benissimo i 140 caratteri di Twitter, sono un esercizio di scrittura che aiuta la gente a diventare sintetica, quando serve. In fondo, anche Gesù parlava in 140 caratteri: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Breve e c’è tutto». Il pericolo delle reti virtuali? «I social network sono l’universo della solitudine, fanno perdere il contatto umano. Questo è il dramma. Su Facebook puoi innamorarti di un maresciallo in pensione, illudendoti che sia una splendida ragazza bionda. I social non fanno bene né alla scienza né all’umanità. Sono il sostituto, il surrogato del Bar Sport: alla fine della serata tutti sono intervenuti, nessuno si ricorda più cosa è stato detto. La società di oggi ha un gigantesco problema di memoria».
Il dibattimento di questa insolita udienza ha un che di storico: ha il merito di aver radunato in difesa della formazione umanistica alcuni tra i massimi studiosi della classicità e del pensiero scientifico, da Luciano Canfora al matematico Stefano Marmi, al logico Gabriele Lolli, testimoni pro e contro il classico, che sono stati interrogati dal pm Ichino e dell’Avvocato Eco al processo. Ma quest’ultimo non è poi così soddisfatto: «Bene l’assoluzione. La mia arringa, però, puntava a eliminare lo scientifico. Con la prospettiva di un liceo unico, umanistico-scientifico», spiega.
Il professore torna per un giorno nella città in cui ha studiato. Dopo l’arringa appassionata, che ha convinto la Corte, nel pomeriggio si è concesso una passeggiata nei luoghi lontani della giovinezza. Il viaggio comincia dal Collegio Universitario Einaudi di via Galliari 30, di cui il semiologo è stato ospite dal 1950 al ’54. «E’ lì che ho gettato le basi del mio amore per la filosofia», dice. Svestito della toga, si tuffa tra gli studenti che oggi abitano al convitto. E’ come aprire di nuovo la porta dei ricordi. Riaffiorano di colpo le nottate sui libri e le serate a scherzare con gli amici, «a scazzottarci per gioco», racconta, «se non avevamo voglia di dormire ci sfidavamo alla lotta libera». Marachelle di gioventù e ardori di ragazzo, come quelli che gli tornano a mente quando sale «a visitare la sua stanza, al primo piano di fronte alle docce, mi ricordo benissimo dov’è», dice.
Al posto di quelle docce, oggi, ci sono spazi wifi libero e una cucina comune per i ragazzi. Ma «eccola lì, la stanza 122 - salta su Eco –. O forse era la 123? E’ tutto diverso, la mia camera era pre-Ikea». Apre la porta e viaggia nel passato: «Ti ricordi che da quella finestra guardavamo la Feli?», gli suggerisce Annibale Rosignani, ex compagno, oggi psichiatra, già primario alle Molinette. «E’ vero. Diciamo che la Felicita che abitava dall’altra parte della strada era l’unica presenza femminile nel circondario, Il nostro era un collegio maschile, di donne neanche a parlarne», spiega il semiologo. Da quella finestra su via Ormea, Eco scrisse anche «una poesia. Parlava dei comignoli e di cosa si poteva vedere al di là», precisa.
Dal 1954 a oggi ha fatto in tempo a cambiare persino il Teatro Carignano, che il professore frequentava abitualmente con i compagni, «ma non vedevo mai la fine delle rappresentazioni, perché a mezzanotte e mezza dovevamo tassativamente rientrare in stanza. Perdevamo sempre i 5 minuti finali dello spettacolo - dice -. Per tanti anni ho ignorato cosa fosse accaduto a Edipo o ad Amleto». Al collegio di via Galliari, oltre a Eco hanno studiato Claudio Magris, Gian Luigi Beccaria, Massimo Salvadori, Valentino Castellani. La stanza dello scrittore de «Il nome della rosa», al momento, è occupata da una ragazza, e chissà chi diventerà. Lui evoca i bei tempi e si abbandona senza freni alle confessioni: «C’è sempre una sola lampada, di notte la spostavamo per leggere dal letto. Ma soprattutto ora ci sono i bagni. Noi non li avevamo e a volte orinavamo nel lavandino».
Ad attendere il semiologo, invitato insieme a Canfora per un secondo intervento in difesa del liceo classico, ci sono gli amici dell’epoca. Eco li riconosce al primo sguardo: «Ciao, ma sei tu? Giancarlo Coscia. Ti ricordi che nelle foto di classe tu e l’altro Coscia, Gianni, vi mettevate sempre ai lati del preside? Così dicevamo che il preside stava tra le cosce», scherza. I ragazzi del convitto lo interrogano sull’importanza degli studi umanistici. Il diario della memoria non smette di restituire pagine: «Mi sono iscritto a Filosofia perché al classico ho avuto un meraviglioso professore di filosofia che sapeva insegnare. Questo è il problema delle nostre scuole, manca la pedagogia dell’insegnamento. Le università non preparano buoni insegnanti». Il pensiero va a suo padre: «Non aveva molta fiducia in me evidentemente, né che la laurea in filosofia mi avrebbe portato bene. Mi diceva: “Non smetterai mai di prendere il treno alle 5 di mattina, finirai a fare il supplente a Pinerolo. Direi che non è andata così”». In difesa della formazione umanistica Eco dice: «Vorrei vedere quanti start upper, oggi, vengono dal classico e quanti dallo scientifico».
L’ottanduenne professore non si lascia sfuggire l’occasione di parlare dei social network. «Benissimo i 140 caratteri di Twitter, sono un esercizio di scrittura che aiuta la gente a diventare sintetica, quando serve. In fondo, anche Gesù parlava in 140 caratteri: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Breve e c’è tutto». Il pericolo delle reti virtuali? «I social network sono l’universo della solitudine, fanno perdere il contatto umano. Questo è il dramma. Su Facebook puoi innamorarti di un maresciallo in pensione, illudendoti che sia una splendida ragazza bionda. I social non fanno bene né alla scienza né all’umanità. Sono il sostituto, il surrogato del Bar Sport: alla fine della serata tutti sono intervenuti, nessuno si ricorda più cosa è stato detto. La società di oggi ha un gigantesco problema di memoria».
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